Nel nome della madre Storia del doppio cognome, tra giurisprudenza, prassi e assenza del legislatore

da | Gen 30, 2022 | Testimonianze e contributi

di Maria dell'Anno*

“Chi fuor li maggior tui?” chiedeva Farinata degli Uberti a Dante Alighieri nel sesto girone dell’Inferno. Da chi proveniamo è una delle più fondamentali domande identitarie che caratterizza la nostra esistenza come esseri umani.

E da quali elementi traiamo la nostra identità, il nostro essere parte di un mondo sociale, se non prima di tutto dal nostro nome? Il nome è ciò che ci identifica in qualunque rapporto con altre persone, è il primo indispensabile elemento della nostra identità personale; la prima informazione che inevitabilmente diamo al momento di conoscere una persona è il nostro nome e cognome. Ebbene, della nostra identità di italiani/e fa parte l’avere – salvo poche eccezioni – un unico cognome, quello di nostro padre. Curiosamente la legge prevede la possibilità di porre ai figli fino a tre nomi (prenomi), ma un solo cognome. O meglio, questo è ciò che la legge italiana prevedeva fino a cinque anni fa. O, meglio ancora, questo non era ciò che la legge italiana prevedeva, bensì ciò che dava per scontato: la legge italiana non prevedeva esplicitamente da nessuna parte che alla nascita debba essere imposto ai figli di persone coniugate il solo cognome del padre, lo considerava implicito, ovvio, talmente ovvio da non meritare una previsione di legge. Eppure qualunque giovane che si accinge a studiare giurisprudenza imparerà che, in uno stato democratico, tutto ciò che non è espressamente vietato è consentito. Ebbene no. In questo caso – come in altri – le vie della legge sono infinite, e arrivano perfino dove esse stesse non hanno mai sentito la necessità di arrivare.
Ma andiamo con ordine. Per raccontare una storia – la storia del doppio cognome – bisogna partire dall’inizio.

Iole Natoli e le sue figlie
E allora partiamo dal 1982. In quell’anno il Tribunale civile di Palermo pronunciò la prima sentenza riguardante il cognome materno 1: a ricorrere alla giustizia era stata Iole Natoli, che nel 1980 aveva convenuto in giudizio il Ministero dell’Interno, il Sindaco e il Procuratore della Repubblica, nonché suo marito, contestando il fatto che negli atti di nascita delle sue figlie fosse stato indicato il solo cognome paterno “in virtù di una disposizione ritenuta implicita nell’ordinamento”. Iole Natoli dedusse di essere titolare di un diritto soggettivo a trasmettere alle proprie discendenti il proprio cognome, sulla base del combinato disposto degli articoli 3, 29 e 30 della Costituzione: imporre alla nascita il solo cognome del padre, affermava questa pioniera, è illegittimo in quanto lesivo “della dignità sociale della donna e della sua posizione di moglie e di madre”. Il Tribunale osservò che “invero, l’art. 73 R.D. 1238 non prescrive espressamente l’attribuzione del cognome paterno, ma trattasi di un principio secolare riconosciuto dal diritto ab immemorabili che, come rilevano le stesse parti, è talmente radicato nelle consuetudini e penetrato nel costume da essere accolto universalmente in tutti gli Stati e da non potersi quindi dubitare del suo valore giuridico” 2. Inoltre il Tribunale affermò che non è il padre a trasmettere il proprio cognome al figlio, ma è il cognome ad estendersi dal primo al secondo: “trattasi cioè di un acquisto necessario che prescinde dall’interesse dei genitori (quale che ne sia il sesso) e quindi dal vantaggio o dal pregiudizio che a ciascuno di essi possa arrecare”. Non si tratterebbe, cioè, di un diritto né del padre né della madre, ma di una norma che trascende l’ordinamento. Il Tribunale rigettò quindi la richiesta di Iole Natoli, evidenziando nella sua conclusione “la assoluta novità delle questioni” (che, per la cronaca, lo indusse a compensare le spese processuali tra le parti).
Ebbene assoluta novità: Iole Natoli, dopo più di trent’anni dall’entrata in vigore della Costituzione repubblicana, del principio di eguaglianza e pari dignità davanti alla legge, del divieto di discriminazione e di parità dei coniugi, faceva notare alle Corti italiane che sussisteva nell’ordinamento una discriminazione quotidiana e istituzionale nei confronti delle donne. Delle madri: degli esseri umani, cioè, che da che mondo è mondo mettono al mondo gli altri esseri umani.
Ma no, non era una discriminazione, affermò il Tribunale.
Qualche anno dopo, nel 1988, la Corte Costituzionale, con due ordinanze 3, dichiarò manifestamente inammissibili le questioni di legittimità sollevate in materia di attribuzione automatica del solo cognome paterno ai figli, affermando che una tale innovazione “è una questione di politica e di tecnica legislativa di competenza esclusiva del conditor iuris”, anche se riconobbe che sarebbe “probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale, sostituire la regola vigente […] con un criterio diverso, più rispettoso dell’autonomia dei coniugi”.
La prima proposta parlamentare sul doppio cognome dei figli, che prevedeva anche la possibilità del cognome unico a scelta, fu presentata nel 1989 dalla deputata Laura Cima. È superfluo specificare quale esito ebbe. Dieci anni prima, nel 1979, la proposta parlamentare di Maria Magnani Noya riguardava invece soltanto il cognome unico a scelta. Sono cioè più di quarant’anni che ne discutiamo, senza essere arrivati ad una soluzione!

Cusan e Fazzo. Atto primo.
Dal primo tentativo Di Iole Natoli, trascorsero circa vent’anni in cui nulla cambiò, finché, nel 2000, una coppia di genitori riprovò con la via giudiziaria: Alessandra Cusan e Luigi Fazzo ricorsero al Tribunale di Milano per ottenere la rettifica dell’atto di nascita della loro prima figlia 4, nel senso che le fosse attribuito il solo cognome materno in luogo di quello paterno risultante dall’atto formato dall’ufficiale dello stato civile in contrasto con la volontà espressa dal padre al momento della dichiarazione di nascita. Il Tribunale rigettò la loro richiesta 5, osservando che, anche se nessuna disposizione di legge impone di iscrivere un figlio nato da una coppia sposata con il cognome del padre, tale regola corrisponde a un principio ben radicato nella coscienza sociale e nella storia italiana.
La coscienza e la storia. Ci sarebbe da riflettere bene su questi due concetti. Ma ci vorrebbero troppe pagine.
Torniamo ai nostri genitori Cusan e Fazzo, che non si arrendono. Le grandi evoluzioni e rivoluzioni sono fatte proprio da persone che non si arrendono, e che certe dei loro diritti continuano a combattere, continuano a scalare montagne più alte degli ottomila metri dell’Everest chiamate ingiustizia.

In secondo grado, i genitori ricevettero dalla Corte d’appello questa risposta: la mancata applicazione della tradizionale regola di attribuzione del cognome paterno comporterebbe delle conseguenze per i figli ai quali fosse stato attribuito il cognome della madre, in quanto potrebbero essere individuati come “figli non legittimi” 6. È troppo interessante riflettere un momento su questo punto: la Corte, paventando che i figli portatori del cognome materno possano essere “scambiati” per figli illegittimi, afferma implicitamente che esiste una tale discriminazione e che, almeno in una certa misura, essa sia socialmente comprensibile. È da questi impliciti che si evince quella coscienza sociale che può diventare – e spesso diventa – la prima vera nemica dei diritti. Senz’altro dei diritti delle donne.
Cusan e Fazzo, però, non si arrendono neanche di fronte a questa minaccia d’ignominia sociale per la loro figlia. E così la Corte di Cassazione sollevò questione di legittimità costituzionale della regola che attribuisce automaticamente ai figli di coppie sposate il cognome del padre 7.
La discriminazione esiste ma…
Ed è lì, davanti alla Corte costituzionale, che si scrive una tappa fondamentale della nostra storia: la sentenza n. 61 del 2006 8. In questa sentenza la Corte affermò che “l’attuale sistema di attribuzione del cognome è retaggio di una concezione patriarcale della famiglia, la quale affonda le proprie radici nel diritto di famiglia romanistico, e di una tramontata potestà maritale, non più coerente con i principi dell’ordinamento e con il valore costituzionale dell’uguaglianza tra uomo e donna”. Sussiste quindi una discriminazione, riconosce la Corte, una discriminazione incompatibile con le norme costituzionali, nonché con le norme sovranazionali che impongono di assicurare gli stessi diritti a uomini e donne, a mariti e mogli.
A tal proposito, merita di essere ricordato che già nel 1985 l’Italia ratificò la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna (CEDAW), adottata a New York nel 1979 9, che impegna gli Stati ad adottare tutte le misure adeguate per eliminare la discriminazione nei confronti della donna in tutte le questioni derivanti dal matrimonio e nei rapporti familiari e, in particolare, ad assicurare “gli stessi diritti personali al marito e alla moglie, compresa la scelta del cognome”. Già basterebbero queste due righe quindi. Ma in aggiunta ci sono anche le raccomandazioni del Consiglio d’Europa 10, nonché le sentenze della Corte europea dei diritti umani che più volte ha dichiarato l’illegittimità di ogni discriminazione di legge e di fatto nella scelta del cognome dei figli 11.
Sussiste quindi una discriminazione, dicevamo, secondo la nostra Corte Costituzionale nel 2006 (cioè già quindici anni fa), “tuttavia l’intervento che si invoca con la ordinanza di rimessione richiede una operazione manipolativa esorbitante dai poteri della Corte”: un’eventuale pronuncia di incostituzionalità, cioè, lascerebbe aperta una serie di opzioni relative all’attribuzione o alla scelta del cognome, che rendono necessario un intervento del legislatore per una regolamentazione organica della materia. Per queste ragioni la Corte dichiarò ancora una volta inammissibile la questione di legittimità costituzionale.
Nulla di fatto quindi. O meglio: la discriminazione c’è ma ce la dobbiamo tenere fin quando il legislatore non deciderà di fare del suo meglio per porvi fine. Ed è sulla base di questa pronuncia di inammissibilità che la Corte di Cassazione respinse il ricorso dei due genitori.
“Abbiamo sperato a lungo che qualche giudice si decidesse a darci ragione” – ricorda Alessandra Cusan -, “perché noi avevamo ragione, ma non è successo” 12.

