E in nome della legge tuo figlio te lo tolgo, di Lidia Menapace, Orsaminore 1981

da | Mag 2, 2010 | Scritti d'archivio

Gli intoppi con la Legge sono sempre più curiosi, per adoperare un aggettivo frivolo. Del resto la cosa si ripete da millenni, sin da quando fu dichiarato da un oscuro agitatore palestinese che la legge è segno del peccato e l’amore della libertà, sin da quando i giudici romani raccomandavano di correggere con l’equità la summa iniuria del summum ius, cioè la grande ingiustizia dell’applicazione a tutti i costi della norma.  

Ma oggi le contraddizioni diventano quotidiane e colpiscono situazioni che definire “cattive”, “pericolose”, "reato” appare sempre meno accettabile, cioè la sorte dei dimessi dagli ospedali psichiatrici, la condizione del tossicodipendente, la decisione di una donna di non essere madre, l’età per stabilire un rapporto matrimoniale, l’età per poter dire legittimamente che un figlio che hai fatto è tuo. Anzi le contraddizioni si aprono proprio sulle norme che erano state concepite per aiutare il “progresso” della società.  

Ad esempio, a proposito dell’aborto, appare sempre più evidente che quando hai giustamente salvato la legge, non hai fatto niente rispetto a una organizzazione sociale e culturale ben contenta di non discutere più sui temi posti da quella  da quella battaglia (non che ci si sforzi molto, per tenerli  aperti, la reticenza è generalizzata).

E a proposito dei due minorenni che non avrebbero potuto tenere per sé un figlio che avevano voluto e che ben quattro nonni dichiaravano di voler tenere con cura e affetto, l’inghippo è nato da una legge che si voleva ed era progressista, cioè tendente ad evitare i matrimoni tra giovanissimi, le “madri-bambine”, tali non per decisione, ma per ossequio al costume, per matrimonio riparatore ecc.  

Mi pare un segno dei più rilevanti di quanto la legge stia diventando visibilmente un incerto precario approssimativo modo di intervenire nel concreto, nel momento. Il contrario di quanto si è sempre teso a sostenere, cioè che la legge ambisce a una certa generalizzazione ed “eternità”.

Per questo tutte le leggi dovrebbero essere “a termine”, “sperimentali”, convenzionali, destinate a risolvere un dato problema e solo quello, per cui la norma voluta per consigliare maternità precoci per puro ossequio al costume non si può applicare a una maternità precoce, ma voluta. 

Poiché non è possibile personalizzare la norma, bisogna scaricarla di importanza, farla diventare un’indicazione di orientamento, almeno tutte quelle che hanno a che fare con problemi non attinenti ai classici delitti” (per quanto…).

Ma poiché d’altra parte la soluzione di tipo anglossassone, che già si svolge sulla base della consuetudine oiù che su quella della norma scritta, non è priva di abusi e poggia su un potere sterminato del giudice e su una sua diretta dipendenza dal potere politico, che non mi pare

trasferibile nella nostra tradizione giuridica e politica (e non me lo auguro nemmeno), la condizione per arrivare a una applicazione convenzionale, elastica e discrezionale (o discreta, che mi pare meglio, essendo la discrezione sorella del discernimento e quindi una virtù sociale di non poco conto) è che ne venga socializzata l’esecuzione e la stessa analisi dei fatti.  

Insomma ciò che a buon senso tutti capiscono e cioè che è assurdo togliere un bambino voluto bene a chi gli vuol bene, per metterlo all’incanto nelle pratiche adottive, può essere trasferito anche nella pratica giuridica, tra l’altro cominciando a mettere il naso nell ‘istituto dell ‘adozione che destina per sempre un bambino a un rapporto tagliato fuori da tutto ciò che era prima, forse all’infelicità, certo a una segregazione giuridica insostenibile, inaccettabile.  

In linea generale ciò vuol dire che nessun istituto esistente è in grado di risolvere i suoi problemi da sé (non esistono più “società perfette”, cioè), ma che lo stato di cui è espressione la norma “generale e stabile” lo è ancor meno. Ciò chiede l’estensione di un pubblico “politico” secondo una dichiarazione femminista che per quanto stravolta e usata per esaltare un misero “privato” conserva intero il suo potere dirompente. Un “pubblico – politico” consente di affrontare i problemi nelle loro dimensioni reali e complesse, deposita una cultura da cui potranno anche forse uscire convenzioni forti, magari anche leggi (a me piacerebbe che ne uscissero sempre convenzioni possibili a rimettere in discussione ecc.). Resta da pensare che cosa sarebbero parlamenti e tribunali davanti al crescere del “politico – pubblico”, ma questa è materia troppo ambiziosa per le mie spalle e in ogni caso troppo ampia per un rapido corsivo.  

Commento di Marta Ajò 

La rivista “L’Orsa Minore” era un mensile di cultura e politica femminista che rifletteva realtà diverse e non sempre omogenee.

In questo “corsivo”, Lidia Menapace ragiona su alcuni temi, giuridici, privati e sociali rispetto al diritto di scelta alla maternità.

Da quel 1981  sono passati 29 ai e sarebbe stato grave ed imperdonabile che le cose non fossero cambiate. C’è da rilevare comunque che questi temi, anche in forme diverse, terminologie più chiare ed interlocutori più recettivi, restano ancora all’ordine del giorno del nostro dibattito.