DISCORSO PRONUNCIATO AL SENATO DELLA REPUBBLICA NELLA SEDUTA DEL 5 FEBBRAIO 1975
Signor Presidente, onorevole Ministro, onorevoli colleghi, la discussione ampia ed in genere serena ed approfondita non consente un’ulteriore analisi. Cercherò, quindi, sia pure con le mie modeste forze, di fare una breve sintesi.
Vorrei partire ricordando gli obiettivi di questa riforma. Mi pare che nessuno possa negare che questi obiettivi fossero e sono: riconoscimento della perfetta parità dei coniugi, riconoscimento della funzione e della posizione che la donna ha saputo guadagnarsi nella società e quindi nella famiglia, riconoscimento della priorità degli interessi dei figli, sia che essi siano nati nel matrimonio o fuori del matrimonio. Se ammettiamo che questi debbano essere, così come sono, gli obiettivi di questa riforma, difficilmente potremmo disconoscerne la validità. Qualunque siano i presupposti da cui partiamo, qualunque siano i principi cui aderiamo, pensiamo che l’organizzazione di una famiglia non possa avere come denominatore comune se non una legislazione quale quella che cerchiamo di dare perché la famiglia abbia un aspetto sano, democratico, concreto.
Certamente la situazione diventa più difficile, i problemi sono di più ardua soluzione, quando dagli obiettivi passiamo a stabilire le vie, i mezzi, gli strumenti attraverso i quali raggiungerli. Non disconosciamo affatto che quelle forze politiche che poi si sono trovate concordi nel presentare a voi la riforma in oggetto, all’inizio erano spesso su posizioni discordi, talora addirittura contrastanti.
Ma appunto per questo ci ponemmo al lavoro, appunto per questo cercammo il confronto, il raffronto, la soluzione migliore, la via che consentisse di giungere a un risultato. La partecipazione, il ragionamento, l’approfondimento dei problemi sono, se non sbaglio, le costanti di un’autentica democrazia; la rigidezza, l’assolutezza, il volere ad ogni costo non porre alternative sono, invece, l’espressione dell’antitesi della democrazia.
Ebbene, in questa ricerca, talvolta (perché nasconderlo?) affannosa, siamo riusciti a raggiungere un certo obiettivo, a conquistare un certo traguardo. Certamente la nostra opera non è perfetta; né aveva la pretesa di esserlo. Talvolta per noi socialisti – e ieri l’amico e compagno Cucinelli lo diceva con la sua effervescente eloquenza – alcuni dei traguardi raggiunti non sono i migliori, così come per altre forze alcuni obiettivi stabiliti non sono quelli che esse desideravano Tuttavia a noi sembra che tutte le forze le quali sottoscrivono questa riforma e la sostengono possano dichiarare senza nessuna remora di aver raggiunto dei risultati accettabili, come era negli auspici.
Non disconosciamo neppure, onorevoli colleghi, i miglioramenti che questo testo apporta nei confronti di quello della Camera. Lasciatelo dire a noi che all’inizio (come bene rilevava il compagno e amico Licini con la consueta acutezza) ponevamo l’accento più sull’esigenza di un pronto intervento che su quello di un testo perfezionato.
Mai miglioramenti tecnici e sostanziali ci sono stati e noi non disconosciamo affatto l’apporto dato – specialmente a quelli tecnici – da un autentico scienziato qual è il senatore professor Carraio.
Non starò, appunto perché desidero fare una sintesi, ad elencare i miglioramenti; essi fanno parte di quella proficuamente sintetica relazione del senatore Agrimi, il quale ha dato alla riforma un contributo eccezionale che va riconosciuto, anche per il valore davvero non comune dell’uomo.
Ma, anziché elencare i miglioramenti già illustrati, preferisco valutare le ragioni delle critiche e delle censure avanzate. Ebbene, ho la sensazione, anzi la certezza, che esse si richiamano a quelle della relazione di minoranza, nella quale non sempre abbiamo rintracciato l’ingegno indubbiamente fervido del senatore Filetti; 218 colonne di piombo che partono da Platone per giungere naturalmente e puntualmente al Concilio ecumenico attraverso una raccolta puntuale, anzi forse sarebbe meglio dire puntigliosa, di pareri contrari raccolti ora a livello scientifico (anche se si tratta di una dottrina non certo la più aperta) ora a livello giornalistico. Ma la prima critica che, a mio avviso, si può fare alla relazione di minoranza è che in genere essa appunta i suoi strali sul teso della Camera; poi alla fine del discorso dice: il Senato ha deciso diversamente.
