intervistata da Alessandra Pigliaru
Marcella Campagnano è fotografa e femminista.
Tuttavia, come ha recentemente ribadito a Paola Mattioli sulla rivista Via Dogana, la definizione di fotografa non si addice a ciò che effettivamente ha condotto in questi anni.
Cara Marcella, ciò che hai messo in scena è più la narrazione amorosa e radicale dell’esperienza femminista di quegli anni?
“Non sono una fotografa, non perché ho studiato pittura a Brera ma perché la macchina fotografica è solo lo strumento più diretto e immediato che, intorno alla metà degli anni Sessanta, cominciai a utilizzare come una scrittura, per fissare via via i frammenti e i luoghi dell’esperienza e perché stavo maturando l’urgenza di aprirmi e dialogare con le mie simili”.
So che hai fatto parte del collettivo milanese di Via Cherubini e che, insieme ad altre, hai partecipato ad un gruppo che di confrontava sulle immagini. Di cosa discutevate?
“Sì, il gruppo sull’immagine è nato nel 1974, in casa di Daniela Pellegrini quando, tornate dall’intensissima, esaltante esperienza del convegno internazionale femminista nell’isola danese di Femo, trascinate dall’entusiasmo ci trovavamo a prolungare il desiderio di restare vicine a condividere vita e ricerca. Daniela, Silvia Truppi ed io eravamo appena tornate; a noi si aggiunsero diverse altre amiche artiste o non, comunque interessate all’immagine, con l’intenzione di fotografarci vicendevolmente e di travestirci in varie pose e ruoli. I primi esperimenti nacquero proprio in quel contesto ma, data la mia formazione e gli interrogativi che da diversi anni mi ponevo sui modi e il linguaggio da usare per tentare di uscire dai consueti schemi fotografici di rappresentazione, maturai la necessità di un’immagine semplice e archetipica, il più possibile priva di intenzionalità”.
I tuoi due lavori fotografici principali fanno parte entrambi di L’invenzione del femminile: prima arriva Ruoli, 1974-1980 (pubblicato per la prima volta nel 1976), che definisci un teatro dell’esperienza; c’è poi Regalità, 1985-1989. Il primo lavoro è costituito da immagini di donne che interpretano, attraverso trucchi e travestimenti, i vari ruoli che il sociale impone di fatto, quasi a nostra insaputa. Nel tuo secondo lavoro avverti invece tutto il guadagno della regalità come differenza che sa di sé. Per entrambe le serie, i set che costruivi erano casalinghi. Ti occupavi insieme ad altre di trovare, cucire e modificare i vestiti. Alcuni, come nel caso delle tue Regine, erano addirittura di carta. Stabilivi le pose ma, durante la preparazione, tenevi conto della relazione con le donne che avevi davanti.
“Sia in Ruoli che nella serie sulla regalità ho tenuto presente lo scambio costante tra soggetto e oggetto, che poi è il tema di tutto il mio lavoro. Per quanto riguarda l’allestimento del set, credo di aver già raccontato come trasformavo una parete del soggiorno di casa, spostando un divanetto, appendendo al muro un pezzo di moquette, accendendo semplicemente due lampade, ponendo uno specchio in posizione tale perché ognuna di noi potesse controllare la sua immagine prima che io, con la macchina fissa sul cavalletto, scattassi la foto. Le immagini di questa serie sono soltanto la traccia rimasta di quella allegra fatica, nata da relazioni, incontri scambi però, come dice Susan Sontag , l’arte non è mai stata soltanto un veicolo di idee e sentimenti ma, anche un oggetto che modifica la nostra coscienza e la nostra sensibilità. Ho sempre intuito e accettato che il mio lavoro, costruito esattamente 40 anni fa, si trovasse circondato dal silenzio, forse perché si discostava dai modi in uso e di rito in quegli anni. Per la mia esperienza di donna e “artista”, presa di coscienza e trasformazione di modi di vita e linguaggi sono indissolubilmente legati. Parafrasando Teresa de Lauretis dentro la città fortificata della cultura (…) solo un incessante lavoro di decostruzione e ricostruzione da parte delle donne potrà definire nuove fisionomie; per le donne come per l’arte. Guardandole a distanza queste mie sequenze, sempre uguali, sempre diverse, sono più simili al lavoro di tessitura che non all’arco di Apollo che, come la macchina fotografica, colpisce dinamicamente da lontano. Forse mi ripeto ma con il mio lavoro, faccio della macchina fotografica un uso prevalentemente statico, il diaframma dell’apparecchio si apre e si chiude come lo sportello di un frigorifero. Ciclicità di ritmi e uso degli strumenti al femminile?”
Ti ho incontrata per la prima volta all’incontro di Paestum 2013 e ho visto dal vivo, insieme alle altre mie amiche di collettiva_femminista, i tuoi album. Mentre guardavo le tue fotografie e ascoltavo i racconti e le vicende dietro a ogni scatto, mi sono detta che anche il modo dell’immagine è efficace per trasmettere la memoria a chi come me è arrivata dopo. Mi ha rimandato i corpi e i volti che diversamente non avrei saputo immaginare. In questi anni, alcune giovani donne ti hanno chiesto un confronto relativamente al tuo lavoro?
” Le avanguardie femministe degli anni ’70, molte artiste di quegli anni, hanno fatto dell’auto-rappresentazione e della rappresentazione dell’immagine femminile, il tema della loro ricerca e il libro di Raffaella Perna, Arte, fotografia e femminismo in Italia negli anni Settanta, è la testimonianza della situazione italiana non molto conosciuta e studiata. Certamente una traccia è rimasta, soprattutto perquanto riguarda l’attenzione alla corporeità. Molto interessante è anche l’analisi che fanno Alessandra Gribaudo e Giovanna Zapperi nel loro volume Lo schermo del potere. Femminismo e regime della visibilità. Mi sembra che in questa attenzione competente ci sia la necessità di ridefinire e forse riparlare della relazione tra immagine, rappresentazione e costruzione delle soggettività. Farlo partendo dalla critica al sistema di giudizio, soprattutto morale”.