di Federica Stagni
Biancamaria Scarcia Amoretti è venuta a mancare il 19 settembre 2020, ma come scrive l’editoriale dell’ultimo numero di DWF a lei dedicato le sue parole restano “vive” e incredibilmente attuali anche adesso. Questo numero intitolato “JAYAT KHALIST. Letture femministe di Biancamaria Scarcia Amoretti” mette in dialogo autrici contemporanee con alcuni scritti di Scarcia Amoretti (1938-2020). Prima docente donna di studi islamici all’Orientale di Napoli conta una produzione intellettuale che copre tematiche relative all’Islam, la causa palestinese e il ruolo che le donne vi hanno giocato, la condizione e rappresentazione delle donne iraniane e una vasta teoria femminista critica. Fin dalla sua apertura ha partecipato attivamente alla redazione di DWF portandovi un contributo essenziale. In questo numero, le autrici che l’hanno incontrata, conosciuta o letta hanno riportano, in maniera circolare, letture personali dei suoi testi e delle conversazioni scambiate con lei, in modo che nulla vada perduto ma ritorni fra le pagine di DonnaWomanFemme.
Il numero si apre con uno splendido editoriale sulla sua persona, il suo ruolo di accademica e pensatrice a cui segue un emozionante flashback di Biancamaria in redazione di Patrizia Cacioli e Paola Masi. Qui, il suono delle parole si mescola al gusto dei piatti speziati che preparava per le compagne di redazione, alla giovialità delle cene a casa sua sempre accompagnate da “domande difficili” e il calore di una libreria ricchissima.
Segue il contributo di Federica Stagni sulla donna palestinese il suo coinvolgimento nella lotta di liberazione nazionale. Il testo analizzato in questo capitolo venne pubblicato proprio su DWF nel 1976, ma per molti versi è ancora molto efficace nel descrivere l’intersezione delle oppressioni a cui sono sottoposte le donne palestinesi. Il pezzo in questione s’intitolava “Assunzione politica del ruolo privato: la donna palestinese”. In questa riflessione, Scarcia Amoretti considera attentamente l’apporto fondamentale che la partecipazione delle donne palestinese ha portato al movimento di liberazione nazionale. Dall’altro lato però riconosce anche che “Una volta che la guerra di liberazione si concluda o il processo rivoluzionario si stabilizzi, e si esprima attraverso istituzioni, anche innovatrici, l’esperienza storica non risolve la questione femminile” (Scarcia Amoretti, 1976, p.75). Non necessariamente liberazione nazionale significa liberazione dalla donna, in particolar modo quando il sogno di una patria indipendente viene continuamente posticipato e disatteso. Infatti, le donne palestinesi di oggi come allora non solo si trovano a combattere un patriarcato interno che relega le donne a ruoli definiti e limitanti, ma tali strutture sono acuite e alimentate dal persistere del giogo coloniale che impedisce la liberazione tanto del popolo palestinese quando di tutte le sue diverse soggettività. Non a caso, come ha dichiarato il nuovo movimento femminista palestinese Tal’at “non vi sarà patria libera finché le donne non saranno libere”.
Il secondo capitolo tratta un altro dei temi portanti della produzione academica (e non) di Scarcia Amoretti: la donna e l’Islam. Layla Mustapha Ammar apre il suo contributo con una delle citazioni più belle della letteratura araba (anche se, probabilmente sarebbe lecito dire, della letteratura in generale) ossia un passaggio de “La terrazza proibita” di Fatema Mernissi. Da qui segue un accurato lavoro di analisi della condizione femminile nell’Islam, e di come, teoriche femministe islamiche ne abbiano ampiamente esposto la capacità di emancipazione. La stessa Scarcia Amoretti, anticipando i tempi, si rendeva conto già nel 1976 del potenziale che le donne arabe rappresentavano per proporre un cambiamento nel futuro dell’Islam. Troppo spesso si tende a considerare la religione islamica come un monolite, ma le teorizzazioni e interpretazioni al suo interno, anche femminili, sono molteplici e le posizioni su matrimonio, proprietà, diritti delle donne, e ruolo della donna all’interno del matrimonio, non sono così unitarie come spesso siamo portati a pensare grazie ai media mainstream. Inoltre, esiste tutto un filone di attiviste islamiche che sostengono che proprio attraverso una rilettura attenta del Corano, la cui sacralità resta indiscussa, il suo messaggio sia tutt’altro che misogino.
Questo numero di DWF prosegue poi con una bellissima analisi sull’identità e ruolo delle donne nel cinema iraniano post-rivoluzione, scritto da Bianca Maria Filippini. Questo ricchissimo articolo si propone di analizzare per la prima volta in maniera scientifica e sistematica com’è cambiata la rappresentazione femminile fra pre- e post-rivoluzione. Prendendo spunto dal celebre articolo di Scarcia Amoretti del 1978 “La donna nel recente cinema egiziano. Alcune note”, Bianca Maria Filippini ci trasporta in un viaggio nella produzione del cinema iraniano degli ultimi dieci anni, infatti, come scrive, “il cinema prospetta in maniera più diretta rispetto alla letteratura i progressi compiuti dalle donne in campo culturale e sociale”. Il dato che sembra emergere come preponderante, oltre all’ancora frequente connubio donna-madre, è che la solidarietà femminile, emerge al di là dei confini imposti da convinzioni religiose e norme sociali e “sembra rappresentare la vera via di scampo da una vita ingiusta” (p. 35).