Una mezza vittoria, anzi una sconfitta attenuata
Cusan e Fazzo, però, ancora forti della sicurezza dei loro diritti, non si arrendono neanche stavolta.
Nel 2011 presentarono istanza al Ministro dell’Interno per essere autorizzati a completare il cognome delle loro figlie e del loro figlio aggiungendo il cognome Cusan. “Tengo a precisare” – spiega Alessandra Cusan – “che la logica è completamente differente: non si tratta di esercitare un diritto come genitori, ma si chiede una cortesia amministrativa, che si deve motivare” 13. Con la loro richiesta, spiegarono, desideravano permettere alle proprie discendenti di identificarsi nel patrimonio morale del nonno materno che, a loro dire, era stato un filantropo.
Con decreto del 14 dicembre 2012 il Prefetto di Milano autorizzò il cambio del cognome in “Fazzo Cusan”. 13 anni dopo la nascita della loro prima figlia Maddalena.
Poteva finire così. Con una sconfitta mitigata da un premio di consolazione. Perché, come ha evidenziato Alessandra Cusan, una sentenza riconosce, afferma e impone il rispetto di un diritto soggettivo; un provvedimento amministrativo – quale è quello del Prefetto – presuppone invece una discrezionalità dell’amministrazione nel concedere quanto richiesto. A proposito dell’importanza delle parole: riconoscere e concedere sono due vocaboli molto diversi, con un peso sociale e giuridico molto diverso.

Cusan e Fazzo. Atto secondo.
Ebbene i nostri genitori coraggiosi non si fermano neanche stavolta, neanche dopo aver ottenuto un premio di consolazione. Posto che – ricordiamolo – la loro prima richiesta (nel 1999) era di attribuire alla figlia il solo cognome materno. Attraversarono i confini e arrivarono a Strasburgo, promuovendo la prima causa di questo tipo in relazione all’Italia, e ottennero dalla Corte europea dei diritti umani una sentenza che condannò lo Stato di cui sono cittadini e che ha negato loro un diritto 14. Davanti alla Corte europea, i ricorrenti affermarono che il solo scopo della norma contestata sia la protezione di una tradizione, nella quale il padre ha una posizione privilegiata, come peraltro già riconosciuto dalla stessa Corte costituzionale italiana.
La Corte europea evidenziò che il cognome è un “mezzo determinante di identificazione personale e di ricongiungimento ad una famiglia”, e – dopo aver rilevato che la legislazione italiana non prevede alcuna eccezione alla regola del cognome paterno – affermò che nel caso in esame padre e madre “siano stati trattati in maniera diversa. Infatti, a differenza del padre, la madre non ha potuto ottenere l’attribuzione del suo cognome alla neonata, e ciò nonostante il consenso del coniuge”. La Corte rammenta di aver trattato questioni simili in altre cause (relative ad altri Paesi) e di aver “ritenuto che la tradizione di manifestare l’unità della famiglia attraverso l’attribuzione a tutti i suoi membri del cognome del marito non potesse giustificare una discriminazione nei confronti delle donne”. Per tali motivi la Corte conclude che vi è stata violazione, da parte dell’Italia, dell’articolo 14 della Convenzione [Divieto di discriminazione] in combinato disposto con l’articolo 8 [Diritto al rispetto della vita privata e familiare], “a causa dell’impossibilità per i ricorrenti, al momento della nascita della figlia, di far iscrivere quest’ultima nei registri dello stato civile attribuendole il cognome della madre. Tale impossibilità derivava da una lacuna del sistema giuridico italiano, secondo il quale il ‘figlio legittimo’ è iscritto nei registri dello stato civile con il cognome del padre, senza possibilità di deroga”.
Condanna, quindi, e senza attenuanti.
“Abbiamo vinto, ed è stata una bella soddisfazione ma non una sorpresa, perché sapevamo benissimo di aver ragione fin dall’inizio. La maggior soddisfazione è di aver contribuito al progresso del nostro Paese. […] Con la nostra ostinazione avremo aiutato il progresso dei diritti civili in Italia, e lasciato una società più giusta alla prossima generazione” 15.
Da leggere sono anche gli ultimi punti dell’argomentazione della Corte europea, laddove rammenta che “ai sensi dell’articolo 46, le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive rese dalla Corte sulle controversie nelle quali sono parti. […] Ne consegue in particolare che, quando la Corte conclude per l’esistenza di una violazione, lo Stato convenuto ha l’obbligo giuridico di scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se del caso, individuali, da integrare nel proprio ordinamento giuridico interno al fine di porre un termine alla violazione contestata e di eliminarne, per quanto possibile, le conseguenze.” È per questo che “la Corte ritiene che dovrebbero essere adottate riforme nella legislazione e/o nella prassi italiane al fine di rendere tale legislazione e tale prassi compatibili con le conclusioni alle quali è giunta nella presente sentenza, e di garantire che siano rispettate le esigenze degli articoli 8 e 14 della Convenzione”.
Stavolta, quindi, la discriminazione non solo esiste, è accertata, ma si impongono le necessarie riforme per provi fine. E il merito di questa storica pronuncia, di questa storica pagina nel libro dei nostri diritti, si deve ad una coppia di genitori coraggiosi che non si sono arresi di fronte al no di un impiegato comunale, incapace di guardare più in là delle caselle del modulo ministeriale che ogni giorno ha sotto al naso.
Le figlie di Alessandra Cusan e Luigi Fazzo sono nate nel 1999 e nel 2001, il loro figlio nel 2003. La sentenza della Corte europea è del 2014. Essa impose un cambiamento, quindi. Ed è sulla sua spinta che la XVII legislatura discusse una serie di proposte di legge sul doppio cognome, che tuttavia morirono senza vedere la luce. Nessun cambiamento avvenne né nella legge né nella prassi 16.
Eppure gli Stati membri della Convenzione sono obbligati a conformarsi alle sentenze!

La discriminazione esiste, ora come allora
Nel 2013 una nuova questione di costituzionalità venne sollevata dalla Corte d’appello di Genova, in seguito al ricorso di due genitori che avevano richiesto all’ufficiale di stato civile di poter registrare il proprio figlio con i cognomi di entrambi: la richiesta aveva una motivazione peculiare, che integrava il semplice diritto al doppio cognome in quanto figlio di due genitori, perché questo bimbo aveva la doppia cittadinanza, brasiliana e italiana, e il non poter essere registrato in Italia con il doppio cognome determinava un’evidente difformità nella sua identificazione nei due Paesi. Stavolta i due genitori coraggiosi si chiamano Manuela Magalhães e Marcello Galli, assistiti dall’avvocata genovese Susanna Schivo, e supportati dal loro figlio, che “sapeva tutto. Anzi era fiero di quello che stavamo facendo per il suo nome. Anche lui era emozionato ieri quando siamo partiti per Roma. Mi ha detto che aveva raccontato a tutti i suoi compagni di scuola che la mamma andava a Roma per difendere i diritti delle donne”! 17
Ebbene, dieci anni dopo la pronuncia con cui aveva dichiarato che sì, una discriminazione sussiste ma bisogna alzare le mani fino all’intervento del legislatore, stavolta la Corte Costituzionale decise che non si poteva più procrastinare una pronuncia di illegittimità. Con la sentenza n.286 del 2016 18, la Corte innanzitutto constatò che a distanza di molti anni dalle precedenti pronunce un “criterio più rispettoso dell’autonomia dei coniugi non è ancora stato introdotto”, neanche in occasione del Decreto legislativo 154/2013 che ha definitivamente riconosciuto l’unicità dello status di figlio, eliminando ogni differenza tra legittimo, naturale e adottato, e che ben poteva costituire l’occasione per una riforma organica anche dell’attribuzione del cognome 19.

