una donna nera alla Casa Bianca, di Jessica Cugin
Benché sia stata una delle maggiori giornaliste e attiviste per i diritti civili degli afroamericani, Ethel Payne è sconosciuta ai più. A renderle giustizia e a restituire la sua storia (per ora solo agli americani, speriamo presto anche a noi lettrici e lettori italiani) è una recente biografia di James Mc Grath, intitolata Eye on the Struggle. Ethel Payne, the First Lady of the Black Press, in cui si raccontano le vicissitudini di questa donna nata nell’agosto del 1911 a Chicago e morta di un attacco al cuore nel 1991, nella sua casa di Washington.
Ethel fu una pioniera del suo tempo. Iniziò a scrivere per il Chicago Defender, testata giornalistica fondata nel 1905 e destinata alle comunità locali di afroamericani, e si distinse subito, facendo una carriera folgorante, tanto che nel 1953 divenne la prima corrispondente afroamericana dalla Casa Bianca. Ecco da dove le viene il titolo di First Lady della stampa nera.
Durante la sua professione coprì sette mandati presidenziali, cosa non da poco. Non risparmiò nulla a nessuno, in particolare al repubblicano Eisenhower, cui Ethel non fece mai sconti. Lei, nipote di schiavi quale era e attivista per i diritti civili, braccò più volte mister president sulla questione della segregazione razziale, mettendolo spalle al muro. Se per andar via dalla Casa Bianca avesse dovuto chiamare un taxi, era altamente probabile che, essendo lei nera, l’autista si sarebbe rifiutato di farla salire. E allora lei fece notare come il suo vivere e il vivere dei neri in America non fosse uguale a quello degli altri, sottolineatura che spesso arrivava durante le conferenze stampa nazionali, quando non solo il presidente era costretto a rispondere, ma gli stessi colleghi giornalisti erano obbligati a riportare le domande e ad affrontare sui loro media il tema dei diritti civili.
Scomoda al potere, Payne fu sempre in prima linea: è lei a raccontare il gesto rivoluzionario di Rosa Parks che, stanca dal lavoro, si rifiuta di cedere il posto sull’autobus solo perché quel posto era riservato ai bianchi. Ed è ancora lei, nel 1955, a narrare il boicottaggio degli autobus a Montgomery e, nel 1963, la grande marcia su Washington per il lavoro e la libertà degli afroamericani, passata alla storia anche grazie al famoso discorso di Martin Luther King, I have a dream. Attivista convinta, fu tra le prime a guidare la campagna di liberazione del leader sudafricano Nelson Mandela, continuando a scrivere e informare lettrici e lettori sulla situazione dei neri non solo americani.
La sua carriera giornalistica è costellata di una numerosa serie di prime volte: è la prima reporter nera a seguire la guerra del Vietnam, fino a quel momento raccontata solo da colleghi bianchi, e lo fa dando voce a realtà altrimenti invisibili, come quelle delle truppe di afrodiscendenti; è la prima corrispondente afroamericana di un network radiotelevisivo nazionale, la Cbs. Nel 1973 è una delle due giornaliste (l’altra è Susan Sontag) invitate a visitare la Cina comunista, salvo poi tornare negli Usa ed essere segnalata negli elenchi Fbi tra i sospettati di filo-comunismo. Ed è ancora lei ad accompagnare il segretario di Stato Henry Kissinger nel suo tour in sei Stati africani, per 26mila miglia.
Sebbene ora non se ne ricordi più il nome e il volto, nel 2002 Ethel ebbe l’onore di un francobollo a lei dedicato e il presidente Lyndon B. Johnson riconobbe ufficialmente il suo fondamentale apporto nella lotta alle disuguaglianze, donandole la penna con cui furono firmati il Civil Rights Act e il Voting Rights Act.
Oggi la sua storia, oltre a essere finalmente raccontata in un’apposita biografia, è in mostra, insieme ai numerosi premi giornalistici ricevuti, presso l’Anacostia Community Museum di Washington. Il suo contributo di donna, attivista e giornalista che incalza il potere, denuncia i soprusi e dà voce agli afroamericani, ha segnato la storia. Perché, non di rado, la grande storia è segnata da quei piccoli passi che fanno grande il passo del mondo.
da COMBONIFEM 1/12/2015