Il tema del lavoro è da sempre una materia scottante per tutte le sue implicazioni, economiche, politiche e sociali. Trasversalmente ad esso si evidenziano le maggiori difficoltà che le donne affrontano nel doversi accollare quasi sempre un doppio lavoro di gestione familiare e di cura. Neanche la maggiore formazione scolastica e professionale raggiunta le mette al riparo dalle contraddizioni che emergono in un nuovo sviluppo di mercato.
Eppure, se prevalesse come metro di valutazione, il merito si scopre che molte donne alla pari o più preparate dei loro colleghi non riescono a sfondare la soglia meritocratica ed economica. pensiamo ai salari più bassi per le stesse mansioni.
I dati sono spesso contraddittori. Alcuni confermerebbero un notevole avanzamento, altri un’inadeguata risposta.
Intervistare Alessandra Scapin, una donna top manager che ce l’ha fatta, che ha costruito la sua carriera passo dopo passo sul merito e sull’esperienza professionale è una testimonianza che può offrire una “ispirazione”concreta per molte.
ALESSANDRA SCAPIN
Lei ha un curriculum di tutto rispetto: Laureata in Marketing Management a Milano alla Bocconi e un Master al Sole24Ore Business School ha iniziato da subito la sua carriera lavorativa, ancora prima di avere in tasca la laurea effettiva. Dopo un periodo di stage in cui passa in diverse multinazionali importanti, tra cui Heineken, Procter & Gamble e MSC Crociere, inizia la sua esperienza in LABO International come assistente al marketing occupandosi soprattutto dei mercati orientali e della ricerca di nuovi fornitori e partner. Ammetterà che un inizio così brillante non è così scontato o raggiungibile. Nella giovane Alessandra c’era già un progetto personale che l’ha fatta andare in questa direzione?
Raccontata con queste parole effettivamente il mio inizio risulta “scoppiettante”, se così vogliamo dirlo, ma se la gente sapesse quanto ho lavorato duramente per raggiungere determinati traguardi non sarebbe così meravigliata dal mio successo.
In realtà dietro a questo c’è duro lavoro, perseveranza, apprendimento, studio sacrificio e amore per quello che stai facendo.
Vede la mia fortuna è stata il fatto che io ho potuto seguire il mio progetto personale fin da subito, ho avuto due genitori che mi hanno lasciata libera di seguire il mio “io” e sviluppare le mie potenzialità.
Questo mi ha permesso di incanalare tutti gli sforzi verso un’unica direzione.
Non credo di essere una persona dotata di talento, credo di essere una persona ambiziosa. Senza ambizione non si inizia nulla, ma senza lavoro non si finisce nulla. Ambizione e duro lavoro, aprono qualunque porta.
Il mio progetto personale non è mai stato quello di essere una donna di successo, ma una donna di valore. E spero nel mio piccolo di esserci riuscita.
Nel suo percorso professionale, pur avendo ottenuto ottimi risultati ad un certo punto lei sceglie di cambiare azienda. Questa scelta da cosa è derivata? Forse le sua potenzialità non erano riconosciute?
Come dicevo prima, non bisogna concentrarsi solo sui risultati raggiunti ma sul percorso fatto per raggiungerli. E’ la strada che decidiamo di percorrere che ci dice chi diventeremo.
Io ad un certo punto della mia carriera lavorativa mi sono trovata ad un bivio: rimanere in un posto di lavoro che adoravo e rinunciare alla possibilità di carriera nel marketing o rimettermi in gioco e tentare di raggiungere il mio obiettivo.
Scelsi la seconda strada, quella meno battuta ma come dice Zig Ziglar “difficult roads lead to beautiful destinations” e così è stato.
Quello che ho imparato in questo periodo di crescita personale e professionale è che gli ostacoli ci saranno sempre, ma tu li vedi solo se togli gli occhi dalla meta.
Lo dico spesso anche ai giovani tesisti con cui mi relaziono e che si affacciano al mondo del lavoro, che oggigiorno è alquanto aggressivo, che ci saranno sempre pietre sulla strada davanti a noi. Saranno ostacoli o trampolini di lancio; tutto dipende da come le usiamo.
Lei è passata da un’esperienza in Labo International (azienda di cosmeceutica di lusso) in IMG SpA, azienda di stampo internazionale leader nel settore dell’undercarriage. Un’azienda che tratta un’attività complessa di progettazione e produzione di componenti metallici cilindrici. Oltre alle competenze specifiche che il settore richiede, entrare in un modo tipicamente maschile è stata una sfida con se stessa? Quali sono state, se ci sono state, le difficoltà che ha dovuto affrontare?
La mia fortuna è che nonostante il settore, l’azienda per cui lavoro è un’azienda gender equality in tutti i sensi. Un’azienda dove conta il merito e la preparazione e non il fatto che tu sia uomo o donna.
