prima donna medico olandese
Aletta Henriëtte Jacobs nacque nel 1854 a Sappemeer, una piccola città olandese vicina a Groningen, ottava degli undici figli del dottor Abraham Jacobs e della moglie Anna de Jongh. A 13 anni rifiutò di frequentare la scuola per signorine alla quale l’avevano iscritta i genitori allo scopo di avviarla come sarta, chiedendo e ottenendo di essere istruita a casa. Dalla madre imparò il francese e il tedesco, dal padre, medico, il greco e il latino. Nel 1870 ottenne di iscriversi all’università di Groningen per un anno, per diventare assistente di farmacia, ma l’anno successivo, dopo aver scritto al primo ministro Johan Rudolf Thorbecke, contro la volontà del padre che pure l’aveva supportata fino a quel momento, riuscì a ottenere il permesso di frequentare il corso di medicina. Aletta Jacobs è stata la prima donna laureata in medicina nei Paesi Bassi, nel 1878.
Conseguì il dottorato nel 1979, ad Amsterdam, nonostante anni difficili legati all’ambiente universitario ostile a al suo precario stato di salute: aveva continue ricadute di malaria e contrasse la tubercolosi, che la portano a un tentativo di suicidio fortunosamente intercettato dal padre. Le difficoltà legate all’ostilità ambientale erano principalmente legate all’idea che una donna non potesse essere un medico e che al massimo poteva dedicarsi a ostetricia e ginecologia, mentre lei voleva diventare medico di famiglia. Non solo: dava scandalo perché amava pattinare, attività considerata inadeguata per una donna, e perché si muoveva per la città da sola. Molestata da un uomo, chiese aiuto ad un poliziotto che la liquidò dicendole che se fosse rimasta a casa il problema non si sarebbe posto. Riuscì ad aprire il suo studio e si dedicò fin dagli anni degli studi alla cura delle donne bisognose di Amsterdam, dalle prostitute a tutte le povere donne che non appartenevano alla classe alta.
A contatto con le donne in città, prese una linea molto fuori dall’ordinario: ferocemente contraria alla prostituzione, che considerava una vergogna legalizzata: le prostitute erano considerate dai suoi colleghi medici necessarie alla salute fisica degli uomini e lei ribatteva che in questo caso i suoi colleghi avrebbero dovuto “destinare le vostre figlie a questa professione, data la nobiltà del ruolo di custodi della salute maschile”; chiedeva migliori condizioni di lavoro per le donne che lavoravano commesse di negozio. Constatò che le commesse, costrette a lavorare in piedi senza nessuna sosta per quindici ore al giorno erano affette da disturbi di ogni genere collegabili proprio a questa condizione, che Aletta Jacobs amaramente commentava come “medicalmente irresponsabile, socialmente irresponsabile, ma giuridicamente possibile”. Nel 1894 promosse il boicottaggio dei negozi che non prevedevano la possibilità di sedersi per le commesse, che le costò feroci critiche dei colleghi medici e da parte della stampa, ma che si tradusse in legge nel 1902: se le commesse olandesi possono sedersi da allora, lo devono a lei. Il contatto con la povera gente della città e l’osservazione come medico di famiglia delle condizioni di salute delle donne, così pesantemente inficiate dall’elevato numero di gravidanze, la spinse a porsi il problema del controllo delle nascite: per merito suo la possibilità di controllare le gravidanze si estese a tutta l’Olanda; il suo studio ad Amsterdam divenne il primo vero e proprio consultorio nel paese, dove le donne potevano richiedere il Mensinga pessary (una sorta di diaframma opera di un ginecologo tedesco dal quale prese il nome, per il quale aveva condotto una sperimentazione di lunga durata con dei volontari) e così imparare come evitare gravidanze indesiderate, dove apprendere le norme igieniche a proposito di gravidanza, parto, puerperio e la cura del neonato.
Queste sue attività le costarono le antipatie dell’establishment medico della città, che faceva propaganda definendola una poco di buono, che voleva le donne adultere e fuori dal loro ruolo, facendo leva anche sulla sua origine ebraica e sull’onnipresente vena antisemita. Aletta Jacobs si sposò infine nel 1892 con Carel Gerritsen, membro del partito radicale e della lega malthusiana, di cui anche lei faceva parte. Aletta Jacobs mantenne il suo cognome e diede il via a una campagna per la rimozione dell’articolo del codice civile che sanciva la sudditanza della donna nel matrimonio, dovendo obbedienza al marito. Il diritto di famiglia in Olanda venne riformato, rimuovendo tra l’altro la posizione di superiorità del marito, solo nel 1957. Aletta e Carel ebbero un unico figlio nel 1893, che visse solo poche ore a causa di un errore dell’ostetrica durante il parto, una beffa del destino per una donna che si occupava proprio di assicurare condizioni di migliore sicurezza nel il parto e nel puerperio per donne e neonati. Scrisse molto, ma la sua opera più famosa è De vrouw. Haar bouw en haar inwendige organen. Aanschouwelijk voorgesteld door beweegbare platen en met geïllustreerden, verklarenden tekst (La donna. Come è fatta e i suoi organi interni. Con immagini e testi su piastre mobili), pubblicata nel 1898. Fu la prima pubblicazione divulgativa sulla donna, con immagini chiare che mostravano come il corpo delle donne è affettivamente fatto, dentro e fuori.
Nel 1903, dopo un peggioramento della salute di suo marito, decise di smettere la sua attività di medico e di dedicarsi alla causa del diritto di volto alle donne. Divenne presidente dell’associazione delle suffragette olandesi e a questo si dedicò nei quindici anni successivi: un incedibile congresso nel 1915 e una enorme manifestazione che si svolse in tutta l’Olanda nel 1916 aprirono la porta al diritto di volto per le donne, ottenuto infine nel 1919.
Nel 1904, dopo un incontro a New York, strinse amicizia con la femminista americana Carrie Chapman Catt e insieme nel 1905, dopo la morte del marito di Aletta, intrapresero un memorabile viaggio attraverso l’Africa e l’Asia, del quale scrisse le memorie. Durante la prima guerra mondiale fu una delle fondatrici della Women’s International League for Peace and Freedom, di cui faceva parte anche Rosa Manus. Morì a Den Haag nel 1929, a 75 anni, dopo una vita piena di difficoltà, con pochi riconoscimenti dei suoi meriti, ma incredibilmente spesa.