In ogni modo i presupposti della relazione di minoranza sono due: 1) la riforma rappresenterebbe una massiccia affermazione dell’individualismo più egoistico (parole testuali); 2) la riforma incrinerebbe l’unità della famiglia. Ebbene, vorrei molto velocemente esaminare se davvero queste due critiche, indubbiamente forti e pesanti, rispondano in qualche modo a realtà oppure – come fermamente riteniamo – siano clamorosamente infondate. Massiccia affermazione – si dice – dell’individualismo più egoistico.
Allora, mettiamoci a raffrontare emblematicamente alcune norme del nostro sistema attuale con quelle della riforma. E partiamo dall’articolo 144: la potestà maritale. "Il marito è il capo della famiglia, la moglie segue la condizione civile di lui, ne assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli creda opportuno di fissare la sua residenza". Non è scritto nella relazione di minoranza, ma non vorrei che questa norma fosse portata come esempio di altruismo; non vorrei che in questa norma non si rintracciasse quello che ormai tutti vi rintracciano e cioè il predominio dell’uomo sulla donna, ridotta addirittura ad oggetto.
E come abbiamo riformato questa norma? Cosa abbiamo stabilito laddove dominava questo arcaico concetto? L’indirizzo della vita familiare deve essere concordato tra i coniugi. Si potrà criticare questo principio (e vedremo se le critiche valgono) però ci sia consentito per ora di dire che là dove stava la potestà maritale noi poniamo una decisione concorde dei coniugi: manifestazione di egoismo, dunque, questa? Mi pare manifestazione di solidarietà, volontà di comprensione.
Ed andiamo avanti; come si dimostra ancora quest’egoismo di cui parla la relazione di minoranza? La riforma afferma che bisogna tener conto, nello stabilire l’indirizzo della famiglia, delle esigenze di entrambi i coniugi e di quelle preminenti della famiglia stessa. E’ un concetto questo del tutto nuovo che dimostra profondo senso di altruismo.
Proseguiamo: esaminiamo la norma che regola i doveri da parte dei genitori nei confronti dei figli. Rimane naturalmente il dovere fondamentale del mantenimento, dell’educazione e dell’istruzione della prole; e non potrebbe essere altrimenti. Tuttavia anche qui c’è un a afflato diverso; assume la riforma che questi doveri nei confronti dei figli debbono essere adempiuti tenendo conto delle capacità, delle inclinazioni e delle aspirazioni dei figli stessi. E’ forse ciò una manifestazione di egoismo? Sarebbe facile rispondere che orami non c’era davvero bisogno di scriverlo nel codice perché i figli hanno saputo per conto loro far sentire la loro parola e le loro esigenze, ma non vi sembra che un adeguamento della legislazione ad una realtà vivente sia opportuno?
Adempimento, dunque, dei doveri da parte dei genitori verso i figli in questo clima e con questo afflato. E non si speculi sul fatto che si è tolta la dizione per cui i doveri dei genitori (mantenimento, educazione e istruzione) debbono inserirsi in un quadro etico e sociale, come stabilito dalla Camera. Si è già parlato di ciò; l’etica e anche la socialità hanno interpretazioni diverse, talora divergenti. Tutto può farsi rientrare nell’etica. Chi tra noi non ricorda l’etica fascista? E allora si è deciso che questi riferimenti generici, che non possono avere una concreta attuazione, è meglio che non siano nella legge. E non ricorderei chi fu il padre di questa cancellazione se ieri il senatore Carraio, con la lealtà che lo distingue, non avesse detto egli stesso che aveva proposto lui la cancellazione di questa inutile affermazione. Comunque, se così è, se questi doveri debbono esprimersi nel modo che abbiamo detto, evidentemente ci troviamo di fronte ad uno spirito di socialità, di altruismo, di comprensione che va incontro alle esigenze reali della vita nei rapporti tra i coniugi ed i figli e tra gli stessi coniugi. E’ facile dire, come è stato detto: ma si capisce che i coniugi debbono mettersi d’accordo. E c’è stato anche un oratore critico che ha portato l’esempio di se stesso che, agli inizi del matrimonio, non era in assoluta concordia con la moglie; poi, un po’ alla volta, quel matrimonio si rodò e così bene da continuare felicemente e noi ne siamo ben lieti. Ma ciò dimostra esattamente il contrario di quello che si voleva provare. Non ci ha detto quell’oratore di aver messo pace in famiglia con il bastone; non ci ha detto di aver esercitato la potestà maritale, ha detto piuttosto che ha usato comprensione, affetto e noi gliene diamo lode, ma allora, quando proclamiamo della nostra riforma la parità tra i coniugi e diciamo che le decisioni debbono essere prese concordemente, non facciamo che adeguarci alla vita. Perché dovremmo lasciare una legge così arretrata, quando la vita è profondamente cambiata?
