L’aborto non è buon argomento per farsi pubblicità.
Senza nulla togliere alla buona fede, e per carità se non si è d’accordo sul beneficio del dubbio, di chi racconta le proprie vicende private perché gli altri ne ricevano un messaggio e ne traggano insegnamento, chi lo fa dovrebbe riflettere bene su ciò che comunica.
Di qualche giorno fa la notizia di una giovane ragazza, definita “influencer” (non si capisce bene cosa abbia fatto o faccia di speciale che possa influenzarci) ha dichiarato pubblicamente che ha abortito a 21 anni e che ne ha riportato gravi traumi per come è stata trattata dal medico che glielo ha praticato. Pare sia stato “scortese”.
Non tutte le donne per fortuna hanno dovuto ricorrere all’interruzione di gravidanza, ciononostante, insieme alle molte altre a cui è stato necessario ricorrervi, siamo consapevoli del dolore e del trauma conseguente a quest’evento.
Le donne hanno preso coscienza da tempo che solo condividendo e denunciando gli abusi che si perpetrano ai loro danni è l’unico modo per affermare i loro diritti.
Tuttavia, se questo è valido nei casi di violenza fisica e psicologica all’interno della famiglia, delle relazioni, da parte di un partner, nel mobbing di genere ecc., l’aborto è una questione che ha caratteristiche profondamente diverse, come ben dimostrò il profondo dibattito interno al movimento delle donne, non solo femministe, nei decenni che precedettero il referendum per la legge che consentì l’aborto legale nel nostro Paese.
Abortire, allora, su tavoli improvvisati senza protezioni sanitarie grazie alle mammane o di nascosto grazie ai “cucchiai d’oro” come venivano chiamati i medici che speculavano, era sicuramente molto diverso psicologicamente e assai più doloroso e rischioso su quello fisico di quanto non possa esserlo oggi, in presenza di una legge per quanto imperfetta.
Si abortiva di nascosto.
Dalla famiglia, dal proprio partner, dalle amiche, dalla società. In solitudine e nella disperazione. Perché spesso quelle gravidanze erano frutto di un rapporto violento o indesiderato. Per la situazione economica o sociale inadeguate a fare crescere un figlio. Per la paura di perdere un posto di lavoro.
Era illegale allora, la legge perseguiva chi lo praticava e la società additava chi lo richiedeva.
“Quella ha abortito” era la frase spregiativa che denunciava l’essere riprovevole. Di conseguenza una “puttana” o di “facili costumi”. Una che se chissà quanti uomini aveva avuto e quindi doveva pagare la propria scotumatezza.
Quanti pianti prima e quanti dopo. Un aborto non è mai stato una passeggiata.
Dunque il messaggio di questa giovane ragazza-influencer (parola oggi considerata anche da Treccani), che dovrebbe fare riflettere gli altri, donne e uomini, arriva un po’ in ritardo rispetto a quanto si è riflettuto da sempre sull’argomento fra donne e sulla loro pelle.
L’influencer punta il dito sulla legge 194 che, ha scoperto, va cambiata in meglio.
Ma il messaggio che vorremmo inviarle, non influenzarla, a nostra volta è d’informarla che c’è un rischio peggiore di mantenere una legge già esistente. Che ogni tanto affiora in giro per il mondo (come è avvenuto recentemente in uno stato americano) che si cancelli questo diritto?
Però, ci si rende conto che una ragazza debba farsi le ossa, la pelle e l’esperienza, che ha bisogno di dimostrare che esiste con ogni mezzo.
Se pensasse però, che il problema delicato dell’aborto sia nato con lei, sinceramente, le daremmo il consiglio di documentarsi meglio, di non accelerare i tempi della sua “influenza”. Potrebbe rischiare di restare in-influencer.
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