di Silvia Martone
Dilaga sulle pagine di tutti i giornali in questi giorni la notizia relativa allo stupro di gruppo su una ragazza quattordicenne a Molfetta.
Il senso di angoscia cresce quando si legge che gli stupri vengono perpetrati ripetutamente nell’arco di oltre un anno da un gruppo di dieci ragazzi, senza che la giovane vittima abbia il coraggio di denunciare da subito. I giornali parlano poi di un falso profilo facebook della vittima creato da un’amica della ragazza, in cui la quattordicenne si diceva “disposta a tutto” e pubblicava il suo numero di telefono per eventuali incontri. Scherzo di pessimo gusto, se vogliamo definirlo scherzo, che avrebbe provocato la ferocia degli stupratori.
Tuttavia, leggendo accuratamente gli articoli usciti su varie testate, il ruolo di questa amica è molto fumoso, tanto marginale che la Procura che sta seguendo il caso non dà particolare peso alla questione, poiché rientra tra i tanti atti che le indagini avviate su amici e parenti hanno prodotto. Al contrario i titoli dei giornali sono molto più attenti a sottolineare la complicità del “mostro facebook”.
Titoli come “Stuprata a seguito di un falso profilo facebook”, creano grande impatto e fanno discutere molto. La conseguenza è facile da immaginare: da giorni forum, social network e programmi TV parlano della pericolosità di Facebook, colpevole di aver favorito un atto scellerato come la violenza sessuale di gruppo.
È allarmante invece come sia passato in secondo piano il fatto in sé. Ovvero il fatto che un gruppo di dieci ragazzi di età compresa tra i 18 e i 25 anni, abbia abusato in maniera reiterata di una giovane ragazza e che, ammesso che fossero stati spinti dal profilo Facebook, si siano sentiti autorizzati per questo a commettere tale crimine. Riaffiora alla mente la vecchia e purtroppo tanto sentita storia della minigonna che causa lo stupro. Il fatto che esista un’immagine sul web di una ragazza che si dice “disponibile” può giustificare la gravità di violenze sessuali organizzate e ripetute?
Altro fatto che induce ad una profonda riflessione è che la vittima non abbia denunciato subito il fatto, forse per mancanza di punti di riferimento, sia familiari che istituzionali o per scarsa informazione sulla presenza di eventuali aiuti (consultori ad esempio).
Questo fatto di cronaca dimostra quanto ancora le donne siano vulnerabili nella nostra società, nonostante le attuali e giustissime campagne di sensibilizzazione contro la violenza, domestica e non. Tale vulnerabilità è sancita dal comportamento dei dieci uomini che dimostra, come in molti altri casi, la totale mancanza di rispetto e il senso di superiorità rispetto alla donna.
Altro segnale grave che mostra quando le donne siano indifese, è la paura di denunciare una vera e propria persecuzione, la paura di rimanere sole e forse, la mancanza di strutture pubbliche che facciano sentire veramente la propria presenza. Il problema della violenza sulle donne c’è e fa affrontato con maggiore serietà da parte delle istituzioni.
Facebook è solo uno dei tanti strumenti dell’attuale società virtuale e se da un lato va usato con la giusta cautela, dall’altro non deve diventare un nuovo alibi per coloro che spinti dal senso di onnipotenza sulle donne si sentono autorizzati a sottometterle e ferirle al punto da segnare per sempre le loro vite.