Ed a riprova del fondamento altruistico della legge, abbiamo la consultazione con i figli. Si, anch’io non faccio personalmente una questione sulle parole, so anch’io che l’espressione patria potestà è un concetto molto ampio, anche se approvo la Commissione che ha voluto eliminare ogni equivoco e chiamarla piuttosto potestà dei genitori. Ma la patria potestà a cosa portava? Il figlio doveva fare ciò che voleva il genitore. Che poi ora non lo faccia più è un altro discorso; ma chi appartiene alla mia generazione e creando anche a quella successiva sa benissimo come molti figli siano stati costretti a prendere, per esempio, degli orientamenti professionali che non gradivano. Ebbene, abbiamo cercato di far sentire la voce dei figli, di farla sentire il più spesso possibile.
Quando si tratta di stabilire l’indirizzo della vita familiare e non c’è accordo tra i coniugi, il giudice (parleremo dopo dell’intervento del giudice) può comunque sentire il figlio convivente che abbia superato il 16° anno di età; e quando si tratta dell’esercizio della potestà dei genitori e quindi l’interesse del figlio è più diretto, allora si è detto che il figlio, maggiore degli anni 14, deve essere sentito. L’altro giorno con l’acutezza che lo distingue il senatore Brusio diceva: perché nei due casi una previsione diversa? Di questo dirò tra breve perché l’osservazione non mi è sfuggita. Ma intanto mi pare che si possa dire con sicurezza che nella prevista consultazione dei figli abbiamo una dimostrazione di partecipazione all’indirizzo della vita familiare che contraddice in modo clamoroso la denunciata asserzione di massiccia affermazione dell’individualismo più egoistico.
Anche negli oneri è stabilita la parità tra i coniugi; ed è giusto. La donna molto spesso lavora, può avere suo beni; perché non dovrebbe contribuire anch’essa agli oneri familiari? La donna anche sotto questo profilo è in stato di perfetta uguaglianza e parità con l’uomo ed anche questo è un motivo di solidarietà, un motivo anti individualista e anti egoistico.
Giungo così a parlare della comunione legale, di quel regime patrimoniale che ho sentito criticare con tanta forza. Non so, invero, se sia stato bene studiato e bene interpretato. Vorrei dire in proposito il mio pensiero. Intanto secondo le affermazioni di alcuni oratori sembra che d’ora in poi detto regime sia obbligatorio tra i coniugi. Ebbene la comunione degli utili e degli acquisti diviene il regime legale, cioè il regime che entra in funzione ove i coniugi non ne scelgano altro. Il che è apprezzabile perché se molti matrimoni vanno a finir male, tuttavia almeno all’inizio, quando si spera in una comunione d’interessi, di corpi, di anime, perché si dovrebbe stabilire aprioristicamente la separazione dei beni? E badate, quando diciamo comunione dei beni diciamo una cosa forse tecnicamente inesatta, perché la comunione che costituisce il regime legale della riforma è quanto mai limitata, forse troppo limitata. Concerne, infatti, gli acquisti che congiuntamente o separatamente i coniugi fanno durante il matrimonio, tenendo esclusi quelli che derivano da beni personali. Inoltre entrano nella comunione i frutti dei beni che si maturano durante il matrimonio ed i redditi da ciascun coniuge percepiti durante la permanenza del vincolo.