“Nella famiglia fondata sul matrimonio rimane così tuttora preclusa la possibilità per la madre di attribuire al figlio, sin dalla nascita, il proprio cognome, nonché la possibilità per il figlio di essere identificato, sin dalla nascita, anche con il cognome della madre. La Corte ritiene che siffatta preclusione pregiudichi il diritto all’identità personale del minore e, al contempo, costituisce un’irragionevole disparità di trattamento tra i coniugi, che non trova alcuna giustificazione nella finalità di salvaguardia dell’unità familiare.” Perché – è il caso di ricordarlo – l’articolo 29 della Costituzione prevede che “il matrimonio è ordinato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi, con i limiti stabiliti dalla legge a garanzia dell’unità familiare”. Ed è proprio in quei “limiti” che hanno trovato – e ancora trovano! – collocazione tante discriminazioni nei confronti delle donne. E dei figli, perché, attenzione, qui la Corte non parla solo del diritto delle madri di trasmettere il proprio cognome, ma anche – e soprattutto – del diritto dei figli e delle figlie alla propria identità personale e sociale (tutelata dall’art. 2 della Costituzione), che viene testimoniata anche attraverso la continuità della propria storia familiare, anche nella linea materna. La Corte osservò che “è proprio l’eguaglianza che garantisce quella unità e, viceversa, è la diseguaglianza a metterla in pericolo, poiché l’unità si rafforza nella misura in cui i reciproci rapporti fra i coniugi sono governati dalla solidarietà e dalla parità. La perdurante violazione del principio di uguaglianza ‘morale e giuridica’ dei coniugi realizzata attraverso la mortificazione del diritto della madre che il figlio acquisti anche il suo cognome, contraddice, ora come allora, quella finalità di garanzia dell’unità familiare, individuata quale ratio giustificatrice, in generale, di eventuali deroghe alla parità dei coniugi, ed in particolare, della norma sulla prevalenza del cognome paterno. Tale diversità di trattamento dei coniugi nell’attribuzione del cognome ai figli, in quanto espressione di una superata concezione patriarcale della famiglia e dei rapporti fra coniugi, non è compatibile né con il principio di uguaglianza, né con il principio della loro pari dignità morale e giuridica”.
Parole fortissime, quelle che la Corte costituzionale decise di usare per dichiarare una discriminazione così grave e perdurante che non è più possibile tollerare. Che un Paese democratico che proclama l’uguaglianza come suo principio fondamentale non può più tollerare.

“Ora come allora”. Quanto sono potenti queste parole? Scegliere di dire che una discriminazione esiste oggi così come esisteva allora vuol dire che non c’è stato un cambiamento concreto nella realtà sociale e/o giuridica che ha determinato la non più attualità di una norma di legge, bensì significa che quella norma di legge è sempre stata sbagliata, è sempre stata ingiusta, è sempre stata discriminatoria per metà della popolazione italiana, e che nonostante questo ci sono voluti settant’anni per decidere di vederla. Perché le cose non esistono fin quando non indossiamo le lenti giuste per vederle, quelle “lenti di genere” di cui parla la giudice Paola Di Nicola Travaglini, che da adulta ha deciso di ricorrere alla Prefettura per aggiungere al proprio cognome paterno anche quello di sua madre, perché “sono figlia di mio padre e di mia madre, sono nata dall’amore di due persone che rappresentano, in egual misura, la mia identità” 20. Per risolvere un problema è necessario prima capire che ce n’è uno, dopodiché è necessario decidere che non dovrà più esserci.

È interessante notare che la Corte ha cambiato la propria decisione a distanza di dieci anni, motivando la pronuncia proprio sulla base della sentenza della Corte europea promossa da quegli stessi genitori a cui essa aveva nel 2006 risposto no! Un cerchio davvero curioso, se ci si pensa. Anche in questo caso le vie della giustizia sono infinite.
La Corte costituzionale, nel 2016, dichiarò quindi “l’illegittimità costituzionale della norma desumibile dagli artt. 237, 262 e 299 del codice civile; 72, primo comma, del regio decreto 9 luglio 1939, n. 1238 (Ordinamento dello stato civile); e 33 e 34 del d.P.R. 3 novembre 2000, n. 396 (Regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile, a norma dell’articolo 2, comma 12, della L. 15 maggio 1997, n. 127), nella parte in cui non consente ai coniugi, di comune accordo, di trasmettere ai figli, al momento della nascita, anche il cognome materno”. Dichiarò altresì, in via consequenziale 21, l’illegittimità costituzionale dell’art. 262 primo comma c.c., nella parte in cui non consente ai genitori non coniugati, di comune accordo, di trasmettere al figlio, al momento della nascita, anche il cognome materno; dichiarò, in via consequenziale, l’illegittimità costituzionale dell’art. 299 terzo comma c.c., nella parte in cui non consente ai coniugi, in caso di adozione compiuta da entrambi, di attribuire di comune accordo anche il cognome materno al momento dell’adozione.
“Appena ho aperto la porta” – racconta Manuela Magalhães – “ho abbracciato mio figlio di quattro anni, gli ho detto che ero felice, perché questa sentenza cambierà la nostra vita e quella di tante altre famiglie. E lui, prestissimo, avrà accanto al cognome del papà anche quello della mamma. […] Siamo partiti da un desiderio personale […] ma poi, nel tenere duro durante i vari processi, quello che ci ha portato avanti è stata la decisione di conquistare un diritto civile, utile a tutti i genitori, e in particolare alle madri. […] Non abbiamo mai perso l’ottimismo. La società è pronta al cambiamento, lo dimostra questa sentenza, è la Politica che è lontana dalle persone.” 22
Già, la politica (io scelgo la “p” minuscola) è lontana dalle persone.

La Corte costituzionale, all’esito della pronuncia d’illegittimità, rilevò che “in assenza dell’accordo dei genitori, residua la generale previsione dell’attribuzione del cognome paterno, in attesa di un indifferibile intervento legislativo, destinato a disciplinare organicamente la materia, secondo criteri finalmente consoni al principio di parità”. Anche in questo caso vale la pena osservare le parole scelte dalla Corte: “indifferibile” e “finalmente”. Proprio perché quella discriminazione sancita dalla legge e dalle sentenze precedenti in nome del popolo italiano è sbagliata ora come era sbagliata allora.
Il diritto di cambiare idea
Perché la Corte costituzionale, a distanza di dieci anni, ha ribaltato la propria decisione? Non solo per l’intervento della sentenza europea Cusan e Fazzo contro Italia, ma anche perché se il legislatore (soggetto politico eletto) può decidere politicamente di fare orecchie da mercante ai diritti che avanzano – o, meglio, che chiedono di avanzare -, un giudice non può farlo. Il motivo stesso per cui la magistratura esiste è quello di dare giustizia ai suoi cittadini e alle sue cittadine. È vero, la Giustizia (con la g maiuscola) non esiste, o almeno non abita nelle aule dei tribunali, però ogni tanto si intravede. Niente più di quello, si può solo intravedere. Ed è per quei luminosi momenti che vale ancora la pena combattere.
Non è d’altra parte la prima volta che la Corte ribalta una sua precedente decisione – e non sarà certo neanche l’ultima -, e l’esempio che qui vale la pena citare è quello dell’overruling sull’adulterio. Gli articoli 559 e 560 del codice penale italiano punivano l’adulterio della moglie, mentre ritenevano penalmente rilevante per il marito solo l’ipotesi del concubinato 23. Ebbene nel 1961 La Corte affermò che la maggiore gravità dell’adulterio femminile proveniva dalla “comune opinione” e quindi ritenne legittima la norma sull’adulterio, argomentando che “l’ordinamento giuridico positivo non può del tutto prescindere, e di fatto non prescinde, dalle valutazioni che si affermano, spesso imperiosamente, nella vita sociale. Ora, che la moglie conceda i suoi amplessi ad un estraneo è apparso al legislatore, in base, come si è detto, alla prevalente opinione, offesa più grave che non quella derivante dalla isolata infedeltà del marito. Al di fuori di ogni apprezzamento, che non spetta alla Corte di compiere, trattasi della constatazione di un fatto della vita sociale, di un dato della esperienza comune, cui il legislatore ha ritenuto di non poter derogare. Da solo esso è idoneo a costituire quella diversità di situazione che esclude ogni carattere arbitrario e illegittimo nella diversità di trattamento” 24.

