di Marta Ajò
Due sono ora le bandiere dell’Afghanistan.
Quella bianca e nera dei talebani, che hanno occupato il Paese ed hanno insediato il loro governo annunciando un cambiamento radicale secondo i dogmi della Sharia.
L’altra, rossa, verde e bianca, appartenente a cittadini che rivendicano la libertà della propria patria dal regime che si vuole instaurare.
E’ facilmente immaginabile che, dove si usi la forza, il terrorismo, la repressione, la crudeltà che i talebani hanno fino ad oggi dimostrato e praticato, la prima sarà quella che sventolerà per molto tempo in quel Paese.
Anche se i “nuovi” talebani hanno dichiarato nella loro recente conferenza stampa di avere “liberato il Paese dagli stranieri”, di non volere “nemici interni né esterni”, affinché l'Afghanistan “non sia più un campo di battaglia” di non volere “vendette” contro gli oppositori”, e assicurato di volere riconoscere alle donne “diritti secondo la sharia” (frase già delimitante la libertà di scelta), quello che si registra, purtroppo, non corrisponde al racconto che testimonianze e immagini ci mostrano. Fin dal primo momento si sono registrate azioni contro una folla impaurita e in fuga.
Il dramma afghano è lungo almeno 20 anni ed è ben noto a chi segue i fatti della politica internazionale e della storia del mondo. Il passato più recente ancora lo ricordiamo. Difficile girarsi dall’altra parte e convincersi che qualcosa sia cambiato e che essi non siano più gli stessi. Probabilmente una parte di loro, come dato generazionale, ma pur sempre giovani cresciuti e istruiti con quegli insegnamenti che hanno permesso il dilagare del terrore, divieti e restrizioni delle libertà, lapidazioni ed esecuzioni pubbliche, annullamento di ogni diritto per bambine e donne.
Sembra difficile ricordare che questa terra ha avuto, in un passato ben più lontano, periodi di dignità nazionale e culturale in cui l’appartenenza di genere non precludeva alle donne il diritto all’istruzione e al lavoro o imponeva l’obbligo di indossare il velo.
Non si ricorda perché sono ormai decenni che questo paese è nell’opinione internazionale sinonimo di un dominio politico e culturale dei peggiori, la rappresentazione del fallimento degli interventi stranieri, dell’impossibilità di stabilire la democrazia.
E come avviene, in questi tragici fatti, la vittima sacrificale è sempre la popolazione, adulti e bambini, privati nelle loro radici più profonde e dei diritti umani.
Nella tragedia, si conferma che la condizione della donna è quella che ha avuto il suo personale martirio. Ridotte a poco più che niente sul piano umano e fisico, persa la dignità, merce di scambio. In questa oppressione si assistette impunemente al verificarsi quasi di un femminicidio di massa causato da fame, infezioni, lapidazioni, condanne a morte. Impossibile ogni manifestazione di dissenso, ogni richiesta d’ aiuto.
Per lungo tempo il destino delle donne afghane si è compiuto in silenzio, nonostante che la loro condizione rappresentasse una sconfitta, un disonore per tute le altre donne nel mondo. Ciò che accadeva in Afhanistan veniva esportato all’opinione pubblica come un concetto esistente nella cultura locale, di popolo, da rispettare e in cui non interferire.
Solo negli ultimi anni, la pressione verso questi “costumi” repressivi si era allentata e le donne, specie le più giovani hanno potuto accedere agli studi, al lavoro, pure in una condizione non paragonabile alle libertà di cui godono oggi le donne occidentali, di quelle che vivono nella democrazia.
Rispetto alle nostre conquiste, alle nostre battaglie, al nostro fare politica, alla nostra presenza nella società, di cui nel confronto appare quasi esecrabile lamentarsi, esse tutt’oggi rappresentano un destino di emarginate. Dunque sorelle sfortunate che non andranno dimenticate.
In questo complesso processo di politica internazionale la necessità di negoziati, la richiesta e la promozione di tutti i diritti umani in quel territorio saranno alla base della politica prossima e futura. Il quadro generale è in movimento.
Sulla sorte delle donne la preoccupazione e l’allerta di tutte le altre è altissima. Le testimonianze non sono certo rassicuranti. Coraggiosa quanto timida la protesta delle afghane e non potrebbe che essere così.
In loro soccorso ci si è subito mobilitate ma il problema è come tramutare le parole in concretezza senza che ogni appello, ogni dichiarazione, ogni articolo diventi retorica.
C’è bisogno, ora, di fare sentire lo sdegno e la protesta al Governo, come hanno fatto gli Stati Generali delle donne, che hanno richiesto interventi concreti per accoglierle nel nostro Paese inviando un Appello di contenuti precisi e soluzioni realizzabili solo lo si voglia (APPELLO).
Sarebbe auspicabile, in un alleanza fra donne, ufficializzare un “comitato permanente di informazione e di controllo che segua l’evolversi delle cose con l’intento non temporale di sollecitare il Governo ad assumere posizione ogni volta sia necessario.
Non lasciare sole le afghane per non essere sole noi stesse. Perché un alleanza fra donne sia sostanziale, senza confini, senza limiti, finché necessiti, è fondamentale per porre fine alla “questione” di genere nel mondo.