L’altro giorno un critico, indubbiamente intelligente ed anche spiritoso, disse: occorrerà un ragioniere per ogni famiglia. Vorrei tranquillizzare il senatore Pistolere: non occorre nessun ragioniere perché si tratta della comunione dei frutti e dei redditi percepiti e non consumati al momento dello scioglimento della comunione. Infine essa si allarga alle aziende sorte tra i coniugi durante il matrimonio perché per le altre cadono in comunione solo gli utili e gli incrementi, sempre che le aziende siano gestite da entrambi i coniugi. Dunque si tratta di una comunione che davvero non può destare gli allarmi che ho sentito ed è una manifestazione di consenso, di solidarietà, di affetto che serve a cementare l’unità familiare, antitesi esatta di quell’egoismo che nessuna persona onesta può rintracciare in questa riforma.
Giungo così ad esaminare la crisi del matrimonio. C’è da augurarci che non ci sia; penso che con la riforma ce ne saranno molte meno che in passato, perché fino ad ora si tendeva sistematicamente a tenere insieme anche quelli che si volevano dividere. Noi tutti ricordiamo le norme che fissano le ragioni esclusive per le quali si può ottenere la separazione. Può succedere che la convivenza sia amara, che sia sostanzialmente immorale, che sia addirittura pericolosa. Quanti reati, quanti delitti sono sorti da queste convivente forzate! Ma al di là delle cause legislativamente specificate la separazione non si può ottenere.
E’ vero che l’altro giorno in quest’Aula un critico autorevole, che ha una lunga esperienza forense, quasi rivolgendosi a me, diceva: ma quante volte noi avvocati (ed è vero, sacrosantamente vero) abbiamo cercato di forzare quelle maglie per farvi rientrare altri casi e così evitare convivenze impossibili! Ed è esattissimo; ma forse questa forzatura vorrebbe farsi apparire come esempio di interpretazione legislativa? E’ assai preferibile provvedere ad adeguare la legislazione ai tempi. Ed allora ecco che è stata istituzionalizzata la separazione per intollerabilità nella prosecuzione della convivenza. Se ci sarà una responsabilità ed i coniugi ne faranno richiesta e concorreranno le condizioni di legge, il giudice la potrà dichiarare e seguiranno anche conseguenze patrimoniali per il coniuge cui la separazione sia addebitabile. E’ uno dei punti sui quali il mio Gruppo era in dissenso ma abbiamo accettato questa soluzione, valutandola nel quadro generale. L’importante è che non si tengano insieme persone la cui convivenza è intollerabile. Sentivo l’altro giorno (perché secondo l’antica tradizione il cattivo è sempre il marito e quindi chi sostiene idee vecchie deve sempre fare l’esempio del marito) che ne fa di tutti i colori alla povera moglie e, nonostante ciò, chiede la separazione per intollerabilità. Si dice: ma è possibile questo? Quella povera donna, dopo che ha tanto sofferto, deve subire anche la separazione? Facile è rispondere: ma perché volete conservare accanto a questa donna il malvagio, perché volete legarglielo per tutta la vita? Anche se lei non chiede la separazione, è bene però obiettivamente che ci sia. E’ un’altra norma in cui ritroviamo l’afflato sociale, cogliamo quella lotta all’egoismo che inconcepibilmente ci viene contestata. Inoltre la separazione può essere chiesta quando la convivenza importi grave pregiudizio all’educazione dei figli; essi tornano sempre in prima linea. E’ questo spirito di partecipazione che ogni giorno di più si deve affermare e si afferma; è la consueta battaglia all’individualismo e all’egoismo.
Il vecchio sistema in sostanza applicava anche al regime matrimoniale il detto eminentemente borghese: "ognuno per sé, Dio per tutti"; con la riforma anche in questo campo abbiamo voluto rovesciare questo principio: "tutti per uno, uno per tutti". Questo è quello che abbiamo voluto, questo è uno dei fini cui abbiamo mirato.
Per cui mi pare che avesse perfettamente ragione la senatrice Falcucci quando nel suo intervento ebbe a dire che finalmente è sorto un diritto di famiglia. Diceva la collega che la sua espressione era forse esasperata; no, la sua espressione è esattissima. Finalmente è sorto un diritto di famiglia là dove fino ad ora avevamo soltanto dei diritti e dei doveri dei singoli componenti la famiglia.
