di Maria Luisa La Torre per Tribuna Feminista, traduzione di Irene Starace
Se chiedi a qualsiasi persona della strada cos’è il femminismo, è molto probabile che ti dica che è la parità tra gli uomini e le donne. La parità di diritti, le stesse opportunità degli uomini, qualcosa del genere.
Ogni volta che qualcuno dice questo, Andrea Dworkin si rivolta nella tomba.
Io non voglio la parità come obiettivo principale del femminismo, come la caratteristica principale che lo definisce. E’ ora di renderci conto, una volta per tutte, che la parità non è la meta da perseguire, ma la lotta per liberarci dal sistema patriarcale. Finché ci sarà patriarcato, non potrà esserci parità.
Quando il patriarcato (gerarchia che favorisce gli uomini e opprime le donne) non esisterà più, c’è da aspettarsi che la parità sarà proprio una delle conseguenze. Ma la parità come obiettivo in sé è una meta conservatrice, difficile da definire e, ancora di più, impossibile da ottenere. Infatti, abbiamo anni di femminismo alle spalle, e la parità totale tra i sessi non si è ancora ottenuta.
Poche cose mi fanno digrignare i denti più che sentire alcune donne e la maggioranza degli uomini dire qualcosa come “Io non sono femminista, io credo nella parità”. Questo si deve al fatto che, in realtà, la parità non è abbastanza radicale, non è una sfida al patriarcato. Per questo, come dico più in basso, è una meta troppo modesta.
Affermo che è un obiettivo conservatore perché non attacca alla radice il problema, che è il sistema patriarcale, il quale ogni tanto, quando si sente magnanimo, ci dà alcune briciole che poi ci può togliere quando ne ha voglia. Ora ti do un Ministero delle Pari Opportunità, ora te lo tolgo — ma quelli che comandano sono gli stessi di sempre. Certamente a noi fa piacere vedere più rappresentanza femminile ai livelli del potere, ma non si può confondere quest’ indizio di parità con la parità vera. Che ci sia un maggior numero di imprenditrici o di politiche non ci aiuterà come collettivo, finché la struttura patriarcale resterà intatta. A che ci serve che il patriarcato promuova donne, se appoggia solo quelle che fanno il suo gioco? A che ci servono donne patriarcali come Cifuentes, Saenz de Santamaría, o la stessa Thatcher? Queste donne che si adattano al patriarcato non sono femministe, ma si limitano ad approfittare dei benefici che il femminismo fornisce loro. E’ femminista chi fa femminismo, non chi si allea con il patriarcato.
Il femminismo è un movimento rivoluzionario. Non ci accontentiamo semplicemente di questa “parità falsa” in cui consiste il vedere più donne in ruoli di potere, soprattutto se non sono femministe.
Quanto alla definizione della parità, ci sono due possibilità per raggiungerla: o gli uomini perdono diritti, o noi saliamo al loro livello. Esaminiamole.
Finché viviamo nel sistema patriarcale, gli uomini interpretano (e con ragione) il fatto che noi otteniamo alcuni diritti come il dover cedere dei loro privilegi, e certamente non vogliono. E’ una “parità del minimo comun denominatore” che a noi non serve a nulla. Qualche giorno fa ho letto che il compianto attore Paul Newman rinunciò, nel 1998, a parte del suo stipendio per equipararlo a quello dell’ attrice Susan Sarandon, con cui recitava. Gran gesto che gli fa onore, e certamente ci sono alcuni uomini che si comportano nello stesso modo in determinate occasioni. Ma gli uomini come collettivo non rinunceranno ai loro privilegi in massa, e questa parità negli stipendi e in altri diritti non arriverà mai finché continueremo a stare nel contesto patriarcale. Cioè, questa strada non va bene.
