Il vento divino delle donne kamikaze

da | Ago 14, 2016 | Editoriali

7 -10 2014

Kamikaze è un parola giapponese.
Significa “vento divino” che come un tifone cancella ogni cosa.
Non a caso fu usata per definire gli attacchi suicidi dei piloti giapponesi carichi di esplosivo, contro le navi alleate in rotta nel Pacifico durante la seconda guerra mondiale.
Da allora gli attacchi suicidi in altre parti del mondo e in altri momenti storici hanno assunto la stessa definizione e i suoi protagonisti sono diventati i moderni “kamikaze”, un fenomeno in crescita ovunque.
Di solito di natura terroristica e militare, hanno assunto anche valore di volontà individuali.
Il vento divino non bada ad identificare chi travolge né chi lo compie; uomini, donne e bambini (che vengono usati come si può usare una qualsiasi altra arma).
Diventare Kamikaze apre le porte del paradiso.
Per tutti coloro che l’incontrano aprono l’inferno.
Chissà cosa avrà pensato Arin Mirkin, la ragazza curda che si è fatta saltare in aria per colpire una postazione di miliziani dell’Isis, uccidendone diversi.
Era destinata all’oscurità di un’orrenda guerra, Arin, se non si fosse massacrata a Kobane, città siriana al confine con la Turchia.
“La prima donna kamikaze nella guerra contro l’Isis”, ha sottolineato la stampa.
Perché molte altre donne curde, combattenti contro questa organizzazione terroristica, ce ne sono, impegnate sul fronte dei combattimenti.

Quello delle donne kamikaze non è certo un fenomeno nuovo.
Esplose per la prima volta, nel 1985 in Medio Oriente, con l’attentato suicida di Sana Khyadali, una giovane libanese di 16 anni che si fece esplodere al volante di un'auto imbottita di tritolo, vicino ad un convoglio militare israeliano.
Dopo di lei fu la volta di altre cinque donne.
Un fenomeno per essere tale, deve espandersi e negli anni successivi prese piede in tutto il mondo (Sri Lanka, Israele, Cecenia, Turchia, India, Pakistan, Uzbekistan e Iraq). Nell'arco di un ventennio, tra il 1985 e il 2006, più di 220 donne kamikaze si sono fatte esplodere.
Forse perché accaduto in Occidente, fece scalpore l’attentato messo in atto da due donne contro la metropolitana di Mosca nel marzo, 2010, in cui rimasero uccise 27 persone.
Terribile nel 2004, il massacro della scuola di Beslan, nella repubblica russa dell'Ossezia (344 vittime tra cui 186 bambini), un atto compiuto da un gruppo di kamikaze tra cui anche due donne mentre diciannove, erano quelle del gruppo di terroristi che nel 2002 sequestrarono 700 persone al teatro Dubrovka di Mosca.
Poi abbiamo conosciuto, le sconosciute “vedove nere” di Allah, come venivano chiamate le combattenti cecene disposte a tutto pur di vendicare mariti, i fratelli e figli morti in guerra, per la loro determinazione alla morte.
In Iraq si cimentò l'ideatore delle martiri, al-Zarqawi e la provincia di Diyala, roccaforte della guerriglia sunnita, era considerata la fucina delle “fidanzate di Allah”.
Nello Sri Lanka, a combattere in un sanguinoso conflitto interetnico, tra il 190 e il 2000 si sono registrati ben 168 attentati suicidi, con almeno un terzo delle circa diecimila tigri costituito da donne, per la maggior parte minorenni.
Le/i kamikaze, si lanciano come armi di morte contro obiettivi militari o contro centri popolosi, usando questa forma di omicidio-suicidio anche per attirare l’attenzione e seminare il terrore.
Ma l’impegno attivo delle donne, nei conflitti armati, è da intendersi anche come partecipazione alla causa comune.
La storia è piena di nomi femminili e di martiri.
Nel nostro Paese, nell’ultima guerra, le donne hanno avuto un ruolo importante nello svolgere del conflitto, nella resistenza, pagando anche con la vita il loro impegno.

Perché se in alcuni paesi, dove religione e ignoranza conducono ad un fanatismo assoluto che può indurre a ricercare una forma di riscatto attraverso azioni considerate eroiche, i motivi che possono spingere una donna a farsi saltare in aria sono, riteniamo, gli stessi che muovono un uomo.
Per ciò che si sta verificando da tempo e oggi in quei paesi, possiamo forse interpretarlo anche come una forma plateale del desiderio di emancipazione che si è affacciato nella cultura islamica, che stenta però a compiersi dovendo fare i conti spesso con una realtà di vita assai discriminante.
Dunque la parità, almeno nel martirio può essere riconosciuta?
No; perché essa si perpetua anche oltre il martirio.
Possibile? Cosa c’è di più penoso che perdere la vita ed abbandonare i propri affetti?
Il “trattamento di fine rapporto”, potremmo chiamarlo.
Ovvero, il sussidio che da riconoscere alle famiglia di queste “donne-bomba”, ridotto alla metà di quello dato alle famiglie di martiri uomini.
Forse Arin, l'ultima kamikaze , viene considerata un caso diverso dagli altri perché non si è immolata per compiere un attentato suicida. Raccontano infatti che abbia compiuto questo ultimo gesto di lotta perché rimasta priva di munizioni, non volendo essere catturata e diventare schiava dei miliziani dell'Isis.
Se questa è la verità su Arin Mirkin, lo sapeva solo lei, e la sua morte, o il suo martirio, potranno essere usati come ad ognuno piacerà.