Nel 1968, chiamata a decidere sulla stessa questione, scrisse invece: “Il principio che il marito possa violare impunemente l’obbligo della fedeltà coniugale, mentre la moglie debba essere punita – più o meno severamente – rimonta ai tempi remoti nei quali la donna, considerata perfino giuridicamente incapace e privata di molti diritti, si trovava in stato di soggezione alla potestà maritale. Da allora molto è mutato nella vita sociale. […] Ritiene la Corte, alla stregua dell’attuale realtà sociale, che la discriminazione, lungi dall’essere utile, è di grave nocumento alla concordia ed alla unità della famiglia. La legge, non attribuendo rilevanza all’adulterio del marito e punendo invece quello della moglie, pone in stato di inferiorità quest’ultima, la quale viene lesa nella sua dignità, è costretta a sopportare l’infedeltà e l’ingiuria, e non ha alcuna tutela in sede penale. La Corte ritiene pertanto che la discriminazione sancita dal primo comma dell’art. 559 del Codice penale non garantisca l’unità familiare, ma sia più che altro un privilegio assicurato al marito; e, come tutti i privilegi, violi il principio di parità” 25; per questi motivi dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 559 c.p.

Una norma così potente da essere sottintesa
Ma a questo punto della nostra storia è il momento di tornare all’inizio, per spiegare qual è la norma di legge dichiarata incostituzionale che fino al 2016 obbligava l’apposizione del solo cognome paterno ai figli. Ebbene, lo accennavamo all’inizio, nessuna legge prevedeva esplicitamente questo per le coppie coniugate. C’erano una serie di norme che la presupponevano: l’art. 237 c.c. che prevede come prova del possesso di stato l’aver sempre portato il cognome paterno; l’art. 262 c.c., dove si stabilisce che qualora il riconoscimento del figlio (nato da genitori non coniugati) sia effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, il figlio assume il cognome del padre; quando la filiazione nei confronti del padre sia stata accertata o riconosciuta successivamente il figlio può assumere il cognome del padre aggiungendolo o sostituendolo a quello della madre che l’ha riconosciuto per prima 26; similmente l’art. 299 c.c. prevede che se l’adozione è compiuta da coniugi il figlio assume il cognome del marito; l’art. 33 D.P.R. 396/00 che prevede che il figlio legittimato abbia il cognome del padre; l’art. 72 R.D. 1238/39 e l’art. 34 D.P.R. 396/00 che vietano di imporre al bambino lo stesso nome del padre vivente, all’evidente scopo di evitare omonimie. Tutto ciò si basa sulla tradizione giuridica centrata sul pater familias, unico titolare di diritti suoi e dei componenti della sua familia.

La Corte affermò, quindi, che la norma esiste ed è desumile dalla lettura delle disposizioni che implicitamente la presuppongono, e la sua legittimazione deriva proprio dall’essere presupposta da altre norme del codice civile e delle leggi speciali. La ratio della permanenza di questa norma implicita nel nostro ordinamento, secondo la Corte, è da ricondurre alla sua forza imperativa per la collettività, che di fatto l’ha sempre considerata vigente. Qualcuno, tuttavia, si domanda “perché, se tale principio è ritenuto vincolante e prescrittivo, il Legislatore non abbia mai tentato di inserirlo nel codice civile in modo espresso” 27.

È proprio Alessandra Cusan a raccontare che la notizia della richiesta sua e del marito di attribuire alle figlie il solo cognome materno “suscitava poco interesse e poca partecipazione tra quanti ne venivano a conoscenza. Non era considerata una legittima aspirazione, quanto piuttosto una stranezza, un modo per fare gli originali – e ovviamente una prevaricazione nei confronti di mio marito da parte mia. Che lui lo facesse per convinzione, o addirittura per garantire il rispetto dei diritti di sua figlia, non era contemplato. La reazione standard era scandita dallo stupore prima (“perché ci tieni tanto?”) e dalla riprovazione poi (“perché fai questo a tuo marito, poverino?”). Difficile decidere cosa fosse più offensivo” 28. Questa è bella! Sarebbe una prevaricazione chiedere di apporre il proprio cognome ai figli e alle figlie… E allora gli uomini non hanno prevaricato le donne per millenni?! No, la loro è una tradizione. È qui che si capisce come consuetudini così longeve siano percepite come doverose e automatiche in modo così forte da impedire di vedere la loro palese iniquità.

Allora è vero che è più facile spezzare un atomo che un pregiudizio! Perché è legittimo domandarsi come sia possibile che in uno Stato democratico, in cui è la legge a definire cosa si può e non si può fare, ci si debba scontrare con un divieto implicito, mai dichiarato eppure così granitico da non ammettere eccezioni.
Guardando più in là del nostro naso
Bisogna avvertire, a questo punto, che nella maggior parte degli altri ordinamenti europei non si rinviene più la regola dell’attribuzione del solo cognome paterno; le norme italiane rappresentano ormai un’eccezione isolata. Facendo una rapida panoramica 29, in Spagna vige la regola del doppio cognome, derivato dal primo cognome di ciascun genitore, nell’ordine da loro deciso 30; in Portogallo i genitori possono in accordo apporre i cognomi del padre e della madre o solo di uno di loro, fino ad un massimo di quattro cognomi 31; in Francia e Belgio i genitori scelgono d’accordo il cognome da attribuire al figlio – quello del padre, della madre, o entrambi nell’ordine preferito -, e in caso di disaccordo vengono apposti entrambi in ordine alfabetico 32; simile è la legge del Lussemburgo che prevede però, in caso di disaccordo, il sorteggio; anche in Irlanda e Polonia al figlio si appone il cognome del padre, o della madre, o entrambi; nei Paesi Bassi si appone in accordo uno dei due cognomi; in Germania, Svizzera, Grecia, Ungheria, Romania, Croazia viene assegnato ai figli il cognome familiare scelto dai genitori, e in mancanza possono assegnare liberamente uno dei loro due cognomi (in Grecia, Ungheria e Romania anche entrambi); particolare è il caso dei nordici Danimarca, Norvegia, Svezia e Finlandia, ove pure si prevede l’apposizione del cognome familiare scelto, in mancanza l’apposizione del cognome di uno dei genitori, e in mancanza di scelta al figlio viene apposto d’ufficio il cognome della madre; anche in Austria, in mancanza dell’indicazione del cognome familiare viene apposto il cognome materno, ma è anche possibile apporre il doppio cognome; nel Regno Unito i genitori possono attribuire liberamente il cognome paterno, o materno, o entrambi o anche un cognome diverso dai propri, così come avviene nella maggioranza degli USA, in Canada, in Australia e Nuova Zelanda.

Il marchio di un’oppressione: signora o signorina?
Dopo esserci guardati intorno, torniamo alla nostra norma mai dichiarata eppure pervicacemente efficace in quanto data per scontata. E notiamo che per una norma che è data per scontata, ne esistono altre esplicite.
L’articolo 143bis del codice civile italiano prevede ancora che “La moglie aggiunge al proprio cognome quello del marito e lo conserva durante lo stato vedovile, fino a che passi a nuove nozze”. È questo il motivo per cui di tanto in tanto sulle schede elettorali, o in altri documenti, le donne si ritrovano posposto il cognome del marito. Volendo interrogarsi sulla funzione sociale di tale norma, essa “potrebbe essere solo quella (ripugnate e non meritevole) di rendere noto che la donna in questione è sposata e, quindi, fuori mercato, non disponibile, evidentemente non avvertendosi una simile esigenza di notorietà anche rispetto ai mariti”. Quindi la norma in questione “sembra svolgere soltanto una funzione simbolica d’oppressione, nel doppio senso di essere un’oppressione simbolica (ma certo non per questo meno reale o efficace) e di essere il simbolo di un’oppressione” 33.
Quando faccio notare l’esistenza di questa norma nel nostro codice durante le presentazioni dei miei libri, c’è sempre almeno una donna che interviene dicendo che lei non lo usa. Non è questione di usarlo! È questione che la legge lo prevede, prevede che di due coniugi – che in base all’art. 143 c.c. con il matrimonio acquistano gli stessi diritti e assumono i medesimi doveri – solo una di essi “aggiunge” il cognome dell’altro al proprio (N.B. tempo verbale indicativo presente; non c’è scritto “può aggiungere”), portando così iscritta nel nome la propria subalternità. E la conserva fino a quando non passi nella subalternità di qualcun altro. Un marchio, non è altro questa disposizione, un marchio che dice “appartengo a”, come se la vita di una donna si riducesse al solo ruolo di moglie. Non ha alcuna importanza che soggettivamente una donna non sia solita presentarsi col cognome del marito, o che la prassi amministrativa non lo faccia comparire su tutti i documenti: quel cognome, quel marchio, per la legge, c’è! E l’importanza sociale di quel marchio emerge ogni volta che ad una donna viene chiesto se è signora o signorina, perché a nessun uomo viene chiesto se è signore o signorino: solo la rispettabilità sociale delle donne si misura con l’appartenenza a un uomo! E questo, nel 2000 e qualcosa, è semplicemente inaccettabile, prima di essere assurdo.
E poi ci si continua a stupire che gli uomini cresciuti nella consapevolezza che è solo la moglie ad appartenere al marito e non viceversa, uccidano la loro (loro!) donna nel momento in cui ella rivendica la propria libertà? Davvero non si è capito di cosa si sta parlando. O, più probabilmente, si fa finta di non averlo ancora capito 34.
Sembra il caso di citare qui la figlia di Melania Rea – Vittoria – che nel 2021 ha ottenuto dal tribunale la sostituzione del proprio cognome “Parolisi” con quello materno 35. Vittoria all’epoca del femminicidio di sua madre Melania (nel 2011) aveva solo diciotto mesi; oggi si accinge a vivere l’adolescenza e si presenterà al mondo adulto col cognome di sua madre, quella madre che il suo pater familias decise di annientare.
Un Parlamento sordo e silenzioso