La sfida comunque c’è perché il settore è altamente competitivo e l’azienda sta vivendo un periodo di forte crescita e si sta espandendo verso nuovi mercati e nuovi settori.
Quindi mi sono ritrovata a lavorare in un ambiente dove la componente competitiva è forte e le aspettative alte, ma è proprio questo il bello: alzare l’asticella mi permette sempre di apprendere qualcosa di nuovo e di migliorarmi.
In generale devo dire che le difficoltà delle donne in carriera è che per raggiungere il top nelle posizioni lavorative devono lavorare il doppio per dimostrare il proprio valore.
Ho imparato che le difficoltà fanno parte del gioco, raggiungiamo davvero i nostri obiettivi, non quando evitiamo le difficoltà, ma quando impariamo ad affrontarle senza scorciatoie.
“Per aspera sic itur ad astra.”
Attraverso le asperità si arriva alle stelle. Seneca era ben consapevole di come le difficoltà fossero in grado di forgiare il carattere di un essere umano.
Io devo dire di lavorare in un ambiente con scarsa presenza femminile ma ad alto valore aggiunto, siamo poche donne (pochissime), ma con un atteggiamento solidale e complice. C’è quella competizione sana che ci fa migliorare, e non è affatto scontato.
Mi dica, quali sono le regole che deve accettare suo malgrado? Come donna ha dovuto rinunciare a qualcosa?
Bilanciare la carriera professionale, la famiglia e gli interessi personali è un’operazione delicatissima che sempre più spesso non riesce a molte donne. Il mondo femminile vive da sempre un’eterna battaglia, quella per ottenere gli stessi diritti degli uomini, ma non solo: sconfiggere i datati stereotipi che attribuiscono alla donna le mansioni della cura dei figli e della casa; allo stesso tempo esiste lo standard opposto, quello della donna in carriera, che non ha tempo di pensare alle relazioni e non ha una famiglia.
Io credo che il punto non sia se bisogna rinunciare a qualcosa, ma prendere decisioni allineate ai nostri desideri più profondi, aumentando le possibilità di essere felici.
Poiché dire sì a una cosa può significare inevitabilmente dire no a un’altra cosa, il bilanciamento tra casa e carriera può sembrare un costante tiro alla fune, quindi dobbiamo restare allineate a ciò che vogliamo davvero.
Ergo: c’è sempre una cosa che vogliamo più di un’altra, sempre, anche se è faticoso intuirlo e accettarlo.
Quindi dobbiamo avere il coraggio di scegliere quello che è più in linea con la nostra personalità, i desideri, i bisogni, le aspettative. Non dobbiamo avere paura, fidiamoci delle nostre emozioni, di quello che proviamo. Lì e solo lì ci sono le risposte.
Lei è stata presentata come “top manager donna”, questa precisazione di genere contiene di per sé una limitazione. Che ne pensa? Come vorrebbe che la definissero?
Personalmente non amo le declinazioni al femminile perché credo che in ballo non ci sia solo una parola o una vocale ma tutto un modo di guardare ad una professione.
Non è l’italiano in sé a essere sessista, ma è senz’altro possibile adoperare una lingua in modo sessista, mettendo ai margini uno dei generi, limitandone l’utilizzo in ottemperanza a un’abitudine consolidata e avvertendolo come meno prestigioso dell’altro. Credo che l’uso sessista dell’italiano non è naturale, ma deriva da un retaggio culturale.
Anni addietro non esistevano donne che svolgevano molte delle professioni che ora richiedono una declinazione femminile. Ora (per fortuna) esistono e all’evoluzione sociale dovrebbe quindi seguire anche un’evoluzione linguistica.
La lingua è il mezzo con cui interpretiamo la realtà e tutto ciò che non viene nominato finisce per non esistere.
Le parole non sono mai solo parole: sono ganci verso mondi di significati, e al contempo le parole che usiamo ci definiscono agli occhi degli altri. L’uso di un termine rispetto a un altro è collegato a fattori sociali, culturali, ambientali.
Ma soprattutto, poiché noi esseri umani usiamo le parole per capire la realtà, per concettualizzarla e poterne quindi parlare, ciò che viene nominato si vede meglio, acquisisce maggiore consistenza ai nostri occhi. In altre parole, nominare le donne che lavorano in professioni prima quasi esclusivamente maschili, o che conquistano posizioni apicali che precedentemente erano loro de facto precluse, può contribuire a normalizzare, agli occhi (e alla mentalità) delle persone, la loro presenza.
Ovviamente non basta una declinazione femminile per superare tutte le disparità di genere.
Inclusione, diversità, parità di genere, sono temi di cui si parla sempre più spesso nelle aziende, ma quanto davvero si sta facendo per portare avanti un cambiamento che è molto profondo, perché fondato su un background culturale radicato difficile da modificare?