E allora vediamo se sia esatto l’altro presupposto, su cui la relazione di minoranza poggia. La riforma comprometterebbe l’unità della famiglia! Ebbene, prima di tutto, onorevoli colleghi, vorrei stabilire cosa si deve intendere per unità familiare. Noi – perché socialisti, perché democratici – l’unità familiare l’intendiamo come l’unità del consenso, l’unità della partecipazione, l’unità voluta, l’unità guadagnata, l’unità espressa e ripetuta ogni giorno. Questa è l’unità familiare cui noi miriamo e che in verità la riforma vuole.
Certo, c’è un’altra unità, più facile, più semplice, ottenibile comunque: quella della potestà maritale, quella dell’un coniuge che comanda sull’altro. Intanto è un’unità che non regge più perché oggi certe imposizioni non si sopportano; si potevano spiegare in una società ad economia agricola, quando la famiglia era il centro di produzione, oltre che di consumo; ma oggi questo tipo di unità non è più concepibile e comunque non ci interessa. Noi preferiamo una separazione civile ad una convivenza ipocritamente imposta. E allora, chiarito il concetto di unità, vediamo un attimo se essa – antitesi dell’unità imposta con il sopruso e con la prevaricazione – è davvero messa in pericolo dalla riforma. Il punto cruciale sarebbe il riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio; qui addirittura si è impostata una questione costituzionale. Il senatore Carraio, che è un uomo acuto, diceva ieri che ai più è sfuggita una novità: l’emergere accanto alla famiglia legittima della famiglia naturale. Davvero è una novità sfuggita ai più; ma è una novità che esiste, è una novità che risale alla Costituzione. Infatti l’articolo 30 recita testualmente: "La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio ogni tutela giuridica e sociale, compatibile con i diritti dei membri della famiglia legittima". Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che la famiglia legittima è privilegiata (e su questo non si discute), ma non che i diritti della famiglia legittima debbano rimanere sempre gli stessi e neppure che la famiglia naturale possa essere ignorata. Forse in futuro ne esisteranno meno, quando non si costringeranno più i coniugi a stare insieme anche se non si possono più sopportare; ma queste famiglie naturali esistono e la Costituzione stessa ci impone di non dimenticarle. Noi apprezziamo molto tutte le parti di questo consesso che si riferiscono tanto facilmente e tanto ripetutamente alla Costituzione – anche se almeno fino ad ieri le furono ostili – perché questo ci dice come la nostra Carta fondamentale si ormai entrata nel costume; ma essa va interpretata.
E ammiriamo l’illustre avvocato senatore Mariani, che nell’interpretare la Costituzione si rifà a Calamandrei; e lo ringrazio per la citazione. Però il senatore Mariani non può dimenticare che dalla Costituzione ad oggi sono passati 30 anni quasi e la vita cammina; il che neppure lui può ignorare.
Il riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio sarebbe dunque la mina posta all’unità della famiglia. Ecco, intanto dobbiamo dire che l’unità della famiglia è un valore che vogliamo difendere ma non è il solo; è un valore che va conciliato con altri, come quello della tutela dei figli, anche se nati fuori del matrimonio. Ed ancora: ma cos’è che mina l’unità della famiglia? Il riconoscimento del figlio nato fuori del matrimonio o la procreazione avvenuta fuori del matrimonio? Questo è ciò che può vulnerare l’unità della famiglia e non educheremmo bene, non faremmo una legislazione adeguata, se dietro uno schermo di falso perbenismo, con l’ipocrisia che troppo spesso ha caratterizzato certe leggi, nascondessimo verità palpitanti che invece dobbiamo esaminare, considerare, valutare nella loro realtà. Da ciò deriva che i figli che nascono fuori del matrimonio hanno diritto al riconoscimento; cos’, responsabilizzando la procreazione si porranno gli sposi in una situazione di maggiore prudenza, di maggiore attenzione, riuscendo ad evitare quell’intervento del giudice di cui ora tratterò. Su tale intervento (mi avvio rapidamente alla fine, perché voglio cercare di mantenermi su di un piano di sintesi) la relazione di minoranza di dilunga per molte pagine per contestarne