Produttrice, autrice e conduttrice televisiva
“Viaggio in terza classe”: ritratto a colori di un’Italia in bianco e nero.
Partiamo – è il caso di dirlo, visto il titolo: “Viaggio in terza classe” – dall’inizio, e cioè dalla copertina del libro, scelta, immaginiamo, dall’autrice Marta Ajò, per collocare storicamente il tempo della sua narrazione e comunicarne immediatamente il sapore.
Si tratta di una foto che comprende, sulla sinistra, Bettino Craxi che, seppure confinante con il dorso del volume, si staglia nitido e imponente, come era suo solito; al centro l’ex senatrice Elena Marinucci, sguardo ironico e sapiente, abile politica maturata nelle lotte per il divorzio e per l’aborto e nelle quotidiane battaglie anche interne al suo partito, il PSI, per l’affermazione delle quote rosa, quando ancora il femminismo non parlava di politiche di genere ma di pari opportunità tra uomini e donne. All’epoca della foto, probabilmente, Elena era già stata nominata Responsabile femminile nazionale del Partito e la sua aria vigile ma parzialmente soddisfatta sembrerebbe confermarlo.
Sulla destra, al limitare della copertina, quasi in bilico sull’orlo del nulla, appare Marta, assorta ma dimezzata; facciamo in tempo a scorgerne il braccio e una parte del volto, incorniciata da una massa di capelli probabilmente biondi, visto che la copertina, particolare non irrilevante, è in bianco e nero.
Quando poi, con la citazione della casa editrice “L’Eurudita”, troviamo l’indicazione della provenienza della foto – “archivio personale dell’autrice” – ci convinciamo che la scelta di quell’istantanea non è stata casuale; anzi quel posizionamento laterale, defilato, forse costituisce già un’ indicazione di lettura, un suggerimento per afferrare, e nel caso condividere, lo stato d’animo che questo scritto ha ispirato e percorso.
Io Marta l’ho conosciuta già così, quando era una donna affermata, con un suo peso politico e culturale, ascoltata dirigente del partito, presente nel dibattito pubblico in particolare sui temi che riguardavano la condizione femminile e il ruolo delle donne nella storia anche del suo partito, tema al quale aveva dedicato un interessante e documentatissimo libro: “La donna nel socialismo Italiano tra cronaca e storia 1892-1978 “, arricchito dalla prefazione di Riccardo Lombardi.
Era, e lo è ancora, una donna bellissima, consapevole dei potenziali effetti di questa dote naturale, ma anche, sempre, piuttosto sorpresa dal loro esternarsi. Sembrava più propensa a pensare: “ma non mi confonderà con qualcun’altra? ma che, dice proprio a me?” piuttosto che ad ostentare la sicumera di chi sa utilizzare la bellezza come un’arma.
Non era e non sembrava, allora, tra la fine degli anni settanta e i primi ottanta, una viaggiatrice di terza classe, ma è pur vero che, allora, le politiche femminili venivano vissute all’interno dei partiti, anche di sinistra, come un’indulgente concessione alle “compagne che sbagliano”, non immune dal sospetto che il tema venisse cavalcato per ottenere spazi di crescita personale.
La battaglia perciò, prima che nella società, cominciava all’interno dei partiti, vincendo resistenze e degnazioni forse più evidenti in quello socialista che in quello comunista, non per una superiorità del secondo, ma per una vincolante e diffusa supremazia, nel PCI, della struttura partitica che, anche nei confronti delle rivendicazioni delle compagne, finiva con l’inglobare dissensi e differenze.
Lo spirito libertario che dominava la narrazione, come oggi direbbe qualcuno; l’identità, come sarebbe preferibile definire quella temperie culturale e ideologica che caratterizzava la comunità socialista, favoriva il fluire di spinte autonome e sensibili ai richiami dei movimenti femministi che, a Roma, godevano anche del consenso e dell’appoggio di alcuni esponenti socialisti come l’allora vicesindaco Alberto Benzoni, il cui operato fu decisivo per le sorti della Casa delle Donne di via del Governo Vecchio.
Furono tempi eroici, ma non lo sapevamo; che uno come Silvio Berlusconi, padrone di tre televisioni sarebbe diventato Presidente del Consiglio, non lo avremmo creduto mai, neppure come grottesco antefatto di una barzelletta; che tanti socialisti, anche lombardiani, lo avrebbero seguito, non l’avremmo sognato neppure nelle notti di incubo.
Guardando e riguardando la foto, nel tentativo di comprendere i miei sentimenti al ricordo di quei giorni, una cosa mi è chiara e segna la distanza dai tempi attuali: io, militante come tante, una come lei, dirigente del partito, la potevo incontrare facilmente: bastava andare alla Federazione di via del Corso, chiedere dove si riunivano le donne, e salire. I partiti servivano anche a questo: il gruppo stava lì, composto di correnti diverse, di diverse opinioni, aperte al dialogo con le donne del PCI o refrattarie alla solidarietà a sinistra; ma tutte sullo stesso piano: la gerarchia non dipendeva dagli incarichi di partito, l’autorevolezza si guadagnava sul campo.
Scrive bene Marta Ajò: ” Non racconterò dei rossori sui volti animati di giovani arrabbiate, consapevoli della durezza di quello scontro che prometteva di lasciare qualche cadavere lungo il suo cammino.
Non potrò ricordare le lunghe, animate discussioni fino a tardi, saltando i pasti e tralasciando gli affetti. Non potrò raccontare dello spirito di democrazia, uguaglianza, e di servizio che era in quelle donne per lo più rimaste sconosciute. Quei volti, le parole e i loro respiri, dietro e con me, sono in me”.
