Da oggi, 24 settembre, esce in tutte le librerie italiane ‘La giudice. Una donna in magistratura‘, che segna l’esordio lettaerario di Paola Di Nicola, “L’unica donna magistrato in Italia che sfida le regole della grammatica e i pregiudizi storici firmandosi ‘La giudice’", sostiene la casa editrice Ghena che l’ha pubblicato, “Da qui il titolo del libro, che racconta e spiega perché, per le donne, non sia tanto importante arrivare a ricoprire ruoli apicali quanto ‘esserci con il coraggio e la consapevolezza del proprio diverso punto di vista, dopo averlo focalizzato e valorizzato’". L’uso che nel titolo del libro si fa dell’articolo determinativo femminile viene approfondita nella prefazione della scrittrice Melania Mazzucco. Il testo invece è un intreccio incalzante tra la dimensione privata e quella pubblica, tra la normale quotidianità e la straordinarietà dei processi, tra il passato e il presente che segnano i cambiamenti stessi, avvenuti nella legislazione del nostro Paese.
Tutto avviene con apparente semplicità, ma mai per caso e l’autrice, contemporaneamente narratrice e protagonista, ci induce a curiosare nel percorso della sua vita e delle sue scelte. ‘La giudice‘ è anche una di quelle figure alle quali, talvolta nostro malgrado, ci troviamo di fronte e da cui dipende spesso la nostra sorte, per cose che attengono alla nostra vita o ai nostri interessi. “Tutto dipende da chi è il giudice“: in quante diverse occasioni si sente ripetere questa frase. Già! Chi è un giudice nella vita? Lo abbiamo chiesto, per l’appunto all’autrice Paola di Nicola.
Il suo libro inizia così: “Prima di essere un giudice e un detenuto eravamo una donna e un uomo che si misuravano in un duello di sguardi. Io sapevo tutto di lui, mentre lui non conosceva nulla di me, a parte il mio cognome“. Se oggi quell’uomo avesse la possibilità di leggere il suo libro, o questa’intervista, cosa scoprirebbe della sua vita?
Sulla mia vita non c’è molto da dire, è la stessa vita di milioni di donne, è la vita delle mie colleghe, delle mie sorelle, delle mie amiche. Ho studiato al Liceo classico Mamiani di Roma, dove ho sempre vissuto, i miei amici di allora sono quelli di oggi. Ho due figli meravigliosi che sono la cosa più bella che sono riuscita a fare nella mia vita. Non ho celebrato nessun processo alla ribalta delle televisioni, nessun processo ‘importante’ per come lo si potrebbe intendere secondo una logica mass mediatica; ho celebrato solo processi che comunque per me, per il mio impegno, per coloro che li hanno subiti sono processi ‘importanti’ dal momento che riguardano persone in carne ed ossa.
La sua è stata un’adolescenza serena?
Nell’adolescenza ho vissuto con grande sofferenza il periodo del terrorismo, avevo 12 anni e mio padre, Pubblico Ministero a Roma, era sempre accompagnato da una scorta di carabinieri perché si trovava nel mirino dei terroristi, rossi e neri. Ho visto i suoi amici e colleghi morire dallo schermo di una televisione in bianco e nero. Ho visto in casa i mitra spianati quando tornavo da scuola, ho ascoltato le storie quotidiane dei carabinieri che da poco avevano imparato ad usarli, giovani di 20 anni, l’età di mia sorella, a cui mia madre offriva il caffè con affetto, sempre temendo di doverli piangere un giorno insieme a suo marito, magari sull’asfalto della strada diretta a Piazzale Clodio.
Certo non dovevano essere anni facili per lei e la sua famiglia…
Ricordo quegli anni come un incubo, le mie sorelle li hanno cancellati. I miei genitori, invece, sorridevano sempre e facevano finta che fosse normale, un po’ come il personaggio di Roberto Benigni nel film ‘La vita è bella‘.
Aver respirato quel clima ed essere cresciuta in quegli anni quanto ha contato nella sua formazione?
Da lì viene la mia scelta a 15 anni di entrare nel Movimento per la Pace, di respirare con gli altri (grandi e piccoli, laici e cattolici, giovani e anziani) il rispetto della vita umana, della cultura altrui, dello scontro dialettico, magari aspro ma sempre serio e pacato, il rifiuto della violenza come strumento di risoluzione dei conflitti, di qualsiasi conflitto; mettersi in discussione e allo stesso tempo impegnarsi, assumersi le proprie responsabilità, prendere posizione sempre e comunque.
La famiglia e i suoi insegnamenti, la sua storia e la storia altra, la scuola e l’apprendimento; quando è maturata in lei la decisione di fare il magistrato?
Ho deciso di fare il magistrato per tanti motivi. Innanzitutto l’esempio di mio padre, un magistrato di levatura morale e professionale indiscussa, come erano magistrati i suoi amici/colleghi da cui ho imparato tanto solo ascoltandoli e alcuni dei quali, per l’appunto, morti sotto i colpi vigliacchi delle mafie e del terrorismo.
Come molti altri figli, ha seguito le orme del padre. Avere un esempio professionale in famiglia l’ha aiutata?
