Anahita Ratebzad, volto nascosto del femminismo afgano

da | Apr 17, 2018 | Donne dal mondo

di, Nazanin Armanian, pubblicato in PUBLICO. Traduzione di Irene Starace

Anche se hanno voluto cancellare il suo nome dalla memoria della lotta delle donne, è impossibile scrivere la storia dell’ Afganistan senza ricordarla: è stata la prima vicepresidente donna di un governo afgano e anche la prima donna ministro che questo paese ha avuto nella sua lunga storia.

La biografia della dottoressa Anahita Ratebzad (1931-2014) è quella della difficile lotta delle donne afgane per il progresso, oggi coperta da un manto di polvere e cenere dalla “guerra eterna” degli Stati Uniti e dei loro “Jihadisti”.

Anahita Ratebzad

Anahita (nome della dea persiana delle acque pure; Anaìs, in greco), fu costretta a sposarsi con un chirurgo afgano a 15 anni. Negli anni Cinquanta, dopo aver avuto due figli maschi e una femmina, studiò infermeria ed entrò a far parte del movimento per la democrazia e i diritti delle donne. Fu l’ organizzatrice del “movimento contro il velo” nell’ ospedale Aliabad di Kabul, nel 1957, in cui le infermiere riuscirono a curare i pazienti maschi senza doversi coprire la testa. I guardiani dell’ oscurantismo medievale la chiamarono in tutti i modi possibili. Ratebzad fu una delle prime donne afgane a prendere il titolo di medico nel 1962, anno in cui si separò da suo marito, un monarchico accanito, per lanciarsi nella battaglia per la repubblica. Due anni dopo, fondò l’ Organizzazione Democratica delle Donne Afgane (ODMA), formata da centinaia di donne che avrebbero festeggiato l’ 8 marzo per la prima volta. Non sembra vero che la Costituzione del 1964 avesse dichiarato uguali gli uomini e le donne, ma che quella attuale subordini i diritti delle donne alle leggi islamiche, come quella che le obbliga a dormire con il loro stupratore.

La politica socialista riuscì ad essere, nel 1965, una delle quattro donne elette per il parlamento, e senza abbandonare la piazza, cercò di elaborare leggi modernizzatrici che ponessero fine al dominio dei signori feudali e del clero sulla società. Per questo, partecipò alla fondazione del Partito Democratico Popolare dell’ Afganistan (PDPA), che riuscì a prendere il potere nel 1978, motivo per cui gli USA patrocinarono i terroristi “jihadisti” per invadere il paese dal Pakistan. L’ Unione Sovietica ci mise sei mesi a rispondere alla richiesta di aiuto militare di Kabul, per il rifiuto del settore di destra del PCUS, lo stesso che in seguito avrebbe smantellato il socialismo nella stessa URSS.

Nonostante questo, il PDPA intraprese alcune riforme storiche. Nel 1980 Ratebzad divenne ambasciatrice dell’ Afganistan in Jugoslavia, e, un anno dopo, Ministra degli Affari Sociali, con la missione di porre fine all’ analfabetismo del 98% delle donne e di portare l’ assistenza sanitaria fin nell’ ultimo villaggio del paese.

Donne dell’ Afganistan socialista
La Repubblica Democratica dell’ Afganistan (RDA) sostituì i tribunali religiosi con tribunali civili; aumentò l’età per il matrimonio da 8 anni a 16; creò migliaia di posti di lavoro per le donne, con asili inclusi; stabilì il permesso di maternità di tre mesi remunerati; disseminò il paese di scuole; fece sì che alla fine degli anni Ottanta, quasi la metà del personale sanitario, educativo, e il 15% dei giornalisti fossero donne.

L’arrivo della “Guerra eterna”
Ratebzad fu vittima delle purghe interne del PDPA e allontanata dal potere dal presidente Najibullah nel 1986, anche se continuò il suo attivismo fino a che gli USA decisero di sostituire, nel 1992, i jihadisti con i Talebani. Najibullah e altri dirigenti del paese furono assassinati, e lei, dopo che la sua casa fu attaccata da un missile che lasciò sua figlia disabile, andò in esilio in India, poi in Bulgaria e quindi in Germania, diventando una dei 6 milioni di invisibili rifugiati afgani.

Così come l’ assistenza dell’ Unione Sovietica (sotto forma di aiuti economici, borse di studio, ecc.), era stata indispensabile al progresso dell’ Afganistan, la fine del suo appoggio fu un colpo mortale al nascente socialismo afgano; nonostante questo, l’appoggio del popolo al governo fu tale che, tre anni dopo la ritirata dell’ Esercito Rosso, il governo resistette alla pressione di decine di paesi patrocinatori della barbarie “jihadista”.
“L’ obiettivo della mia vita è stato l’ annichilazione del comunismo” ha confessato Michail Gorbaciov anni dopo aver ceduto le conquiste di centinaia di milioni di persone del mondo al capitalismo degli USA senza chiedere niente in cambio; ha aiutato Ronald Reagan a realizzare gli obiettivi strategici degli USA in Afganistan. Dalla caduta della Repubblica Democratica dell’ Afganistan, nel 1992, e dall’ instaurazione di una Repubblica Islamica, centinaia di migliaia di afgane sono state violentate, torturate e uccise dal gruppo Islamisti-NATO. Fu la prima volta che “liberare le donne” fu il pretesto delle imprese di armi e di petrolio per vendere le loro guerre di rapina. La manipolazione per nulla sottile dell’ opinione pubblica ha dato tanti risultati positivi che dichiarano, per bocca di Angelina Jolie, di essere pronti a “liberare” le donne di altri paesi strategici: in una delle punte dell’ iceberg, un sergente degli USA ha ucciso 16 uomini, donne e bambini la notte dell’ 11 marzo del 2015 a Kandahar, dopo averli tirati fuori a forza dai loro letti.

Oggi aumenta la violenza contro le donne (come le loro vendite all’asta in pubblico): solo il 17% delle afgane può leggere e scrivere; la maggioranza di loro non ha accesso all’ assistenza medica, né all’ acqua potabile; sono incarcerate per “comportamento indecoroso”; la loro speranza di vita è di 44 anni; quasi 2.300 donne e bambine si tolgono la vita ogni anno, e ogni mese sono assassinate a centinaia dagli attentati organizzati il cui fine è provocare un caos controllato, dalle bombe della NATO, le mine dei talebani, i delitti d’ onore, o gli stupri perpetrati sotto il nome di ”matrimoni infantili”.

Oggi più che mai si deve dar valore allo sforzo di donne come Anahita Ratebzad, per uno stato laico e socialista.

Nazanin Armanian è una professoressa di scienze politiche iraniana rifugiata in Spagna dal 1983. Ha insegnato alla UNED (Universidad Nacional de Educación a Distancia) e all’Università di Barcellona. Ha pubblicato sedici libri, tra cui Rubaiyyat de Omar Jayyam, Kurdistán, el país inexistente, Irak, Afganistán e Irán, 40 respuestas al conflicto de Oriente Próximo e El Islam sin velo. Tiene sul giornale Público il blog Punto y seguido.

da Bambole spettinate & Diavole del focolare