Recensione di Deborah Mega
Dopo “Love, jazz and wine” edito da Progetto Cultura, Gloria Gaetano dà vita a “Ritorno all’isola”, un altro romanzo questa volta pubblicato da Zona Editrice nella collana Contemporanea e facente parte di una trilogia ideale, ancora in fase di ideazione.
Con generosità e spontaneità l'autrice ricostruisce più storie di vite, narra di incontri, luoghi, esperienze che hanno segnato l'esistenza di Giulia, figura di donna talmente viva e palpitante da essere indimenticabile, descritta e raccontata dalla figlia Mara.
I fatti narrati hanno inizio con il ritorno di Mara a Procida, l'isola amata dalla Morante e dalla Maraini; attraverso il ritrovamento di un vecchio baule di cuoio contenente il passato, la protagonista ricostruisce la storia della propria famiglia, alla ricerca di un senso, di armonia, di continuità.
Molti anni prima Giulia, con i suoi tre figli, aveva deciso di tornare a vivere nel luogo in cui aveva trascorso gli anni più belli della sua vita. Mara ricorda il ritorno nell'isola, descrive le serate trascorse a chiacchierare con gli amici, sotto il portico della casa bianca a picco sulla scogliera, rievoca il ritrovamento delle amicizie del passato.
Giulia, infatti, rintraccia gli amici e un vecchio amore, Gianni, un ricercatore appassionato di pesca subacquea, per tentare di recuperare il passato e la serenità di un tempo, prima che sia troppo tardi. Oltre a momenti di vita sono descritti ricordi e sensazioni, eventi drammatici che sconvolgono la quotidianità rasserenante, difficilmente raggiunta come la scomparsa di due personaggi importanti della storia in circostanze misteriose. Una sera alla Chiaiolella infatti, Giulia vede un corpo che galleggia sull’acqua. Non immagina che si tratti della sua amica Elisabetta che, come l’Ofelia di Shakespeare, muore per annegamento. E qui, come un leit motiv che con andamento ciclico ricompare, ritorna l'altro grande protagonista, il mare, immenso, esteso, che dona la vita e la prende.
Cominciano le chiacchiere della gente e i sospetti della donna che cerca di indagare per saperne di più sulla relazione tra Elisabetta e il burocrate Sogiu e la vicenda si tinge di giallo. Dopo la separazione dal marito, Giulia aveva conosciuto Gianni, successivamente Meshed, l’amore più grande della sua vita, un palestinese figlio di un importante diplomatico con cui era vissuta in Egitto e da cui aveva avuto Mara. Nei suoi racconti Giulia va a ritroso, da un cerchio all’altro, come nella terapia psicanalitica, parla dei suoi viaggi e dei suoi incontri con Meshed in diverse città europee: da Istambul, dove tutto ha inizio, a Sidi Bou Said, da Napoli a Parigi, a Barcellona, seguendo un percorso ispirato dal cuore. Nonostante la lontananza e le difficoltà i due amanti si reputano fortunati ma ad un certo punto il dolore terribile e inatteso irrompe con violenza nella vita di Giulia, oscurando quella “sicurezza della normalità” che aveva costruito con la figlia Roberta.
Attraverso la narrazione, condotta per flussi di coscienza, Giulia scrive per trovare il compromesso, per superare lo smarrimento, il senso di perdita, rievocando la pienezza di ogni attimo vissuto, per non “naufragare nel ricordo”. Eppure il passato aggredisce ancora e non dà tregua, da esso non ci si emancipa: il rapporto difficile con il padre, la delusione causata dall’ex marito, per citarne solo alcuni, eventi traumatici che l’hanno segnata e da cui non si è ripresa. Come non sentirsi coinvolti da confessioni così drammatiche e forti come questa? “Ma, vedi, io sono nata male… lo dico perché l’ho intuito solo adesso, anche se questo strano peccato originale l’ho sentito per tutta la mia esistenza. Gli strilli di mio padre, gli schiaffi che arrivavano sino al cielo: avevo quattro anni. Sei ritardata, lo vedi cosa dici? Tutte sciocchezze, cose sbagliate”. “Mi rimane questa spina che non se n’è mai andata dal cuore, che sento forte quando mi rimproverano, certi uomini.”