Nel nostro Paese appena il 18% delle posizioni regolate da un contratto da dirigente sono occupate da donne.
I fatti, purtroppo smentiscono tutte le parole.
Quello che mi auguro per il futuro e che non ci sarà più bisogno di declinare al femminile le professioni, perché ci sarà effettivamente una parità totale in tutti i sensi.
Mi auguro che non ci saranno grandi leader femminili o maschili ma solamente grandi leader.
Come si concilia il privato con gli orari e la mobilità richiesti da una posizione così impegnativa?
La prima cosa o meglio persona che mi viene in mente con questa domanda è mio marito.
Per conciliare vita privata con una posizione lavorativa impegnativa, l’unico modo che conosco è avere al proprio fianco un supporto. Mio marito Gianluca (che per inciso ha una posizione lavorativa impegnativa come la mia), è la mia spalla.
A casa nostra non esistono ruoli o faccende da uomo o da donna, ci si aiuta a vicenda e ci si supporta in base agli impegni lavorativi.
Per entrambi il lavoro è una parte fondamentale delle nostre vite, ma il vero fulcro siamo noi e le nostre famiglie.
Due sono le parole d’ordine per far fronte ad una pozione impegnativa oggigiorno: flessibilità e adattabilità.
Il cambiamento è un dato di fatto nella vita di tutti noi. Viviamo costantemente grandi e piccoli cambiamenti, nella vita privata e nel nostro lavoro. E se questo principio è valido da sempre, oggi lo è più che mai. In particolare le aziende devono adattarsi alle dinamiche di un mercato che si modifica costantemente, aggiungendo ogni giorno nuove complessità da gestire.
Per raggiungere il successo le imprese hanno necessità di “avere a bordo” persone svincolate da schemi precostituiti. Servono risorse in grado di adattarsi alle esigenze dei clienti, alle mutevoli tecnologie e ai nuovi ruoli lavorativi. Devono avere competenze trasversali ma anche conoscenze tecniche e devono sapersi contaminare nel mondo.
La mia idea di fondo è quella di costruire un Better Working World, una nuova dimensione in cui risulta centrale anche l’adozione di un modello di flessibilità nella gestione di tempi, spazi e modalità di lavoro, sulla base di una policy smart working all’avanguardia. L’attenzione alla sfera privata delle persone si riflette su iniziative di policy aziendale in favore della famiglia e dei neogenitori, che prevedono bonus estesi a madri e padri, per avere opportunità e tempo per prendersi cura dei propri figli, oltre a percorsi formativi per vivere l’esperienza genitoriale e trasferire nell’attività lavorativa le competenze sviluppate nella cura della famiglia.
Rispetto alla posizione espressa dall’imprenditrice Elisabetta Franchi. che ha fatto molto discutere, circa la preferenza ad assumere donne che non debbano avere l’impegno della maternità cosa ne pensa? Sono residui culturali, preconcetti o realismo aziendale?
Io credo che la signora Franchi abbia espresso in maniera brutale e con scarsa dialettica la situazione purtroppo realistica della maggior parte delle aziende italiane. Quello che trovo aberrante, non è il realismo con cui ha descritto la situazione attuale ma la forte presa di posizione nel sostenere questi meccanismi arcaici. Personalmente non faccio parte delle donne “anta” e non ho figli ma ho la fortuna di lavorare in un’azienda che applica il concetto di “gender equality” che valorizza le competenze e la preparazione e non il fatto di essere uomo o donna. Questo mi ha permesso di ricoprire il ruolo di direttrice indipendentemente dai “giri di boa” della mia vita.
Quello che la signora Franchi purtroppo, non ha capito è che la vita non è solo dedizione assoluta al lavoro. Io sono quello che sono, grazie e soprattutto alla mia sfera personale, che occupa un posto di primaria importanza nella mia vita.
Da una donna come lei mi aspettavo un atteggiamento totalmente diverso. Essendo a capo di un’azienda avrebbe l’opportunità di riformulare il modello di business creando meccanismi che possano rispettare i diritti delle donne che oltre a un lavoro e a una carriera, hanno anche il desiderio e il coraggio di diventare mamme.
Onestamente parlando, le persone che pensano solo al lavoro mi hanno sempre fatto paura.
Quelle che misurano la loro esistenza sul successo, nella carriera, H24. I miei genitori mi hanno insegnato che il vero punto di arrivo di un individuo è riuscire a trovare il giusto punto di equilibrio tra il lavoro, i figli e magari una volta a settimana una sana bevuta con gli amici di sempre. Quelli che non ti misurano con la metrica della busta paga, per intenderci.
La signora Franchi purtroppo, a mio avviso, è convinta che leadership significhi dominio e potere e non inclusività e apertura. Ecco lei perde qui.
