Mal di vivere o malasanità?

da | Nov 11, 2022 | Testimonianze e contributi

 

A proposito di Lia, adolescente alle prese con la violenza della psichiatria.

Il caso che vorrei proporre in questo articolo è legato all’adolescenza e ai suoi stati d’animo malinconici e difficili, sintomi che non trovano riparo però nell’istituzione sanitaria. Mi viene in mente, nella mia pratica clinica, la vicenda di una mia paziente, Lia, dal nome suggestivo di una canzone “Signora Lia”di Claudio Baglioni, che rimanda all’ebraico, al significato di “stanca”, ma in senso lato anche “laboriosa”, ben adatto alla figura biblica, prototipo di donna attiva e lavoratrice… E Lia è così, presa da un amore, come nella canzone di Baglioni, che ha tradito, che l’ha abbandonata poi lui stesso e che l’ha fatta smettere di “produrre”, di essere attiva nelle sue cose.

Circa un anno fa, Lia, mia paziente sedicenne, di una bellezza luminosa, ma “sfrontata” perché ribelle, subisce il contraccolpo dell’abbandono da parte del fidanzato Marco, suo coetaneo, si deprime e piange spesso forte all’idea che lui, l’”ombroso” Marco non sia più una sua presenza utile e garanzia di stabilità mentale, lei che soffriva della separazione dei suoi genitori da quando era in tenera età.

La madre e il padre si accorgono di questo calo di umore e di gioia di vivere della loro Lia, che esce sempre meno, cammina in alcuni momenti provando attacchi di panico, ha sempre meno contatti con gli altri, soffre d’insonnia, mentre rimugina sui suoi possibili errori nella relazione d’amore, durante la notte, che la rende stanca e triste…

Probabilmente la sua ansia è legata al fatto che, appunto, dopo che la mamma e il papà erano divisi, dopo che lei ha vissuto questo trauma, Marco era diventato per lei un legame certo, una garanzia di amore in cui rifugiarsi.

Tuttavia la scorsa estate, Marco decide di stare senza di Lia, presa anche da distrazioni imberbi ma emozionanti, con la motivazione che loro due in coppia sono immaturi, troppo precoci per una storia che aveva già i tratti di un legame indissolubile e, forse, eccessivo per l’evoluzione delle loro personalità. Lia sembra subito capire, ma non accetta la fine della loro relazione quasi inconsciamente, dato che inizialmente ne parla in tono razionale e lucido, sembrando convinta delle stesse cose sul loro amore, che ha preso vita quando loro erano poco più che quindicenni, ma poi cade in vissuto costante abbastanza cupo e triste, perché l’idillio amoroso non c’è più.

Si sa, la vita a questa età è ricca e variegata di cambiamenti anche profondi, e fare esperienze in tempi magari più adulti ci porta a svolte e incontri senz’altro più veri e duraturi. Quest’ultima riflessione Lia è capace razionalmente di elaborare ma non di capirla inconsciamente, per Lia quest’amore era tanto bello quanto infinito, inconsciamente, da vivere.

Una sera, complice un’amica della madre che consigliò Lia di auto-curarsi psicologicamente con un ansiolitico dal suo mal-di-vivere, la mia paziente disperata e afflitta, romantica e sofferente d’amore, affamata o, meglio, assetata di affetto e cure, abbonda nella dose per dormire più pesantemente e più a lungo, non abbinando però nessun’altro psicofarmaco, né alcol.

Sarebbe opportuno chiedersi se questo ingurgitare sia stato più di una ricerca interiore, ovvero per trovare della pace per sé, invece che permettesse di pronunciare termini psicodiagnostici come “agito contro la sua persona”, oppure “tentativo di suicidio”. Le ultime “etichette” diagnostiche sono state affibbiate dalla neuropsichiatra che era di turno in un nosocomio della bassa Brianza, a nord-ovest di Milano. Infatti la madre di Lia, Sara, la mattina seguente vedendo che la figlia non riusciva a svegliarsi, guardandola accasciarsi come se svenisse una volta che provava a stare in piedi, per l’eccessivo torpore, mentre si accorgeva della boccetta di psicofarmaco mezza vuota, sul comodino accanto al letto, chiamò urgentemente il 118.

Così, dopo l’intervento di mezzi di risveglio sanitari poco corretti, come schiaffi, strattonamenti, getti di acqua fredda sul corpo, Lia si risvegliò bruscamente, ma incominciò a piangere con lacrime ancora più disperate della sera precedente, accolte in malo modo, così brutale e anaffettivo, freddo emotivamente e con indifferenza da questa neuropsichiatra attenta solo a formulare etichette diagnostiche e una terapia “massiccia”di psicofarmaci aggiungendo un antipsicotico e un antidepressivo in dosi rilevanti.

La visita si è svolta in circa 7 minuti, al dire della mia paziente e della madre Sara, in modo da far percepire la prepotenza, la violenza psicologica da chi sta in un ruolo dominante e di potere. Lia infatti ha percepito di essere stata accusata e stigmatizzata del suo provare dolore e sofferenza, del suo vivere spento e angosciato, coinvolgendo, “puntando l’indice”, verso la madre, di essere responsabile di aver fatto condurre una vita non serena la figlia e di quanto era appena accaduto, intimando di riferirlo ai Servizi sociali di zona!

Come ultima prescrizione, la specialista neuropsichiatra determina un TSO per valutare l’assorbimento dei farmaci, con la loro assunzione obbligata, senza una compliance terapeutica, né una alleanza con il medico che permettesse di percepire la cura benevolmente e non come una “punizione” e come potesse reagire la ragazza, ma costretta a vivere “chiusa” in ospedale, nel reparto neuropsichiatrico.

A questo punto Sara, facendosi portavoce del desiderio e della volontà di Lia, mi chiede consiglio e pretende il mio intervento professionale, a proposito della situazione messa così. Cosa che svolgo e applico,  così dispongo che non vi sia in corso nessun TSO, la terapia farmacologica venga affidata ad una brava psichiatra, che le prescriverà una cura psicofarmacologica adeguata perché equilibrata, non con dosi forti, che le hanno permesso gradualmente con una intelligente deprescrizione, di ritornare ad una condizione di compenso buono di salute mentale e di riprendere a sognare anche l’amore.

Era l’inizio di settembre 2021, se fosse stata “reclusa” in reparto, Lia non avrebbe potuto ricominciare la scuola, frequentava infatti la terza liceo scientifico presso una scuola brianzola, e se fosse successo ciò, avrebbe comportato un altro trauma, dover stare isolata in ospedale, avere poco spazio di ascolto e di riconoscimento dei suoi bisogni e desideri, magari era anche difficile farli emergere in quel contesto, a quell’età, con una cura già  proposta in modo autoritario, non rispettosa degli aspetti profondamente soggettivi e umani.

Devo ringraziare la teoria e le idee di grandi psichiatri, ovvero che hanno illuminato il cammino della cura della malattia mentale, come il Prof. Franco Basaglia, Peppe Dell’Acqua, Piero Cipriano, Mario Colucci, che è membro della mia Scuola di specializzazione in psicoterapia psicoanalitica I.C.L.E.S., e non da ultimo Giuseppe Galdi per aver sostenuto e rinforzato per sempre i miei ideali di clinica democratica, perché aperta e rispettosa del soggetto, di tutte le sue contraddizioni, fragilità ma soprattutto della sua dignità, della sua originalità, unicità, irripetibilità, e di come la sua vita sia preziosa.

Autrice: Dr.ssa Paola La Grotteria