Restando in Iran, segue il brillante articolo di Leila Karami che spiazza subito il lettore col racconto della sua amicizia con Biancamaria, i loro viaggi, le loro chiacchierate accademiche e gli insegnamenti lasciati da questa grande Maestra. È proprio lei che scrive in persiano “jayat khalist”, hai lasciato un vuoto. Riprendendo il suo articolo del 1981, “A proposito della Rivoluzione iraniana, una chiesa contro le donne?”, Leila Karami ci racconta delle lotte attuali dei movimenti femministi e femminili in Iran considerando in modo particolare il lavoro della rivista Zanan (Donne) lanciata nel 1992 da Shahla Sherkat e sottoposta più volte a censura ma che ora, sotto il nome di Zanan-e emruz (Donne odierne) pubblica articoli sulla necessità di reinterpretare testi sacri, considerare i problemi concreti di tipo socioeconomico delle donne e aprire un dialogo fra le varie componenti del mondo femminista laico, femminile e femminista islamico che agiscono per una causa comune. Nel suo testo del 1981 Scarcia Amoretti criticava poi quelle interpretazioni occidentali delle politiche dell’Iran post-rivoluzionario, scrivendo “La solidarietà tra donne occidentali e quelle del Terzo Mondo non significa imporre loro un modello occidentale”.
Tornando in Palestina, Serena Fioretta presenta un’altra pietra miliare della produzione di Biancamaria Scarcia Amoretti sulla questione palestinese che, ci ricorda in “Di fronte al problema palestinese: una questione di metodo” del 1982, non è solo una questione tematica, ma anche e per l’appunto una questione di metodo. Qua viene anticipato il concetto di posizionamento degli studiosi nei confronti del loro “oggetto” di ricerca. Serene Fioretta scrive “Il metodo sovente viene presentato come distinto dal contenuto, due fasi diverse della ricerca, della scrittura, dell’analisi, in realtà ogni ambito di studio, nel corso del tempo, si trova davanti a svolte di paradigma, a forme di autoriflessione e critica dei propri strumenti, tra cui non dovrebbe mancare l’interrogarsi sul ruolo che si occupa all’interno della ricerca” (p. 53). Questo scritto, come molti in seguito, sfida l’idea fallace della neutralità e dello studio oggettivo dietro cui troppo spesso i ricercatori si nascondono per giustificare la non presa di posizioni. Scarcia Amoretti si rendeva perfettamente conto che studiando temi come le donne e l’Islam, la questione palestinese, l’Iran e le discipline orientaliste non era possibile non interrogarsi in modo critico sulle ripercussioni e conseguenze di tali ricerche.
Nel penultimo contributo Marta Panighel dialoga col testo “Entro i confini, lungo i margini” del 1987. Di nuovo la riflessione critica sull’impatto delle proprie identità nello svolgere mansioni accademiche è il tema centrale con l’invito a “mettere in discussione i nostri posizionamenti e i nostri sguardi” (p.59). Marta Panighel inizia riconoscendo il razzismo che permea tutte le nostre identità socializzate di persone “bianche” come punto di partenza imprescindibile per tutti/e coloro che decidono di portare avanti ricerche che guardano l’altra/o. Infatti, prosegue affrontando il nodo della terminologia decoloniale/postcoloniale: “non basta adottare una postura nominalmente radicale se non cambiamo le dinamiche di potere dentro e fuori l’accademica, dentro e fuori i movimenti”. L’articolo di Scarcia Amoretti si concentra proprio su questo: in che modo l’autocoscienza femminista influenza le fasi di costruzione della carriera accademica, in particolare di orientalista? Non è facile stare dentro l’accademica e non è facile seguire lo sviluppo delle discipline che ci appassionano mantenendo posizioni femministe critiche. Su questo tema però, per chi fosse interessata/o DWF ha pubblicato un altro interessante numero “SPACCADEMIA. Pratiche femministe in università”, DWF (126) 2020, 2 dove proprio questi interrogativi vengono sviscerati e affrontati.
L’ultimo articolo è quello di Renata Pepicelli, importante studiosa di donne e l’Islam che con grazia e precisione ricostruisce la genealogia della produzione di Scarcia Amoretti, come questa l’abbia seguita e ispirata e, come spesso, da studiosa su temi simili, abbia anche affrontato le stesse sfide epistemologiche. Il settore dell’islamistica italiana, quando vi si approcciò Scarcia Amoretti era molto diverso da oggi: completamente dominato dalla produzione del sapere maschile non lasciava spazio alle donne, Biancamaria fu la prima. Adesso le donne sono dentro la disciplina in varie posizioni, e questo vale anche per gli studi di genere, che per quanto sotto perenne attacco delle istituzioni, continuano a diffondersi a condividere un sapere posizionato. L’intento principale di questo pezzo e quello di saldare quel legame genealogico fra diverse generazioni di studiose e omaggiare chi per prima ha posto le basi per lo sviluppo di uno studio che non solo dà voce a “storie, pratiche e voci storicamente silenziate ma sta anche contribuendo a decolonizzare quelle analisi orientaliste delle dinamiche storiche, sociologiche, antropologiche e politiche sul cosiddetto ‘mondo islamico’” (p.69).
Questo numero su Biancamaria Scarcia Amoretti è un dono e un buon auspicio per tutte le generazioni di studiose e pensatrici future. Come si scrive nell’editoriale “questo numero, è allo stesso tempo un atto di gratitudine, un rituale di memoria, un tributo al pensiero di una donna senza precedenti, un filo rosso tracciato fra generazioni di studiose e femministe”.
fonte: DWF