Finché siamo in vita il pensiero della morte ci accompagna.
Fin da piccoli, sia pure con il distacco proprio di chi non ne è ancora consapevole, si devono affrontare perdite e lutti. Dei nonni, di un cane o di un gatto ma anche di altri fuori dalla cerchia familiare, quelli delle favole, quelli delle guerre, quelli di cui si parla.
La morte, sotto sotto, nella vita, la fa da padrona e quando la si percepisce vicina, così vicina quasi ad afferrarla, può diventare un evento o un grande racconto.
Per questo le altrui morti, a noi vivi, colpiscono così tanto fino ad affascinarci.
Come sarà il dopo di noi? Cosa proveremo in quell’ultimo momento che sta separandoci dalla vita? Saremo solo volti bianchi od anime in volo? Sarà buio o luce eterna? Ritroveremo parenti, amici, i compagni a quattro zampe, le ridenti colline e le onde irrequiete o tutto sarà nero e solitario?
Nella vita, per fortuna, questo pensiero viene allontanato, rimosso, nella corsa alla sopravvivenza, nella ricerca degli affetti, nella soddisfazione delle passioni. Salvo ripresentarsi nelle sconfitte, negli abbandoni. Costante negli anni della vecchiaia.
Forse sarà per questi motivi che l’annuncio dato nei giorni scorsi dalla scrittrice Michela Murgia della grave malattia che la condurrà alla morte in poco tempo, ha suscitato tante reazioni.
Perché parlare di una persona viva ma quasi morta, suscita sentimenti che variano dalla meraviglia all’ incredulità, dal compatimento al pietismo, dalla curiosità alla morbosità.
Vivere, giorno dopo giorno, minuto dopo minuto, frase dopo frase, dichiarazione dopo dichiarazione, intervista dopo intervista, video dopo video, la soglia che esiste tra qui ora e il là dopo, il reale e l’ignoto, attraverso un’altra persona può diventare quasi esaltante.
Sarà seguito, questo passaggio, perché lei lo vuole. Passo dopo passo il suo breve oggi, l’immediatezza del finale e il dopo di lei. Sfumature di lettura.
Dice la Murgia che “la presa d’atto della sua malattia non cambia i suoi rapporti con il mondo”.
Anche perché è il Mondo che non cambia. Se così fosse infatti , se avesse fatto i conti con le sofferenze di chi lo abita, esso non sarebbe sopravvissuto. Tanto vale arrendersi, con sapienza e intelligenza all’inevitabile, considerando cosa e quanto possiamo cogliere da ciò.
Intanto, la Murgia ripropone concretamente la presenza del grande male contro il quale la scienza è ancora impegnata a debellarlo, il cancro, insopportabile anche solo a nominarlo.
Tutti quelli che come lei, uomini, donne e bambini, soffrono di questa terribile malattia che ancora non è stata sconfitta, sanno che la lotta è difficile e in quel percorso a ostacoli è naturale soffermarsi sul senso della vita e della morte.
Chi non l’ha vissuto, chi non lo pensato, chi non ci ha fatto i conti, ancora non sa. Nessuno si arrende al suo essere un corpo spezzato, all’impazzimento di un cuore.
Michela Murgia ha un dono in più di tanti altri, che è la capacità del dire e dello scrivere (a modo suo).
Che si sia d’accordo o meno su cosa o come, sulle posizioni personali, sulle battaglie che cavalca, sulla presunzione e la gestione della propria intelligenza, ciononostante appunto, non possiamo che osservarla entro i confini che lei vorrà indicare.
Ha rivelato che la malattia l’ha colpita, senza darle alcun segnale d’avvertimento, a tradimento. Quando ormai era troppo tardi per ribellarsi. Ma anche che le parole di chi avverte la morte vicina possono testimoniare e non essere solo richieste d’aiuto, di dolore, d’ addii solitari, d’amori spenti.
Al contrario le parole della Murgia sono un inno alla vita nella sua complessità ““Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho ricordi preziosi” ma anche una presa d’atto “Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono”, Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente”.
Dunque la morte è un fatto, un accadimento, una certezza nella vita degli umani, non un ingiustizia (se lo fosse lo sarebbe anche la vita) mentre lo sono i modi in cui essa avviene, per età, per circostanze, per modalità.
Il pubblico di Michela Murgia, si divide in sostenitori e detrattori, cosa normale quando si diventa personaggi pubblici e quando di esprimono posizioni di cultura politica, di stile di vita altro. Non solo solidarietà, affetto e sostegno ma anche critiche per aver deciso di svelare e raccontare la sua malattia (un carcinoma renale al quarto stadio, ndr.).
Un altro modo, a modo suo, di essere al centro dell’attenzione, di provocare: “spero solo di morire quando Giorgia Meloni non sarà più presidente del Consiglio”.
Dopo, non saranno pochi quelli che la denigreranno, ma forse quel pensiero la mette di buon umore, chissà.
“Come vorrei essere ricordata? Ricordatemi come vi pare. Non ho mai pensato di mostrarmi diversa da come sono per compiacere qualcuno – conclude – Anche a quelli che mi odiano credo di essere stata utile, per autodefinirsi. Me ne andrò piena di ricordi. Mi ritengo molto fortunata. Ho incontrato un sacco di persone meravigliose. Non è vero che il mondo è brutto; dipende da quale mondo ti fai. Quando avevo vent’anni ci chiedevamo se saremmo morti democristiani. Non importa se non avrò più molto tempo: l’importante per me ora è non morire fascista”.
O forse, Michela Murgia, parlando e scrivendo non sta facendo altro che aspettare la sua “accabadora*”.