l’efficacia; essa però si riferisce sempre al testo della Camera, anche se da ultimo rileva che il Senato ha deciso in altro modo. E’ vero che detta relazione non poteva fare diversamente, in quanto costrettavi dalla pervicace volontà critica di cui è intessuta; ma la Commissione giustizia con l’apporto di tutti – e tengo a sottolinearlo – ha limitato l’intervento del giudice. Come? Lo ha limitato fino al punto che, in caso di disaccordo, un coniuge può ricorrere al giudice ma il ricorso ha la stessa funzione d’un appello al sindaco o, se militante cattolico, al parroco. Infatti il giudice può dare solo suggerimenti e, quindi, non si capisce come potrebbe minare l’unità della famiglia. Se, invece, si tratta di questioni essenziali o della fissazione della residenza, allora il giudice potrà intervenire con un provvedimento giurisdizionale ma in un solo caso: quando espressamente e congiuntamente i coniugi chiedano al giudice di voler provvedere. Si tratta quindi di un intervento molto limitato. A questo punto, però, si dice: se non si tratta di affari essenziali, se non si tratta della residenza, i coniugi come potranno trovare un accordo? Dovranno fare, come consigliò perspicuamente l’altro giorno quell’oratore che criticava la riforma del diritto di famiglia: trovare la via del rodaggio, perché se non la trovassero vuol dire che saremmo ala crisi del matrimonio.
Nell’esercizio della patria potestà, invece, il giudice, quando si tratta di affari di notevole importanza, può designare lui il coniuge che dovrà decidere nel caso specifico. Anche questo tuttavia è un intervento che non lede l’autonomia della famiglia. Ci si chiede però come mai i due previsti interventi del giudice abbiano una portata diversa: una volta decide nel merito, sempre che ci sia il consenso di ambedue i coniugi e l’altra, anche se non c’è questo consenso, designa il coniuge che prenderà il relativo provvedimento. Non è un problema di grande importanza; tuttavia, a mio parere, la differenza è giustificata. Infatti quando si deve stabilire l’indirizzo della vita familiare, si tratta di un potere che spetta ai coniugi e la decisione non dovrebbe incidere fortemente sulle fortune dei figli, per cui si può consentire che i coniugi lascino decidere al giudice; invece nell’esercizio della potestà dei genitori viene in maggiore rilievo l’interesse del figlio ed allora è giusto che l’intervento del giudice si limiti all’indicazione del genitore che deve decidere.
Mi avvio così rapidissimamente alla fine. Possiamo affermare che le censure mosse a questa riforma non sono fondate, non sono valide. Opporsi a una riforma moderata che tende soltanto ad adeguare la legislazione, che non lede nessun principio, non mi sembra né serio né onesto.
Opporsi a una riforma di questo genere non significa condurre una battaglia di retroguardia. L’altro giorno un oratore diceva: nell’esercito c’è l’avanguardia, c’è il grosso e c’è la retroguardia, la quale ha anch’essa la sua funzione ed io aggiungo che ognuno può scegliere la posizione che più gli si addice. Ma questa non è una battaglia di retroguardia: chi lotta contro questa riforma ha perso i contatti con la guardia, cioè con la vita che cammina, che avanza, che progredisce, a dispetto anche di chi vorrebbe tenerla ferma o addirittura tirarla indietro.
E’ per noi motivo di compiacimento, tuttavia, aver trovato tante adesioni in quest’Aula; altro motivo di soddisfazione è che al Governo sieda proprio come ministro di grazia e giustizia un uomo, l’onorevole Reale, che tanto ha dato a questa riforma; ne è stato il padre, poi doverosamente ha contribuito ad allevare questo figlio, talora irrequieto. Grande, quindi, è stato il suo merito e noi ci compiacciamo lealmente che sia lui a raccogliere i frutti di tanta fatica.
Ed ora mi si consenta di finire con un auspicio. Le forze, che hanno voluto la riforma, si sono spesso scontrate, ma poi hanno trovato la via giusta, la soluzione, l’intesa. Vorrei che questo ci servisse per potere nello stesso modo attuare altre riforme che il Paese attende, che esigenze sociali fondamentali reclamano, che un diffuso senso di giustizia e di equità impongono alla doverosa attenzione e al non spento spirito di dedizione del Parlamento italiano.