Incontrata in Rojava per parlare di democrazia paritaria e della resistenza di Kobane – Intervista di Emanuela Irace
Nujin Yousif viene da Afrin uno dei tre cantoni del Rojava, letteralmente: “paese dove tramonta il sole”, enclave kurda nel nord della Siria. Nujin ha 48 anni e non è sposata. Vive a Sulaymanyya, nel Kurdistan iracheno, ai confini con l’Iran. Ci incontriamo nella sede del PYD, il Partito dell’unione democratica, dove Nujin ricopre il ruolo di co-segretaria in base ai criteri di democrazia paritaria applicati dal popolo kurdo sia in ambito amministrativo che politico: “La co-gestione è una delle caratteristiche del nostro movimento. L’obiettivo è creare unità di donne a tutti i livelli, non soltanto per la difesa militare ma anche per la gestione politica e per tutti i comparti dell’organizzazione sociale”.
Sui media occidentali e soprattutto italiani si è dato molto spazio al fatto che in Rojava e in Iraq ci fossero eserciti composti esclusivamente da donne, dando più enfasi al folclore che ai contenuti…
La nostra è una ideologia forte alternativa ai modelli autoritari applicati in medio Oriente e per questo scomoda. Stiamo realizzando la democrazia paritaria in maniera concreta. Crediamo fortemente che l’unica riforma possibile per gli Stati nazionali debba basarsi sulla democrazia diretta, l’uguaglianza di genere e l’ecologia. Se ci pensi, sono tre fattori concatenati tra loro.
Già, noi ne parliamo e voi la mettete in atto, c’è un detto in Italia che dice: “fare i fatti e non le chiacchiere”…
Si, credo di aver capito, (ride) noi dalla fine degli anni ’90 abbiamo messo in cima alle nostre priorità quel che consideriamo l’unica strada percorribile per il futuro del nostro popolo. Crediamo razionalmente, come ha scritto Ocalan (il leader kurdo che dal 1999 è in isolamento nel carcere prigione turco nell’isola di Imrali, ndr) che la politica sia del popolo e non delle oligarchie. L’economia deve essere un mezzo al servizio di tutti. E le risorse devono essere equamente distribuite. Per questo vogliamo la partecipazione diretta dei cittadini alla politica, il rispetto per l’ambiente e l’uguaglianza tra uomini e donne.
E nonostante la guerra ci siete riusciti..
Sono 4 anni che si combatte nel Rojava, prima contro Al Nusra poi contro lo Stato Islamico. Ciò nonostante, o forse grazie a cio’, siamo stati capaci di creare una alternativa, “la terza via”: ossia né con Assad né con gli islamisti. Poi questo modello di autonomia democratica è cresciuto, da gennaio 2014 abbiamo la nostra Costituzione, ogni cantone ha il proprio Parlamento e l’intero Rojava è diventato un laboratorio per uscire dalla crisi, ma anche un modello per l’intero Medio Oriente.
Per questo nessuno ne parla, per paura del “contagio”?
E’evidente che siamo scomodi. Lo siamo sempre stati. E’ dal 1923, dal trattato di Losanna che le Potenze Occidentali hanno deciso di ignorare la nostra esistenza e combatterci. Genocidi e pulizia etnica sono stati la costante necessaria per l’edificazione degli Stati nazione disegnati col compasso. Poi le due Guerre Mondiali. Le promesse non mantenute. Siamo diventati “apolidi” a casa nostra. Divisi e senza diritti in Turchia, Siria, Iraq e Iran. Darci ascolto avrebbe significato riconoscere anche i diritti all’esistenza di altre comunità perseguitate, come i palestinesi per esempio.
Che situazione c’è adesso in Rojava e soprattutto nel cantone di Kobane?
Per la prima volta la questione kurda è diventata nota al grande pubblico. Nel Kurdistan occidentale, ossia nel Rojava, vivono 2 milione e mezzo di kurdi, in tutta la Siria i kurdi sono 3 milioni. Questo territorio che segue il tracciato dell’antica ferrovia Berlino-Baghdad tra Turchia e Siria, ha difficoltà di collegamento. Molte città sono in mano ai jiadisti dello Stato islamico. Kobane è il cantone più piccolo, 600mila abitanti, ma il sistema dell’autonomia democratica è tra i piu avanzati e funzionanti. Cristiani e altre etnie si sono dati da fare per realizzarlo insieme a noi, per questo è stato attaccato, la risposta è stata la resistenza del popolo che ci ha fatto conoscere in tutto il mondo. Il problema resta la Turchia. Erdogan, da aprile Presidente dello Stato turco, non vuole riconoscere l’autonomia del Rojava, perché non ha mai riconosciuto l’identità kurda in Turchia e la cosa gli creerebbe problemi. Sono circa 20 milioni i kurdi in Turchia che vorrebbero vedere riconosciuto il proprio status.
Da un punto di vista internazionale cosa non siete riusciti a fare?
Avremmo voluto partecipare ai negoziati di Ginevra 1 e Ginevra 2. Ma a quel tavolo non ci siamo arrivati. E non abbiamo potuto dire la nostra né raccontare il nostro modello. Devi considerare che in tutti e tre i Cantoni del Rojava, ossia Efrin, Kobane e Cizre inizia tutto dal basso. La democrazia si realizza in forma diretta a cominciare dai quartieri fino al Parlamento. Ci sono comitati popolari e ognuno presta la propria opera volontariamente, uomini e donne, secondo le proprie competenze e possibilità. Anche Cristiani e arabi stanno utilizzando questo sistema di partecipazione democratica.
Come avviene il reclutamento dal basso e cosa chiedete alla Comunità internazionale?
I rappresentanti delle assemblee del popolo siedono in Parlamento. Sono 28 i partiti che hanno partecipato alle elezioni. Se non ci fosse stata questa guerra avremmo fatto nuove consultazioni. Ma ci sono altre emergenze umanitarie. Siamo in inverno e i bisogni crescono. C’è un campo con 8.000 profughi yazidi scappati dalla guerra. Alla comunità internazionale chiediamo di aiutare anche le popolazioni cristiane e dare uno stop all’embargo. Abbiamo bisogno di cibo e medicine e dell’apertura di nuovi varchi per portare aiuti umanitari. Siamo abituati a convivere con altre etnie e siamo per la fratellanza tra popoli. Vogliamo una Siria democratica che accetti la nostra autonomia regionale. Questo chiediamo alla comunità internazionale, che ci ascolti.