Sfidando il pericolo della retorica, l’ironia di chi ignora la bellezza di una stagione fremente di novità e partecipazione, armata del coraggio di una storia personale e collettiva che, rimossa e coperta di ignominia, i militanti per bene del partito socialista hanno dovuto riporre nel cassetto dei ricordi, Marta Ajò ripercorre la sua esperienza di vita che, come è accaduto ad una generazione fortunata, si è identificata per un lungo tratto, con quella del paese, ne è stata specchio e proiezione.
Fortunata si; e, al netto delle disillusioni e delle fatiche che Marta sottolinea, sono convinta che la pensi così anche lei. Una fortuna che le nuove generazioni non conoscono e l’espediente narrativo che Marta trova per condurci nel suo personale viaggio in terza classe, ne dà conto.
Invitata a Palazzo San Macuto, all’ennesimo convegno sulla condizione femminile, dove è facile che qualcuno proponga novità vecchie di anni, Marta riflette, mentre le relazioni si susseguono, sugli eventi del passato, sul ritmo del presente, sulle prospettive del futuro.
La sollecita il rituale di quelle occasioni pubbliche che sgranano gli interventi dei politici indaffarati, che parlano e se ne vanno senza ascoltare gli altri; delle esperte, tutte teoria e distintivi; delle giovani “indignate” che danno per acquisite conquiste costate collere e fatica.
“E prima? Chi ha spianato la strada prima? Chi ha viaggiato, sempre in terza classe, per correre da una parte all’altra del Paese, per seminare? Chi ha lottato contro gruppi dirigenti ottusi e prepotenti? Nessuna? Nessuna donna è esistita prima di oggi? Chiudete pure gli occhi” ma taccio. Per quanto mi riguarda tutto è finito in un bagno di rosso sangue e garofani rossi appassiti. Amen”.
Per tutto il libro, Marta sembra lottare contro se stessa, per farsi diffidente nei confronti di quell’impegno politico che è stato fonte di conflitti privati, gravi pegni da pagare ai rapporti d’amore, alla figlia, alla libertà personale. Come un bagaglio troppo pesante da trascinarsi in quella terza classe riservata agli idealisti, che somigliano tanto agli sprovveduti.
Più volte, alla furbizia di chi sa posizionarsi, di chi sceglie sempre l’alleato vincente, di chi ricava onori e prebende, Marta, delusa dagli esiti della realtà politica, contrappone il valore di un’integrità morale destinata ad essere perdente.
Avanza il bianco e nero di una realtà che punisce, con il PSI, molti dei suoi esponenti migliori: “Essere stata socialista negli anni successivi era come avere ancora una malattia infetta da cui era meglio stare alla larga”.
Sembra arrivato il tempo di abbandonare il colore della speranza.
Ma chi conosce Marta sa che non è così; sa che l’urgenza di esserci, di testimoniare, di confrontarsi e dialogare è un suo tratto distintivo ineliminabile, in parte caratteriale, ma in parte frutto di una formazione politica che si è giovata di buoni maestri, a partire dalla figura paterna. “Quando un compagno ti mette una mano sulla spalla, devi essere orgogliosa e sentirti al sicuro” diceva lui, ebreo, partigiano nella Resistenza Apuana: come non raccogliere questa esortazione? Come non farne un modello di vita, al di là delle sorti di leader e di partiti?
E’ per questo, credo, che senza infingimenti, a viso aperto, Marta Ajò affronta anche il tema della corruzione, va oltre quel “non potevano non sapere” e arriva al riconoscimento di uno stile di vita e di lotta politica che fece del finanziamento occulto una pratica diffusa e consapevole, la cui responsabilità ricade su tutti ma in proporzione alle responsabilità e ai privilegi.
La descrizione che Marta ci propone della gloria e del declino di Bettino Craxi è tra le pagine migliori del libro, il cui pregio maggiore, a mio avviso, è quello di proporre una narrazione in cui Marta è lì sempre, tutta intera, anima, mente, corpo, mai dimenticando, in una prospettiva francamente femminile le implicazioni fisiche degli eventi, l’intreccio tra realtà sociale ed emotiva, la percezione di sé e del proprio corpo in relazione agli altri. La sincerità del suo approccio le fa onore: “Non ho più voglia di bei vestiti. Non ho più voglia di perdere tempo a pensare a cosa indosserò. Mi sento goffa sotto le coperte come quando ero ragazzina. Penso che mi sentirò goffa fino all’ultimo giorno e non potrò farci niente”.
E’ con questa totale consapevolezza di sé, dei propri limiti ma anche dei meriti conquistati sul campo, che si svolge il nuovo presente di Marta, con il suo Portale delle Donne che dirige dal 2005, dopo aver creato e diretto presso la Presidenza del Consiglio, fino al 2004, il primo sito istituzionale per le donne.
Il bianco e nero cede il passo, di nuovo, al colore. D’altra parte non scrive così nell’antefatto del libro?
“Il colore del cielo, sopra di me, non è stato mai neutro.
Celeste accecante di toniche mattine o sbiadito di malinconiche sere; rosa tenue di speranze o viola per ricche promesse; bianco d’incognito; grigio come il peso dell’ansia; blu di sonni profondi e sereni, fino al nero di notti insonni cupe e malvagie.
Sotto quei cieli si sono svolti i percorsi di una vita che, a dirla, si dissolve in essi.”
Il cerchio, così, si chiude.