Colpisce la natura di una descrizione che oltre ad essere un campionario di cimeli, rappresenta una minuziosa topografia, come se gli oggetti fossero investiti di un muto linguaggio e potessero lasciarsi sfuggire un indecifrabile significato. Forse nella vita di ciascuno, nella vicenda di una famiglia o di una generazione potremmo trovare il senso del destino se potessimo interrogare gli oggetti che, silenziosi, hanno assistito al loro passaggio. Da questo avvicendarsi rinasce scritta la vita, di Giulia, dei suoi figli, di sua madre. Ecco dunque che gli oggetti della Gaetano diventano amuleti, capaci di recuperare alla memoria fatti dimenticati e di cancellare in un colpo solo il tempo. Talvolta si intraprende un racconto con la rappresentazione di un alloggio, “mi piaceva quella casa così piena di luce e modificata secondo le mie esigenze”, così Giulia comincia a descrivere la casa sui quartieri o la dimora di Sogiu, sempre tetra e dalle persiane chiuse, che gli abitanti del luogo chiamavano “Il castello dell'Innominato”, “Quel posto dalla solitudine fatata, quella casa né sulla terra né sull'acqua, luogo misterioso, anfibio, incoerente rispetto alla materialità della terra e delle onde, era melanconico come una sirena…”
Come nel precedente romanzo, la Gaetano dispiega grandi doti narrative. Descrive posti in cui è vissuta, l’Egitto, la Francia, la Grecia rivelando una profonda conoscenza di culture, abitudini e usanze, tipica del viaggiatore. “Un luogo non è mai solo quel luogo, è il nostro luogo. In qualche modo ce lo portiamo dentro”, scrive l’autrice.
Diverse sono le pagine di pura poesia che denotano uno slancio lirico notevole: scrittura e sensibilità tutta al femminile dunque, narrazione soggettiva in alcuni momenti e oggettiva in altri sempre però a partire dalle emozioni. Molto interessanti e avvincenti sono le pagine dedicate agli incontri realmente avvenuti a Lisbona con Antonio Tabucchi, a Londra con Alberto Lattuada e a Roma con Marcia Theophilo. Sul piano formale c’è alternanza dei piani narrativi, a volte un narratore onnisciente racconta in terza persona rivelando i pensieri dei protagonisti; in altri momenti a ricostruire la vicenda è Mara, in altri ancora è la stessa Giulia a rivelarci i suoi pensieri.
La scrittrice ha memoria del tempo che passa e che costituisce la continuità tra passato, presente e futuro, conosce la sofferenza con cui, vivendo, capita di imbattersi e si chiede “Di quanto dolore sono fatte le nostre vite? Di quanto dolore evitabile?” Di sicuro, scrive l’autrice, non si può mai smettere di amare: in primo luogo i figli, poi gli altri, infine se stessi. Pur avendo “cicatrici e memoria” non si deve rinunciare. Solo la rinuncia ad amare segna la fine della vita.
Mara sa bene che la madre non c’è più ma è ancora e sempre amore, che supera le distanze e annienta ogni barriera, anche quella tra la vita e la morte. Lei si sarebbe occupata di Roberta come avrebbe fatto sua madre, lei le avrebbe garantito affetto, cura e protezione perché nessuna difficoltà è invalicabile quando c’è l’amore. Emerge così, nel corso della narrazione, l'idea di matrice junghiana che ogni donna contiene in sé la propria madre e la propria figlia dunque il senso della continuità della vita attraversa più generazioni.
Il potere di suggestione è una delle proprietà più misteriose che hanno le parole. E questa è scrittura suggestiva, ricca di echi, associazioni, evocativa di ricordi.
Citando Anna Maria Ortese è una cercatrice d’identità la Gaetano, “propria e collettiva, e nazionale, e d’anima.” Appartiene al gruppo di coloro “che videro il cielo, che mai lo dimenticarono, che parlarono al di sopra dell’emozione, dove l’anima è calma”.