Tuttora mi chiedono, avvocati e magistrati, anche in piena udienza, con il pubblico, "Lei è figlia di Enrico Di Nicola? Un grandissimo magistrato". Prima mi sentivo in imbarazzo, non sapevo cosa rispondere, sentivo di non essere valutata per quello che ero, insomma "un magistrato di riflesso", ora ne sono orgogliosissima e mi sento libera di poterlo manifestare.
Una donna nel suo ruolo, come si sente e come si pone rispetto agli altri? Rispetto a suo padre, ai giudici che ha conosciuto, sente una differenza?
L’ho scritto nel mio libro. Non mi sono mai appartenute le forme celebrative e i grandi spazi, non riuscivo a creare il silenzio con il solo mio apparire. Ho invece sempre ‘scavato’, per capire anche la dimensione umana che vive dietro alle risposte; è stato un impulso irrefrenabile che ho sempre provato di fronte ai testimoni, agli imputati, alle vittime, ai colleghi, alle persone. Lo ritengo ancor più doveroso per un magistrato.
Nel suo libro lei parla del pericolo che si rischia” di entrare in un meccanismo che cattura, che invischia, che non consente di valutare con la dovuta oggettività e terzietà il fatto, nella sua semplice crudezza. Insomma, l’esperienza dice che è un pericolo, perché tende a portare verso la giustificazione di qualsiasi situazione e comportamento. Ma più ancora di qualsiasi persona“.
Infatti. Nella valutazione tra assolvere e condannare, tra tenere un essere umano in carcere o farlo tornare a casa, sono certamente i fatti a contare, ma anche la storia e lo spessore umano dei loro protagonisti, dei loro perché. Come nel caso di Gennaro (di cui parlo nel libro) a cui chiedevo dei figli, se sua moglie lavorava o era lui solo a lavorare e mantenere la famiglia e formulavo queste domande solo per rispettare le regole dell’interrogatorio, in cui si deve avere anche il quadro della condizione famigliare dell’arrestato. Gennaro, invece, rispondeva a quelle domande ritenendole l’unica speranza di risvegliare i miei sentimenti di moglie e di madre che avrebbero vinto, nella sua logica e nella sua cultura, sui parametri di valutazione che devono guidare un magistrato. Continuava a restare imprigionato, non tra le mura del carcere, ma nelle maglie della banalizzazione, riduzione,semplificazione di me come donna, rinchiusa nel suo atavico ed esclusivo ruolo domestico. Continuava a non riconoscermi nella mia funzione di giudice che deve accertare fatti, reati, responsabilità.
Gli imputati che deve giudicare sono in maggioranza uomini o donne?
Gli imputati che devo giudicare oggi per esempio sono tutti uomini. Questo non è un caso. I reati, specie un certo tipo di reati, li commette chi ha potere economico (bancarotte fraudolente, evasioni fiscali, truffe, appropriazioni indebite), chi ha potere famigliare (maltrattamenti in famiglia, violazioni degli obblighi di mantenimento dei figli, sfruttamento della prostituzione, violenze sessuali), chi ha potere politico-istituzionale (corruzioni, concussioni, peculati, falsi). E poi il traffico di esseri umani, il traffico di droga, il traffico di rifiuti, le associazioni mafiose. Basta che ci sia un rapporto di potere, a qualsiasi livello, e le donne spariscono. Sono fatte fuori. Al più le vedo, come giudice, nei panni dimessi di piccole ladruncole, di teste di legno di società fittizie dei loro padri o dei loro mariti, di chi occupa abusivamente le case popolari per entrarci con i figli, di chi sostituisce il proprio uomo in un ruolo criminale per il solo periodo della sua detenzione in carcere. Naturalmente vengono subito arrestate.
E le imputate come si rapportano nei confronti di un giudice donna?
Come scrivo nel mio libro, all’inizio sembrano testimoni reticenti, ma è l’estraneità con il mondo dei diritti, del potere e l’atavica soggezione all’autorità, finora sempre maschile, a mostrarle dimesse e deboli. Una volta aperto il varco diventano un fiume in piena.
La vittima di un reato sessuale si sente più garantita dalla presenza di un giudice che appartiene al proprio sesso?
Di fronte a una donna per loro è più facile. Sono rassicurate che le loro parole, le loro storie, le loro sofferenze, le loro solitudini, non sono estranee perché sono dentro ognuna di noi. Ed è vero, sono la nostra memoria collettiva che anche chi non ha vissuto percepisce come propria. Purtroppo tante volte mi è capitato in questi vent’anni di avere interrogato donne che avevano denunciato di aver vissuto decenni di abusi e di violenze fisiche e morali e di sentirle ritrattare in un’aula di giustizia davanti al loro marito-aguzzino.
Lei ricorda che attualmente, su 8678 magistrati, le donne sono 4006, pari al 46% del totale. Con decreto dell’8 giugno 2012, hanno preso servizio 325 magistrati di cui 210 donne, pari al 65%. La maggior parte di queste non sa che alle loro nonne, meno di cinquant’anni fa, era vietato anche solo aspirare a diventare magistrato della Repubblica italiana e, giustamente, lei dice che tra pochi anni tutto questo sarà solo preistoria . Ed oggi?