Dunque, ci eravamo fermati al capitolo della nostra storia in cui la Corte costituzionale italiana dichiarò l’illegittimità della secolare discriminazione che ha imposto ai figli e alle figlie il solo cognome paterno, senza possibilità di deroga. Alla fine di quel capitolo la Corte dichiarava anche la necessità di un “indifferibile” intervento legislativo per regolare organicamente la materia. Perché non sta alla Corte costituzionale riformare interamente una materia; essa ha il compito – e il dovere – di fissarne i principi e soprattutto di verificare la loro compatibilità con la Costituzione. L’ha fatto. Lo farà forse anche meglio. Ma riformare complessivamente e organicamente una materia è compito – e dovere – del Parlamento, eletto dal popolo.
Inoltre, va notato, la sentenza della Corte non risolve ogni questione: al momento non è possibile attribuire il doppio cognome in caso di assenza di accordo tra i genitori o il solo cognome materno; nessuna regola impone di attribuire a tutti i figli nati dalla stessa coppia il medesimo cognome; infine la circolare ministeriale – di cui tra poco parleremo – impone di attribuire l’intero cognome di entrambi i genitori, perciò al prossimo cambio generazionale i cognomi in questo modo diventerebbero quattro. Ma più di ogni altra cosa si sottolinea che in mancanza di accordo la donna deve rinunciare al suo diritto: e non è questa una prevaricazione?
C’è stato, quindi, un intervento del legislatore? Ovviamente no. Attenzione, l’ovviamente non è affatto scontato. Perché uno Stato di diritto dovrebbe, come suo primo scopo, tutelare proprio i diritti dei/lle cittadini/e. Ma purtroppo, per chi conosce il legislatore italiano – indipendentemente dalla sua momentanea colorazione politica -, non c’è da stupirsi che ancora una volta resti sordo a diritti prioritari, lasciando che cittadini e cittadine coraggiose arrivino al risultato per altre vie. Un esempio per tutti: il suicidio assistito, che si deve in Italia al coraggio e alla determinazione di Marco Cappato e a chi con lui ha percorso l’iter giudiziario che l’ha portato fino alla Corte Costituzionale. Corte che ha inaugurato – proprio in quel caso – una nuova tecnica di decisione: ha emesso un’ordinanza di rinvio a data fissata della trattazione della questione di costituzionalità, per dar tempo al legislatore di intervenire, ed in mancanza ha emesso una sentenza additiva, che riconosce (N.B. sempre riconoscere, mai concedere!) un diritto, e sanziona il silenzio del Parlamento che – nelle sue molteplici funzioni – sarebbe anche chiamato a collaborare con gli altri organi dello Stato 36.

Afferma la senatrice Donatella Conzatti (firmataria di uno dei disegni di legge giacenti al Senato): “Il nostro è un Paese dove storicamente ci sono rapporti di forza diseguali tra uomini e donne, che hanno portato alla dominazione delle donne; basti ricordare lo ius corrigendi, il matrimonio riparatore, il delitto d’onore. Un Paese che solo nel recente 1975 ha abbandonato una concezione di famiglia fondata sulla subordinazione della moglie al marito e fondata sulla discriminazione dei figli nati fuori del matrimonio. Il nostro è ancora un Paese in cui le donne sono discriminate rispetto agli uomini nel lavoro, nel reddito e nelle pensioni, nei percorsi di carriera, nella possibilità di raggiungere i ruoli di potere. Un Paese in cui ancora una donna su tre nel corso della propria vita subisce una qualche forma di violenza e nel 86% dei casi parliamo di violenze domestiche”. L’Italia è quindi un Paese “con grossi ritardi in tema di parità sostanziale tra uomini e donne, i dati confermano che siamo fanalino di coda in Europa. […] L’idea che dai figli sia cancellata l’identità di chi li ha generati è solo la simbologia più evidente e più forte di un modello.” 37
Da un lato, in Parlamento, c’è chi denuncia il patriarcato, dall’altro c’è però chi lo sostiene con convinzione: “Secondo me il cognome paterno non è da considerare come un retaggio patriarcale ma come il regalo più prezioso che un padre possa fare ai figli. La madre dona il corpo, il padre consegna l’appartenenza ad una storia, ad una comunità, ad una famiglia. […] Credo che eliminare per legge il dovere del padre di dare il cognome ai figli non sia affatto una conquista di civiltà ma si trasformi fatalmente in un ulteriore passo verso l’oblio della propria tradizione e in definitiva verso la dissoluzione della famiglia”. Sono parole del senatore Simone Pillon 38, per il quale le donne sono solo un corpo, un’incubatrice, non hanno né una storia, né una comunità, né una famiglia.
Ebbene, dicevamo, il legislatore nulla ha fatto. Durante questa legislatura sono stati presentati 6 disegni di legge al Senato e 4 alla Camera, alcuni dei quali prevedono l’attribuzione ai figli del cognome di entrambi i genitori, altri l’attribuzione concorde di uno dei cognomi a scelta o di entrambi; in caso di disaccordo è sempre prevista l’attribuzione dei cognomi di entrambi in ordine alfabetico, come criterio neutrale. Tutti i disegni di legge prevedono altresì che a tutti i figli della coppia vengano attribuiti i cognomi (o il cognome) prescelto, e che alle successive generazioni ciascun genitore trasmetta un solo cognome a sua scelta.
C’è, a tal riguardo, chi “teme che una impostazione incentrata esclusivamente sulla discrezionalità dei genitori, pur garantendo in apparenza la parità tra le parti, di fatto si traduca in una nuova prevalenza della componente maschile per ragioni ancorate alla tradizione ma anche a delicate dinamiche di tipo sociale ed economico che portano ancora la donna a essere, in molti casi, parte debole nella coppia. In sostanza, ancorando la trasmissione del cognome alla mera volontà concorde dei genitori si otterrebbe senz’altro un riconoscimento formale della parità ma nel concreto si verificherebbe un perpetuarsi del regime esistente, con l’assegnazione del cognome paterno salvo ipotesi residuali in cui si opti per quello della madre o per il doppio cognome” 39. Per tali gravi ragioni è auspicabile l’introduzione della regola generale del doppio cognome, lasciando ai genitori la scelta dell’ordine – prevedendo in mancanza il criterio alfabetico come criterio neutro -, e l’indicazione della modalità di trasmissione alle generazioni successive in un senso non discriminatorio. Tali previsioni tutelerebbero non solo i diritti delle madri ma anche, e soprattutto, il best interest of the child di custodire nel proprio cognome entrambi i rami della sua famiglia, e quindi il suo diritto alla piena identità sociale e familiare. Costituirebbero un traguardo di uguaglianza e civiltà che, a distanza di ben cinque anni dalla sentenza della Corte costituzionale, è davvero indifferibile. Cinque anni devono bastare. Anzi no, non devono bastare, sono già troppi.

Cito ancora Alessandra Cusan per dire che: “Non c’è nessun buon motivo, in una società evoluta, perché i diritti civili delle madri siano diversi da quelli dei padri” 40. Questa riforma, necessaria, dovrà scardinare il patriarcato – quanto non piace sentir pronunciare questa parola oggi! -, e per scardinarlo bisogna capire che è ancora presente profondamente nella nostra quotidianità; dovrà essere una riforma d’impatto culturale, “per non perdere l’appuntamento con la storia” 41. Il tempo è ora.