L’ altra possibilità è che noi saliamo al loro livello. Ma questo è impossibile, dato che le strutture sono disegnate dagli uomini e per promuovere gli uomini, e loro non vogliono concorrenza. Si è parlato diffusamente dell’ assenza o della scarsa partecipazione delle donne in posti chiave in molte imprese. E questo si deve in gran parte al fatto che si scelgono soprattutto uomini. Il capitalismo è misogino, così come le istituzioni. Le poche donne che riescono ad arrivare a quei livelli devono combattere in ambienti lavorativi tossici, maschilisti e che fomentano la competitività più brutale. Cioè, per poter essere “uguali agli uomini” devono appoggiare e lavorare in un sistema che istituzionalmente le rifiuta. Una minoranza si abitua a sopportare questi ambienti così ostili alle donne, ma molte si stancano e si arrendono.
Io personalmente appoggio le quote per ottenere una maggiore parità tra i sessi nelle imprese, ma è una soluzione a breve scadenza. Finché il sistema patriarcale continuerà ad esistere, gli uomini vorranno escludere le donne.
E se parliamo di lavori non di élite, quelli in cui si trova qualche forma di parità sono alcuni di quelli pericolosi, come essere militare in prima linea di combattimento come gli uomini; ossia, l’ unica “parità” che otteniamo sono briciole che in realtà, alla lunga, beneficiano il sistema patriarcale. Riassumendo, una specie di parità ci può essere in lavori violenti che fanno progredire gli interessi capitalisti e patriarcali (come le forze militari), o con donne in cariche di potere che lavorano sostenendo la struttura maschilista di sempre. Ma è questo che vogliamo?
D’altra parte, ora che ci penso, se gli uomini potessero essere prostituiti ed essere vittime di tratta nello stesso numero delle donne e delle bambine attualmente, o se gli si tagliassero i genitali come alle ragazze, in teoria anche questo sarebbe la parità, vero? Solo che in realtà noi femministe non siamo favorevoli a che gli uomini siano oppressi come noi.
Bisogna aggiungere che ci sono contesti in cui la lotta per la parità è assolutamente impossibile perché si tratta di situazioni che riguardano solo le donne, come per esempio l’ aborto o la violenza maschile, che non hanno un equivalente tra gli uomini. Personalmente credo che la parità, se si ottenesse, non risolverebbe nessuna di queste situazioni. Ci libererebbe solo la scomparsa del patriarcato.
Infine, è importante ricordare che viviamo in un mondo neoliberista, e il capitalismo vende alle donne l’idea che la parità è potere economico, e, siccome una minoranza di donne l’ ha ottenuto, afferma che la parità è ormai stata raggiunta e il femminismo non è necessario, o peggio, che il femminismo serve solo gli interessi delle donne abbienti a spese di quelle meno fortunate. Molti uomini si sono appropriati di questo ragionamento e ci dicono che ormai siamo uguali a loro, che in altri paesi ci sono presidenti donne, che alcune professioniste guadagnano più degli uomini, ecc., che il femminismo non è più necessario e in realtà è hembrismo [termine speculare a machismo; macho e hembra sono il maschio e la femmina degli animali]. L’ argomentazione della parità è dannosa anche perché molte donne la interpretano come l’obbligo di comportarsi come uomini, cioè in un modo odioso (ed è vero, perché le donne che fanno il gioco del patriarcato sono quelle che hanno successo) e questo non risulta molto desiderabile per loro.
Chiaramente, la maledetta parità non fa altro che deformare la lotta femminista e confondere le cose.
Per questo, ripeto, dobbiamo lottare perché scompaia questo sistema di oppressione che è il patriarcato, non imparare ad essere efficienti al suo interno. In questo modo, la parità non si otterrà mai.
Il femminismo è una rivoluzione per liberarci da questo sistema patriarcale che ci opprime e sfrutta. Visto che lottiamo, non ci accontentiamo di un’ apparenza di parità, lottiamo per la parità reale che ci darà solo la scomparsa del patriarcato.
di Maria Luisa La Torre per Tribuna Feminista, traduzione di Irene Starace