"Diversità e uguaglianza" di Clelia Piperno
Il pluralismo, garantito dalla nostra Carta costituzionale, riconosce i diritti inviolabili non solo alla persona come singola, ma anche nelle formazioni sociali ove svolge la sua personalità. Pluralismo significa, quindi, non solo libertà di organizzazione e della possibilità di aderire a qualsivoglia organizzazione sociale, ma altresì riconoscimento di una molteplicità di forme di aggregazione civile che possono coesistere ed operare per i fini più diversi. È ovvio che la Costituzione provvede a dare esplicita tutela alle forme di minoranze significanti all’epoca della Costituente: quelle alloglotte e quelle religiose.
Ma il nuovo tessuto sociale creatosi con le ondate migratorie provenienti sia dai paesi europei che da quelli extracomunitari ha posto in termini nuovi il problema dell’uguaglianza: ovvero la ricerca di una disciplina adeguata alle situazioni soggettive concretamente differenziate.
I nuovi gruppi avanzano con sempre maggior efficacia la richiesta di una piena affermazione della tutela della libertà delle minoranze che non hanno la pretesa di divenire prevaricanti, ma pretendono di non essere assorbiti dalla maggioranza.
In questa direzione, esemplare è stato il percorso della minoranza ebraica, che si pone fin dal suo instaurarsi nel territorio su questa strada; anzi essa si pone come un ordinamento che si confronta con un’altra realtà ordinamentale.
L’intervento del Legislatore italiano sui nuovi immigrati è stato di tamponamento dell’ineluttabile. Non c’è il respiro programmatico che invece dovrebbe essere il fondamento di una riforma su questo terreno, sul quale esiste già l’esperienza americana, in cui la presenza della minoranza ispanica ha creato una nuova sensibilità amministrativa soprattutto per l’educazione e per l’accesso al mondo del lavoro; e che è inoltre esposta alle nuove richieste della minoranza di colore, che chiede di veder riconosciute le proprie radici africane sotto tutte le accezioni: culturali religiose, sociali, ecc.