«Anche» il cognome materno
Però se un diritto esiste ed è stato riconosciuto può e deve essere rivendicato da chi vi ha interesse. E allora, dopo la sentenza di illegittimità costituzionale, qualche coppia di genitori ha iniziato a chiedere di registrare il proprio figlio/la propria figlia con il doppio cognome. Mi piace ricordare che a Fossano (CN) la prima coppia a scegliere il doppio cognome è stata quella formata dal sindaco e sua moglie, che hanno registrato la loro figlia con il doppio cognome nel marzo 2017 42. Questo sì che è un gesto politico!
Nella perdurante assenza del legislatore, il Ministero dell’Interno ha avuto l’esigenza di chiarire ai poveri ufficiali di stato civile cosa fare, perché il problema è sempre che tale possibilità non rientrava nei moduli ministeriali – manca una casella – e quando qualcuno pretende di situarsi fuori dalle caselle il povero impiegato non sa che fare, o meglio può solo aggrapparsi al suo no, perché non l’ha mai fatto, per semplificarsi il lavoro e per paura di sbagliare. Con la circolare n. 7 del 14/06/2017 il Ministero ha informato che, dal giorno successivo al deposito della sentenza, doveva ritenersi ufficialmente rimossa dall’ordinamento la preclusione implicita della possibilità di attribuire al momento della nascita, di comune accordo, anche il cognome materno: “dunque, è ora consentito ai genitori del nuovo nato – tra loro coniugati o meno – di attribuire, di comune accordo, il doppio cognome, paterno e materno, al momento della nascita”. In quell’«anche» però sta un trucco: perché, in mancanza di un intervento legislativo, il Ministero si è arrogato la discrezionalità di indicare operativamente che “considerato che la pronuncia ha riguardo alla trasmissione «anche» del cognome materno, deve ritenersi che le relative novità ordinamentali riguardino unicamente la posposizione di questo al cognome paterno, non l’anteposizione”, con grande sollievo, ovviamente, di buona parte della popolazione maschile, che almeno può rivendicare la propria posizione prioritaria, la quale sembra sancire una gerarchia d’importanza; priorità e importanza che, va ricordato ancora una volta, si scontrano con la biologia – tanto amata e tanto difesa in altri contesti di discussione in Italia -, che vede solo le donne partorire 43. Sarebbe interessante ricevere un’interpretazione autentica da parte della Corte costituzionale su quell’«anche». E chissà che a breve non arrivi.
La Circolare ministeriale, inoltre, indica che l’attribuzione «anche» del cognome materno, “non può non riguardare tutti gli elementi onomastici di cui detto cognome sia composto”. È evidente che l’apposizione di tutti i cognomi alle generazioni successive causerebbe un aumento esponenziale degli stessi, ed è questa una delle ragioni per cui l’intervento del legislatore è (come ha affermato la Corte) indifferibile.
Vale infine la pena notare che la Circolare ministeriale specifica che dopo la chiusura dell’atto di nascita, ogni modifica al cognome rientra nella disciplina autorizzativa di cui al DPR 396/00, tramite cioè istanza al Prefetto: a tal riguardo il Ministero invita le Prefetture, nel valutare tali domande volte ad aggiungere il cognome materno, a “tener conto dei principi generali espressi nella nota sentenza, seppure riferiti ad un diverso ambito” 44.
Particolarmente interessante, in questo senso, è la previsione contenuta in alcuni dei disegni di legge giacenti in Parlamento, che prevedono la possibilità secondo cui il figlio maggiorenne “a cui è stato attribuito il solo cognome paterno sulla base della normativa vigente al momento della nascita, nel momento in cui diventa maggiorenne […] può aggiungere al proprio il cognome materno con dichiarazione resa, personalmente o con comunicazione scritta recante sottoscrizione autenticata, all’ufficiale dello stato civile, che procede all’annotazione nell’atto di nascita”. Similmente alcuni DDL prevedono che il genitore del figlio minorenne nato o adottato prima dell’entrata in vigore della nuova normativa, possa domandare all’ufficiale dello stato civile che al cognome del figlio sia aggiunto quello materno. Sarebbe questa una previsione che semplificherebbe molto la procedura di cambio del cognome, riducendo alla sola sostituzione dei documenti le incombenze cui far fronte; è evidente, infatti, quanto il timore di infilarsi in “beghe burocratiche” possa costituire un deterrente per chi si propone di valutare il cambio di cognome.
Ma non solo. È necessario evidenziare nuovamente che la procedura prefettizia si basa sulla discrezionalità amministrativa (seppur sicuramente molto più “accomodante” dopo la sentenza costituzionale), e non sul riconoscimento di un diritto.
L’esperienza raccontata dalla professoressa Carla Bassu è in questo senso assai esplicativa: quando è nata sua figlia, nel 2015, ha dovuto affrontare la procedura di “cambio cognome” davanti al Prefetto. “Questo mi ha ferita, mi è dispiaciuto profondamente, perché mia figlia è parte della mia identità e io sono parte dell’identità di mia figlia. E quindi è profondamente ingiusto – uso questo termine così grande – il fatto che perché mia figlia abbia il mio cognome, che è anche suo patrimonio, si debba affrontare una procedura del ‘cambio cognome’, come se il cognome naturale, giusto, sia quello paterno. Non si può, non è giusto, ai sensi di tutto quello che io ho studiato sui banchi di giurisprudenza dal primo giorno, quando ho cominciato a leggere la costituzione” 45.

Quanto poco si parla di giustizia nelle aule di giustizia… L’ho detto prima, si intravede solo ogni tanto.
Nomina sunt consequentia rerum
“Ciò che è simbolico agisce sull’inconscio. Come ha sempre fatto, il cognome paterno ‘di diritto’ trasmette ancora oggi alle nuove generazioni un messaggio di ‘prevaricazione maschile legittima’. È il cancro della nostra società, che si propaga in discriminazioni ulteriori in un processo di continue metastasi. Come qualsiasi tipo di cancro va estirpato” 46.
Nonostante oggi si possa posporre il cognome materno alla nascita dei figli, poche coppie se ne avvalgono. Perché? Perché moltissimi/e neanche sono a conoscenza di questa possibilità, primo; servirebbe al riguardo una più capillare informazione da parte delle Istituzioni e dei media. In particolare per quanto riguarda le Istituzioni, in base ad una ricerca da me condotta sui siti internet dei Comuni italiani capoluoghi di Regione, ho verificato che solo 4 su 20 (!) segnalano la possibilità di apporre ai figli il doppio cognome al momento della dichiarazione di nascita 47; quanto ai quattro Comuni in cui ho personalmente vissuto finora, solo uno indica tale possibilità. Inserire questa segnalazione sui siti internet sarebbe importante perché è spesso lì che i genitori si informano su come procedere.
Inoltre, anche laddove l’ufficiale sia ben formato/a ed informi di tale possibilità i genitori, è da notare che, venendone a conoscenza solo in quel momento, non vi è da parte degli stessi la possibilità di meditare a sufficienza su tale decisione e sull’importanza della stessa, finendo così il più delle volte per optare per la scelta più “tradizionale”. Quanto è difficile abbandonare le “tradizioni” in Italia… Alcuni temono che apporre il doppio cognome comporterebbe un appesantimento burocratico per il figlio/la figlia; eppure i nobili non hanno mai considerato un appesantimento burocratico riportare la sfilza dei propri nomi e cognomi, anzi.
Inoltre è prevista la necessità dell’accordo dei coniugi, e nel caso in cui l’accordo manchi nulla da fare, rimane il cognome paterno: da notare, a tale proposito, che la maggior parte delle dichiarazioni di nascita sono fatte dai padri, per evidenti diversi impegni in quel frangente temporale della madre, e quindi non è inverosimile pensare che alcuni si arroghino la facoltà di omettere la volontà della compagna. Posto che nessun padre ha mai dovuto ricevere il consenso della madre dei suoi figli per imporre loro il proprio cognome!

Queste sono solo alcune delle ragioni per le quali negli ultimi cinque anni il doppio cognome non si è diffuso. Ma la prima è l’ignoranza sul tema, ignoranza collettiva; ignoranza che qui si intende sia come ignorare che esiste tale diritto, sia come contrarietà di principio che denota ignoranza sui diritti in generale.
Similmente, per tornare un momento al tema dell’interruzione dei trattamenti sanitari, molti contestatori delle Disposizioni Anticipate di Trattamento fanno notare che anche nei Paesi in cui esse esistono (e, per la cronaca, dal 2018 esistono anche in Italia!) pochissime persone le depositano. Qui – oltre all’ignoranza riguardo a tale possibilità (che credo però sia minore rispetto a quella del doppio cognome, come prova anche il numero dei siti internet dei Comuni in cui tale informazione compare) – la risposta principale è perché gli esseri umani moderni raramente pensano alla propria morte; ma il fatto che la maggioranza preferisce ignorare tale ovvietà non consente di limitare un diritto fondamentale e costituzionale di chi invece vuole tutelare in ogni circostanza, anche la più tragica, la propria persona dalle intromissioni della medicina e dei parenti.