Se lei avesse dei figli pensa che la sua disponibilità al lavoro potrebbe cambiare (riunione serali, viaggi ecc.) o meglio: cosa sarebbe disposta a rinunciare per crescere dei figli?
Partiamo dal presupposto che credo che un figlio sia un atto d’amore assoluto è ciò che mettiamo sopra ad ogni cosa, sempre e per sempre.
La prima cosa però che in questa domanda mi infastidisce è il concetto di rinuncia. Si rinuncia a qualcosa a cui tendenzialmente si tiene e questo molto spesso causa dolore o insoddisfazione. Non augurerei mai alle mie future figlie da adulte di dover rinunciare a un lavoro che amano, per il quale hanno magari studiato molto, faticato, un lavoro che le soddisfa e le gratifica.
Non vorrei che rinunciassero a nulla, per la verità, non solo al lavoro. Vorrei che avessero sempre garantita la possibilità di scegliere, la possibilità di decidere liberamente la miglior soluzione per la loro vita. Ma scegliere significa avere davanti a sé due strade ugualmente percorribili: posso fare la mamma che lavora oppure posso fare solo la mamma.
La grande sfida non dovrebbe essere quella di rinunciare alla carriera per i figli, ma di pretendere che cambino le logiche lavorative attuali e il contesto sociale che rendono difficile, se non impossibile, la conciliazione di carriera e famiglia al punto tale che nessuno dovrebbe sentirsi rivolgere più questa domanda.
Volevo dire che io non lavoro solo per portare uno stipendio a casa, grazie a Dio io lavoro anche e soprattutto perché mi piace quello che faccio, mi fa stare bene e mi rende felice. Perché essere una mamma felice è più importante di essere una mamma a tempo pieno: la serenità di una famiglia passa dalle scelte libere, consapevoli e armoniche in fatto di maternità.
Alle giovani, che vivono un periodo di passaggio tra vecchie e nuove economie, cosa si sentirebbe di dire?
Alle donne che vogliono fare carriera nel lavoro non posso che consigliare di coltivare la propria ambizione, dimostrando con convinzione le loro competenze, senza farsi intimidire da un ambiente circostante eventualmente difficile.
Inoltre, a mio parere, è opportuno selezionare, per quanto possibile, le aziende in cui avviare la propria carriera, scegliendo posti in cui sia premiato il merito e sia più semplice crescere e acquisire nuove competenze.
Se ne ha la possibilità, anche sviluppare qualche esperienza all’estero è certamente un vantaggio: andare in realtà culturalmente diverse, vedere le differenze e portare a casa spunti evolutivi.
In poche parole: mettersi in gioco consapevoli del proprio valore, buttarsi nella mischia e non aver paura dei cambiamenti o di qualche sconfitta.
In particolare dico a gran voce: non abbiate paura di mettervi in gioco, perché è la paura che vi fa perdere numerosi occasioni che poi non tornano.
Lei Alessandra, dalla sua storia so che arriva da una famiglia d’imprenditori, è da qui che deriva la sua dote di leadership? Che caratteristica deve avere un leader per lei?
Dal mio punto di vista, il leader è quella persona che non ha dubbi sugli obiettivi da raggiungere, che sa comunicarli a se stesso e a tutte le persone che lo circondano, che sa motivare i colleghi al raggiungimento delle loro aspirazioni, che sa gestire le proprie emozioni, ma soprattutto che sa essere resiliente. Ovvero deve saper assorbire gli urti della vita.
Leader non si nasce ma si diventa.
Arrivo da una famiglia di imprenditori, soprattutto ho avuto l’esempio di mio padre che oltre ad essere un grande imprenditore è sempre stato un leader e un motivatore.
E’ una persona che ho sempre ammirato molto e da cui ho imparato tanto.
Negli anni ho capito però che per il bene dell’azienda il punto non sia se avere un imprenditore o un manager come capo, ma sia avere un leader come guida.
Credo che il leader sia colui che è in grado di esaltare l’identità, i valori e la storia dell’azienda. Sia in grado di definire gli obiettivi e con chiarezza condividerli con tutti in azienda. Credo che il leader sia colui che si sente alla pari degli altri ma anche ultimo responsabile del bene dell’azienda stessa. Il leader sa che per il bene dell’azienda e necessario il bene dei suoi collaboratori, motivandoli, facendoli crescere, dandogli vera attenzione e condividendo con loro. Il leader è coerente, credibile e da fiducia prima di chiederla. Il leader ammette i suoi errori e ne trae insegnamento.
Io non so se sarò mai un leader come mio padre ma spero essere almeno di essere un punto d’aiuto, di confronto, di condivisione dei miei collaboratori.
Ecco i collaboratori, il team, le persone dell’azienda… è la squadra che conta. Io metto al centro le persone, sempre.