Intervista ad Isa Maggi
Nella recente intervista alla coordinatrice degli Stati Generali delle Donne, Isa Maggi, è possibile far luce a una confusione che offusca il ruolo della donna, come soggetto cui spettano anche diritti e non solo doveri.
Cara Isa, innanzitutto un mio personale ringraziamento, come appartenente al genere femminile, per la passione che dedichi a un tema così delicato quanto urgente, quale la protesta della mancanza di leggi che tutelino a 360° la figura femminile, spesso denigrata sia tra le mura di casa sia sul luogo di lavoro.
Nella società contemporanea, dove il progresso sembra governi il benessere, le denunce di fatti pubblicati sui quotidiani sono innumerevoli. Qual è il tuo giudizio su chi comunica le vicende, spesso tragiche? I toni sono consoni o eccessivi?
La comunicazione e l’informazione mediatica sui fatti di violenza generalmente non è corretta, enfatizza gli aspetti rilevanti dal punto di vista della cronaca, senza adeguata considerazione per le condizioni e la sofferenza della donna che subisce la violenza, occorre lavorare per alzare la sensibilità.
Una donna che ha il coraggio di recarsi alla polizia o in qualche altra istituzione può sentirsi tutelata o le procedure sono lente e la vittima è ad elevato rischio di esposizione, nei confronti di un aggressore anche in libertà d’uscita?
La denuncia non è garanzia di protezione, la donna si può sentire abbandonata, lasciata da sola, sarebbe utile definire e condividere una metodologia di protezione tra i diversi soggetti della rete antiviolenza.
Come può essere concepibile che una donna, pur innamorata del marito o compagno, con eventuale prole, in caso di violenza ripetuta, riesca ad assumersi le colpe, comprendendo i gesti del proprio partner e definendo lei stessa la causa della rabbia e delle conseguenze?
Gli esperti in campo psicologico e giuridico devono aiutare la vittima nella difficoltà del riconoscimento di violenza, anche da parte della donna (caso portato dal rappresentante del Gruppo Uomini in Cammino di una donna che si è rivolta al Gruppo per segnalare il comportamento violento del compagno chiedendo aiuto per lui, che non vuole riconoscerlo). Occorre riconoscere le difficoltà della donna nell’accettare di avviare un percorso di autodeterminazione, difficoltà che i servizi antiviolenza devono saper intercettare e aiutare a superare, per accompagnarla in un vero percorso di autonomia personale, che riconosca anche il lavoro come questione essenziale per l’autodeterminazione.
Una donna con figli dovrebbe prestare ancora più attenzione quando nota un comportamento offensivo da parte del marito per la loro tutela, sia fisica sia psicologica: alcuni traumi sono devastanti e possono compromettere la crescita del bambino, di fronte a fenomeni di violenza assistita, con un eventuale rischio emulativo, una volta adulto.
La donna sola è più facile che accenni alla violenza, mentre la mamma è molto difficile che ammetta la cosa, considerando che i figli non sempre riescono a capire la situazione di necessità di sottrarsi al genitore violento. Rispetto al rapporto con il padre violento, si ritiene che sarebbe utile migliorare le prassi legali per svincolare dall'autorizzazione del padre il supporto psicologico verso i minori vittime di violenza assistita; occorre lavorare per superare le difficoltà e lentezze che a volte si riscontrano con i servizi sanitari di supporto di psicologia e npi, cercando di trovare modalità più fluide e applicando una priorità particolare per la presa in carico. Riguardo all’inserimento in casa rifugio occorre riflettere in particolare sulla situazione delle donne con figli minori. Nello sguardo trasversale sui territori più ampi, forse dovrebbe essere proposta una metodologia per poter operare alcune attività con i minori.
da Il Ticino