Le condizioni precarie non implicano l’incapacità. Se c’è il notaio la mancata sottoscrizione non conta.
"Perché non ha firmato il testamento? Ormai era troppo stanco». Così il notaio rogante giustifica la mancata sottoscrizione delle ultime volontà da parte dell’anziano malato, ricoverato in una casa di cura. E, alla faccia del familiare penalizzato dal de cuius, il documento è valido perché non si configura l’incapacità naturale del testatore. È quanto emerge da una sentenza del 25 marzo 2011 depositata dalla seconda sezione civile della Cassazione.
Testimonianza e consulenza
Da una parte la direttrice dell’ospizio testimonia che il de cuius fu ricoverato in un reparto destinato ad anziani non autosufficienti perché era solito dare in escandescenze, buttandosi a terra; dall’altra il consulente tecnico d’ufficio certifica che l’anziano era sì sofferente, ma non al punto di non essere più capace d’intendere. Alla fine risulta smentito il familiare del defunto secondo cui con la malattia il congiunto sarebbe deperito al punto di non poter più autodeterminarsi.
Conclusioni discutibili
Conta molto la parola del notaio, presente alla stesura del testamento: il professionista riferisce che l’anziano alla fine s’era detto «spossato e sfinito» al punto da non poterla neanche firmare la scheda con le ultime volontà. La mancanza della sottoscrizione, poi, non può essere interpretata come la volontà di invalidare l’atto né tanto meno come una manifestazione d’incapacità. Lo riconoscono anche i giudici con l’ermellino: le conclusioni cui sono giunti i colleghi del merito «possono essere certamente discusse», ma non private dell’intrinseca valenza che le contraddistingue; insomma: per quanto malato e stanco, al momento del testamento il vecchietto non era rimbambito.