C’è sempre qualcosa di più importante dei diritti delle donne
«Che importanza ha?» «C’è ben altro a cui pensare!» oppongono tanti (e tante, purtroppo) a chi, come chi scrive, sostiene il doppio cognome come diritto delle donne e dei/lle figli/e. Che importanza ha? Nulla è mai importante: la scarsa presenza delle donne nelle posizioni apicali del lavoro, la loro scarsa presenza in politica, la disparità salariale, la corretta declinazione di genere di tutte le professioni, la diseguale divisione dei lavori (lavori!) domestici, le “battute” sessiste, il linguaggio violento sui social, la pubblicità che mercifica il corpo femminile, le molestie sul luogo di lavoro, la colpevolizzazione delle donne che denunciano una violenza, la derubricazione delle violenze maschili a “goliardate”, il doppio cognome e il cognome maritale… Nulla è importante. E invece tutto questo, e molto di più, è importante, perché ciascuno di questi mattoni costituisce le fondamenta della millenaria discriminazione e inferiorizzazione che ancora oggi condanna a morte le donne che coraggiosamente escono dal “proprio posto” e rivendicano i propri diritti.
Quanto è difficile abbandonare le “tradizioni” in Italia… riflettevo poco fa. I cittadini e le cittadine dei paesi di lingua spagnola rimangono assai perplessi/e quando li/e si informa che in Italia la corretta declinazione di genere delle professioni è ancora molto contestata: loro mostrano proprio di non capire come sia possibile, perché nella lingua spagnola è una realtà ormai assodata, che si insegna nella grammatica. Un cittadino francese, alla domanda rivoltagli da un italiano “come viene chiamato in Francia un uomo che decide di dedicarsi ai figli ridimensionando la propria professione?” rispose semplicemente “papà”: un padre si occupa dei suoi figli, senza bisogno di chiamarlo “mammo”.
Cito Laura Boldrini per dire che le donne “non vogliono concessioni, non vogliono prevaricare: vogliono parità” 48.
In Italia sembra sempre più difficile ottenere diritti che sono scontati altrove. Bisognerebbe proprio chiedersi perché. Ma probabilmente la risposta è che fa comodo che sia così. Fa comodo a chi detiene il potere, ovvio.
“Pensiamo a una situazione concreta e ricorrente in qualunque famiglia: tra le tante domande che quotidianamente un bambino o una bambina può rivolgere ai genitori ci sono quelle relative al proprio nome e cognome. Perché mi chiamo così? Perché ho il cognome di mio padre e non di mia madre? Ebbene l’unica risposta sincera che in questo momento possiamo dare («perché tuo padre è maschio») semplicemente non è ammissibile né giustificabile alla luce dei principi del nostro ordinamento. È un’affermazione incompatibile con il nostro sistema costituzionale” 49.

Domani
L’ultimissimo capitolo di questa storia risale all’inizio del 2021, quando la Corte costituzionale 50, vista l’ordinanza di rimessione del Tribunale di Bolzano, ha sollevato avanti a sé stessa la questione di costituzionalità riguardante l’art. 262 del codice civile. “L’accordo dei genitori sul cognome da dare al figlio può rimediare alla disparità fra di loro se, in mancanza di accordo, prevale comunque quello del padre?” si chiede la Corte nel comunicato stampa dell’11 febbraio. Con questo dubbio, ha sollevato dinanzi a sé la questione di legittimità dell’articolo 262 primo comma del codice civile, che detta la disciplina sui figli nati da genitori non coniugati. “L’ordinanza n. 18 depositata oggi (relatore il vicepresidente Giuliano Amato) spiega perché la risposta a questo dubbio sia pregiudiziale rispetto a quanto chiedeva il Tribunale di Bolzano, e cioè di dichiarare incostituzionale la norma là dove non prevede, in caso di accordo tra i genitori, la possibilità di trasmettere al figlio il cognome materno invece di quello paterno”. Nell’ordinanza la Corte afferma che “in questo quadro, neppure il consenso, su cui fa leva la limitata possibilità di deroga alla generale disciplina del patronimico, potrebbe ritenersi espressione di un’effettiva parità tra le parti, posto che una di esse non ha bisogno dell’accordo per far prevalere il proprio cognome. […] Pertanto, nella perdurante vigenza del sistema che fa prevalere il cognome paterno, lo stesso meccanismo consensuale – che il rimettente vorrebbe estendere all’opzione del solo cognome materno – non porrebbe rimedio allo squilibrio e alla disparità tra i genitori”.
Per tali ragioni – e “ancorché siano legittimamente prospettabili soluzioni normative differenziate” -, la Corte ha ritenuto necessario sollevare avanti a sé la questione di legittimità costituzionale dell’articolo 262 del codice civile, “nella parte in cui, in mancanza di diverso accordo dei genitori, impone l’acquisizione alla nascita del cognome paterno, anziché dei cognomi di entrambi i genitori, in riferimento agli artt. 2, 3 e 117 della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 8 e 14 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”.
Una decisione forte, quindi, quella della Corte costituzionale, che non risparmia rimproveri al legislatore per il suo silenzio su questi diritti fondamentali, per i quali “l’esigenza di garantire la legalità costituzionale deve, comunque sia, prevalere su quella di lasciare spazio alla discrezionalità del legislatore per la compiuta regolazione della materia” 51.
L’udienza avanti alla Corte è fissata per l’aprile 2022. La sua nuova pronuncia farà fare alle donne e ai diritti dei loro figli e figlie un passo avanti? Un passo avanti, in una società che ha sempre chiesto alle donne un passo indietro?
Ce lo racconteremo nella prossima puntata. Perché la storia dei diritti non ha mai fine. L’uguaglianza tra uomini e donne è un percorso in itinere, ancora lontano dalla sua conclusione. È un cammino, accidentato, faticoso, irto di ostacoli, e che eppure spinge ad ogni caduta qualche coraggiosa/o a continuare a camminare.

1 Sentenza Tribunale di Palermo, Prima sezione civile, n. 865/82 del 19/02/1982.
2 Similmente aveva scritto il giurista Adriano de Cupis: “regola secolare, accolta universalmente in tutti gli Stati e talmente penetrata nel costume, da non potersi dubitare del suo vigore giuridico”. A. De Cupis, voce Nome e cognome, in Noviss. Dig. It. vol. XI, Torino, 1964, p. 303 ss.
3 N. 176 e n. 586.
4 Negli anni successivi intrapresero il ricorso anche per la loro seconda figlia e per il loro terzo figlio.
5 Tribunale di Milano, sentenza del 6/06/2001.
6 Corte d’appello di Milano, sentenza del 24/05/2002, che conferma la sentenza di primo grado.
7 Ordinanza n.13298 del 17/07/2004.
8 Corte Costituzionale, sentenza n. 61 del 06 /02/2006.
9 Legge n. 132 del 14 marzo 1985 (Pubblicata nella G.U. del 15 aprile 1985 n. 89 suppl.), Ratifica ed esecuzione della convenzione sull'eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna, adottata a New York il 18 dicembre 1979.
10 Raccomandazioni del Consiglio d'Europa n. 1271 del 1995 e n. 1362 del 1998.
11 Sentenze 16 febbraio 2005, affaire Unal Teseli c. Turquie; 24 ottobre 1994, affaire Stjerna c. Finlande; 24 gennaio 1994, affaire Burghartz c. Suisse.
12 A. Cusan, Peripezie di un buon diritto. Breve e veritiero racconto di una protagonista in 12 capitoli, in AA.VV., Il diritto al cognome materno. Profili di diritto civile italiano, di diritto internazionale, dell’Unione europea, comparato ed internazionale privato, a cura di A. Fabbricotti, Jovene, Napoli, 2017, p. 207.
13 Ibidem, p. 209.
14 Sentenza CEDU del 7/01/2014, Ricorso n. 77/07 Cusan e Fazzo c. Italia.
15 A. Cusan, Peripezie di un buon diritto, cit. p.210-211.
16 In particolare, la Camera dei deputati approvò il 24/09/2014 il disegno di legge n.1628 che prevedeva: “I genitori coniugati, all’atto della dichiarazione di nascita del figlio, possono attribuirgli, secondo la loro volontà, il cognome del padre o quello della madre ovvero quelli di entrambi nell’ordine concordato. In caso di mancato accordo tra i genitori, al figlio sono attribuiti i cognomi di entrambi i genitori in ordine alfabetico”. Nell’ottobre 2014 tale disegno di legge venne trasmesso al Senato, che non l’approvò mai facendolo così decadere al cambio di legislatura.
17 M.N. De Luca, La felicità di Manuela Magalhaes: “L’ho fatto per il mio bimbo ma è una vittoria di tutti”, in la Repubblica, 9/11/2016.
18 Corte Costituzionale, sentenza n. 286 del 8/11/2016 depositata il 21/12/2016.
19 D.lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, Revisione delle disposizioni vigenti in materia di filiazione, a norma dell'articolo 2 della legge 10 dicembre 2012, n. 219. (GU Serie Generale n.5 del 08-01-2014)
20 P. Di Nicola, La mia parola contro la sua, HarperCollins, Milano, 2018, p. 72.
21 Ai sensi dell’art. 27 della Legge 11 marzo 1953, n. 87, Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale (GU n.62 del 14-03-1953).
22 M.N. De Luca, La felicità di Manuela Magalhaes: “L’ho fatto per il mio bimbo ma è una vittoria di tutti”, in la Repubblica, 9/11/2016. Con piacere segnalo che la professoressa Manuela Magalhães e l’avvocata Susanna Schivo hanno pubblicato nel 2021 il libro La pioggia dei cognomi [Ed. Egnatia]. Il libro nasce dal loro desiderio di avvicinare le persone alla decisione della Corte, dal desiderio di segnalare l’importanza di fare una scelta responsabile nell’identificazione delle future generazioni e di avere uno sguardo curioso per le novità, dal desiderio di fornire uno strumento divertente di lavoro e di gioco a coloro che si adoperano per la formazione di uomini e donne libere da stereotipi di genere.
23 Il Codice penale Rocco puniva la moglie adultera con la reclusione fino a un anno, aumentata fino a due nel caso di relazione adulterina; puniva invece il marito che teneva una concubina nella casa coniugale, o notoriamente altrove, con la reclusione fino a due anni.
24 Corte costituzionale, sentenza n. 64 del 28/11/1961.
25 Corte costituzionale, sentenza n. 126 del 16/12/1968.
26 Nella formulazione precedente alla riforma del diritto di famiglia del 1975 (L. 151/1975) il riconoscimento da parte del padre comportava automaticamente l’acquisto del suo cognome da parte del figlio.
27 C. Ingenito, L’epilogo dell’automatica attribuzione del cognome paterno al figlio (Nota a Corte costituzionale n. 286/2016), in Osservatorio costituzionale, Fasc. 2/2017.
28 A. Cusan, Peripezie di un buon diritto, cit., p. 205-206.
29 Rimandando per approfondire, tra gli altri, a C. Bassu, Nel nome della madre. Il diritto alla trasmissione del cognome materno come espressione del principio di uguaglianza. Un’analisi comparata, in Diritto pubblico, comparato ed europeo, 3/16, pp. 545/587; C. Bassu, Il diritto alla identità anagrafica, Editoriale scientifica, Napoli, 2021.
30 In caso di disaccordo, viene assegnato ai genitori dall'ufficiale di stato civile un termine di tre giorni entro cui comunicare l'ordine dei cognomi scelto per il figlio, e trascorso detto termine senza alcuna comunicazione dei genitori sarà lo stesso ufficiale di stato civile a decidere l'ordine dei cognomi da attribuire al bambino, tenendo in considerazione il superiore interesse del minore. Una volta maggiorenne il figlio può invertire l’ordine dei cognomi; ovviamente tale scelta ha un significato precipuo, perché sarà solo il primo dei due cognomi ad essere trasmesso ai suoi figli. Va evidenziato che la Ley 40/1999, che ha introdotto l’attuale disciplina, fu adottata – come si legge nella sua exposición de motivos – per superare il sistema previgente che prevedeva per legge sempre la posposizione del cognome materno a quello paterno. Cioè in Spagna fin dal 1870 (!) vigeva il doppio cognome, seppur prevedendo quello materno in seconda posizione. Vi immaginate nel 1870 una madre che in Italia reclama di poter apporre anche il proprio cognome ai figli quale risposta avrebbe ricevuto dall’amministrazione del Regno?
31 Tra i cognomi da attribuire al bambino, fino ad un massimo di quattro, possono essere scelti non soltanto quelli dei genitori, ma anche quelli portati dagli ascendenti in linea sia paterna sia materna. Il doppio cognome è diffuso in generale nei Paesi latinoamericani, ad eccezione dell’Argentina.

