di Fabiana Martini
Perché in Italia la percentuale di donne nelle istituzioni è ancora così bassa? Perché una donna in politica si sente in dovere di impegnarsi molto più dei colleghi e, se madre, deve quasi nasconderlo per non essere penalizzata? Cosa perde una società che non affronta il problema della scarsa rappresentanza di metà della cittadinanza nei luoghi in cui si decide della vita e del bene comune?
Per fare politica in Italia o ti voti totalmente alla causa o sei un uomo. Perché se hai quello che io chiamo il così detto “pensiero della cena”, ovvero per dirla con le parole di Francesca Toffali, assessora comunale a Verona, «se quando arrivi a casa, non hai nessuno che ha preparato la tavola o fatto la spesa», come fai a trovare il tempo per impegnarti in politica?
L’impegno politico richiede dedizione e soprattutto presenza, non è roba da smart working, perdipiù in un contesto in cui le regole e i tempi li dettano i maschi. E dunque, se hai dei figli non ancora autonomi e le commissioni o le sedute sono convocate di pomeriggio, e la conciliazione non te la sei prima trovata in casa, è una vera corsa a ostacoli fatta con i tacchi. E pazienza affrontarla per lavorare, ma la politica è un’altra cosa e, a meno che tu non abbia fatto sul letto di morte una promessa al nonno partigiano o non sia figlia dell’attivismo degli anni Settanta, lasci serenamente stare.
Numeri e quote
Del resto non è un caso se nel nostro paese solo il 14% dei sindaci è donna. Anche perché — giova ricordarlo e non è banale — un posto occupato da una donna è un posto sottratto a un uomo e sono in pochi a pensare che tutti i posti maschili che eccedono il 50% sono posti tolti alle pari opportunità.
Va un po’ meglio nelle giunte comunali, dove le assessore sono il 42,15: è l’effetto della legge Delrio, la 56/2014, che prevede che «nelle giunte dei Comuni con popolazione superiore a 3000 abitanti nessuno dei due sessi può essere rappresentato in misura inferiore al 40%». Una norma, peraltro non sempre rispettata, che compensa l’insufficiente sensibilità in materia: «Il sistema maschile» sostiene Luisa Guidone, presidente del Consiglio comunale di Bologna «è un sistema che si autorigenera e si autoalimenta e le leggi — quote, liste bloccate, doppia preferenza di genere — sono l’unico modo per scardinarlo».
Quel complesso di inadeguatezza
Ma ci sono certamente altri fattori che incidono in questa scarsa partecipazione delle donne alla vita politica del paese. Uno di questi, profondamente culturale e quindi più difficile da aggredire, lo esprime con grande efficacia Laura Marzi, sindaca di Muggia, in provincia di Trieste: «Noi donne scontiamo un complesso d’inferiorità, che ci fa sentire perennemente inadeguate. Abbiamo due strade per provare a superarlo: adottare uno stile autoritario per sopperire alla mancanza di autorevolezza oppure impegnarci al massimo per far emergere al meglio le nostre competenze».
Impegnarsi al massimo, almeno il doppio degli uomini, essere sempre disponibili, non contrattando ad esempio sulle proposte di orari e mai adducendo la famiglia come ragione di difficoltà organizzativa, per dimostrare di essere all’altezza, cosa che per gli uomini è data per scontata, nonostante in questi primi settant’anni e rotti di democrazia non abbiano fatto esattamente dei miracoli. Un problema di fatto che non riguarda solo la politica, ma che in politica è più grave, perché è lì che si prendono le decisioni, che si stabiliscono le regole; è con la presenza che si cambiano le cose, e una sottorappresentazione della metà della popolazione rischia di perpetrare situazioni di disparità e di avallare lo status quo, fatto tra l’altro di mancanza di servizi e di strumenti di conciliazione vita-lavoro-volontariato.
«Un modo per incoraggiare le altre donne a impegnarsi» dice Stefania Proietti, sindaca di Assisi «è partecipare ad alcuni eventi pubblici assieme ai miei due bambini, per far capire che i due ruoli non sono inconciliabili». La maternità, infatti, è un dato che le donne tendono a nascondere, abituate come sono ad essere penalizzate (quando non addirittura licenziate) nel mondo del lavoro: dovrebbe invece essere un valore aggiunto, considerate tutte le competenze che si acquisiscono quando si diventa genitori, o perlomeno un elemento di realtà.
Una politica a metà
E come è evidente a tutti quanto la politica abbia bisogno di senso della realtà, di gente che conosce le difficoltà quotidiane, dovrebbe anche essere evidente a tutti quanto la politica abbia bisogno delle donne. Non perché sono più brave, perché sono più pragmatiche, perché sono esperte nella cura e particolarmente abili nel costruire reti e relazioni, ma semplicemente perché sono: sono una parte fondamentale di quel “tutti” che è parola-chiave della nostra Costituzione. E pure, se proprio vogliamo, di quella Buona Notizia che ancora oggi non ha perso la sua attualità.
La politica non può e non deve rinunciare alla differenza, unica condizione di sopravvivenza dell’umano. Un paese, una città, un territorio che riconoscono e fanno spazio alle donne è un paese, una città, un territorio, dove tutte e tutti stanno meglio. È una questione di giustizia, non di bravura o di merito. Se la giustizia ha ancora un senso.