32 Molto interessante è la vicenda belga, laddove la Corte Costituzionale – con la sentenza 2/2016 del 14/01/2016 – dichiarò l’illegittimità della norma che in caso di disaccordo tra i genitori imponeva il cognome del padre; tuttavia per evitare un vuoto normativo stabilì che tale regola continuasse a dispiegare i suoi effetti fino alla fine dell’anno 2016; puntuale il legislatore belga, prima dello scadere del termine, modificò gli articoli del codice civile prevedendo in caso di disaccordo l’ordine alfabetico. Si noti che parliamo dello stesso anno in cui è intervenuta anche in Italia la dichiarazione di illegittimità della Corte costituzionale, a cui invece è seguita l’inazione del parlamento. Cfr. R. Peleggi, Parità tra genitori e cognome dei figli: il Belgio abolisce le discriminazioni, mentre l’Italia resta in attesa di una riforma, in Rivista di Diritti comparati, 2018, https://www.diritticomparati.it/wp-content/uploads/2019/05/005_Peleggi-Parita_tra_genitori_e_figli-DEF.pdf
33 F. Poggi, Diversi per diritto. Le diseguaglianze formali di genere e le loro giustificazione nel diritto italiano vigente, in Diritto e questioni pubbliche, 2015, vol.15 n.2
34 A tal riguardo vale la pena rilevare che solo alcuni dei disegni di legge giacenti in Parlamento riguardo alla disciplina del cognome dei figli prevedono altresì l’abrogazione del cognome maritale. Solo alcuni, non tutti. È davvero così difficile per il Parlamento italiano abolire questo spregevole articolo?
35 Cfr. https://www.primapaginaonline.it/2021/11/03/melania-rea-la-figlia-cambia-cognome/
36 Tale tecnica è stata riproposta nel 2021 riguardo la questione di legittimità del c.d. ergastolo ostativo, evidentemente in contrasto con il principio della finalità rieducativa della pena di cui all’art. 27 Cost. (Ordinanza n. 97/21).
37 In G. Oppedisano, Non è questione d’anagrafe ma di parità, Senato in pressing sul doppio cognome, in Il Sole 24 Ore, 17/11/2021.
38 Pubblicate su Facebook il 13/01/2021.
39 C. Bassu, La Corte costituzionale riapre la partita sul cognome materno, in Diritti Comparati, 21/01/2021, https://www.diritticomparati.it/la-corte-costituzionale-riapre-la-partita-sul-cognome-materno/
40 A. Cusan, Peripezie di un buon diritto, cit. p. 206.
41 Dall’intervento dell’avvocata Antonella Anselmo al convegno “Cinque anni devono bastare per la riforma del cognome”, svoltosi il 8/11/2021 presso il Senato della Repubblica.
42 Tale notizia è riportata nel lavoro della dott.ssa Mina. Vedi nota 43.
43 È interessante segnalare che qualche coppia – almeno nel Comune di Torino – è riuscita ad attribuire il doppio cognome anteponendo quello materno nell’intervallo di tempo intercorso tra la sentenza della Corte costituzionale e la circolare ministeriale. Cfr. A. Mina, Il doppio cognome: contenuto e limiti di un nuovo diritto, CIRSDe, 2020, p.27. Si tratta della pubblicazione della tesi di laurea in Giurisprudenza della dottoressa Anna Mina presso l’Università degli studi di Torino, pubblicata dal locale Centro Interdisciplinare di Ricerche e Studi delle Donne e di Genere, con una prefazione della professoressa Joëlle Long. Si tratta di un lavoro particolarmente interessante, perché unisce alla discussione giuridica una ricerca sul campo tramite interviste agli ufficiali di stato civile di alcuni Comuni, modo per riscontrare in che modo e in quale misura il diritto riconosciuto dalla Corte trovi applicazione nella realtà.
44 Si tratta – per la cronaca – di un’istanza che si trova sui siti internet delle Prefetture e che ha il costo della marca da bollo di €16.
45 Dall’intervento della professoressa Carla Bassu al convegno “Cinque anni devono bastare per la riforma del cognome”, svoltosi il 8/11/2021 presso il Senato della Repubblica.
46 Noi rete Donne, Doppio cognome a figli e figlie. Una rivoluzione culturale e non questione di sola parità, in https://www.noidonne.org/articoli/doppio-cognome-a-figli-e-figlie-una-rivoluzione-culturale-e-non-questione-di-sola-parit.php
47 Ho effettuato tale indagine nel dicembre 2021. Si tratta dei Comuni di Genova (cui si rivolsero i coniugi la cui istanza è poi giunta in Corte costituzionale), Trieste, Bologna e Ancona. Naturalmente se nella mia ricerca ho involontariamente perso l’informazione pubblicata da qualcuno degli altri 16 Comuni, sarò lieta di correggermi.
48 L. Boldrini, Questo non è normale, Chiarelettere, Milano, 2021, p. 69.
49 C. Bassu, La questione del cognome materno e i diritti costituzionali alla prova del “benaltrismo”, Premessa al libro Il diritto alla identità anagrafica, Editoriale Scientifica, Napoli, 2021, p.14-15. Mi piace riportare la dedica che apre il libro della professoressa Bassu: “A Caterina Sanna Bassu, ragione di questo libro e non solo. Che cresca consapevole dei suoi diritti e doveri verso gli altri e verso sé stessa, anche quando ci sarà “ben altro a cui pensare”.
50 Corte costituzionale, Ordinanza n. 18 del 14/01/2021, depositata il 11/02/2021.
51 Ibidem.

*Maria dell’Anno,  è giurista, criminologa e soprattutto scrittrice. Ha pubblicato i romanzi “Troppo giusto quindi sbagliato” (Ed. Le Mezzelane, 2019), “Fuori tempo” (Ed. Eretica, 2021), e i saggi “Se questo è amore. La violenza maschile contro le donne nel contesto di una relazione intima” (Ed. LuoghInteriori, 2019), “Parole e pregiudizi. Il linguaggio dei giornali italiani nei casi di femminicidio” (Ed. LuoghInteriori, 2021). Ha vinto vari premi letterari e suoi racconti sono pubblicati in antologie. Scrive articoli su NoiDonne.org. In pubblicazione anche la raccolta di racconti “E 'l modo ancor m'offende” (Ed. San Paolo, 2022).

fonte: FiloDritto