Oggi le donne sono la maggioranza in magistratura, ma i numeri dimostrano che non sono ancora presenti in modo adeguato negli uffici direttivi e negli organismi rappresentativi. Purtroppo anche in magistratura, come in altri ambiti professionali, più volte noi donne abbiamo adottato ambizioni, modelli, riferimenti che non ci appartengono e che sacrificano quello che del nostro genere è speciale e unico, come intuito, vitalità, ascolto, percezione, sentimento, attenzione, relazione, estro, creatività, sintesi, praticità. Tanto da rischiare di perdere noi stesse per non perdere la toga, per essere accettate da una toga ritagliata da altri.
La sua Toga e la sua pettina sono elementi ricorrenti nel libro. Si ravvisa l’amore e l’orgoglio per esse e ciò che rappresentano. Quando è cominciata la sua attività in magistratura?
Ho fatto sempre il giudice, ogni giorno per 20 anni. La mia prima sede è stata la pretura di S. Angelo dei Lombardi, dove ho imparato moltissimo: è stata la mia palestra professionale, caratteriale e di vita. L’Alta Irpinia è una terra di grandi tradizioni, di grande civiltà e di notevole livello culturale. Più di qualsiasi altra terra trovata successivamente nel mio percorso professionale. Partivo da Roma alle 6 del mattino con le mie colleghe, portando con me mio figlio Francesco di soli 4 mesi e mezzo.
Come è riuscita a conciliare la maternità con il lavoro?
Spesso allattavo mio figlio in auto e la notte mi tiravo il latte sufficiente finché non tornavo dall’udienza. Una fatica improba per me e per lui. Ora non lo farei mai. Non volevo che si pensasse – come invece pensava senza dirlo il capo del mio ufficio di allora – che io approfittassi della maternità. Come se la maternità fosse un problema e per di più personale. Non volevo far prescrivere i reati, ricordavo i visi di persone disperate che aspettavano la parola fine di una storia, di delitti, silenziosamente sopportati. Ma era un problema mio, solo mio. Una scelta individuale. Quei visi mi impedivano di prendere tutta la maternità facoltativa che mi spettava e spettava a mio figlio. Poi è nata Silvia.
E non si è arresa
No. Sono stata trasferita a Latina, lì mi sono occupata di separazioni e divorzi, di esecuzioni immobiliari, ho svolto tutti i ruoli possibili, per capire, per imparare, per curiosità intellettuale. Ogni volta che si cambia settore per un magistrato è ricominciare da capo. Infine ho ripreso a fare il giudice penale. Pendolare ancora da Roma, con il treno degli studenti e delle prostitute, quello della fatica, di un’umanità dolente uguale a quella che entrava nelle aule. Poi, su mia domanda, sono andata a Napoli dove si era costituito un Tribunale speciale che si occupava dell’emergenza rifiuti in tutta la Campania.
Come è stata la sua esperienza in una città difficile come Napoli?
Amo immensamente quella città e volevo darle un pezzo di me attraverso il mio impegno giudiziario. Così per un anno e mezzo ho presieduto il Tribunale ‘speciale dei rifiuti’. E’ stata l’esperienza più ricca e formativa che abbia finora vissuto sotto il profilo professionale, per il livello altissimo dei colleghi che ho incontrato e per la visione d’ insieme di un fenomeno che prima che criminale è un fenomeno culturale e di insipienza politico-amministrativa.
Oggi però si è ricongiunta con la famiglia a Roma…
Dopo 19 anni di pendolarismo sono arrivata a Roma solo due anni fa, grazie a una sentenza del TAR che mi ha riconosciuto il punteggio per il ricongiungimento ai miei figli che il Consiglio Superiore della Magistratura mi aveva negato perché mi ero separata da mio marito. Il TAR ha sostenuto che sono stata vittima di una discriminazione di genere!
19 anni per tornare a Roma ?
Nel mio caso sì.
Esistono casi diversi ?
Si, ad alcuni magistrati sono bastati pochi anni.
E chi ha questo privilegio ?
I magistrati che con sacrificio sono stati per anni in sedi disagiate o che hanno altri gravi e giustificati motivi (ad esempio ragioni di sicurezza o di salute); ma anche i magistrati chiamati nei Ministeri, nelle commissioni parlamentari, ecc..cosiddetti fuori ruolo che beneficiano del concorso virtuale, cioè fatto sulla carta e privo di concorrenti.
Ma lei non è mai stata chiamata in nessun ministero o non è mai stata fuori ruolo?
Avrei potuto farlo, ma poteva essere letta come una scorciatoia per tornare a casa, lettura che non potevo consentire per ragioni di coerenza personale. La coerenza per me e per i miei figli ha avuto un prezzo alto.
In quali problematiche giudiziarie si è cimentata in particolare?
Mi sono occupata come giudice, in particolare, del fenomeno dell’immigrazione, che il legislatore ha voluto criminalizzare per paura e non regolamentare con serietà. Ho imparato che le barriere non servono e non esistono. Su questo tema e su quello dell’ambiente ho profuso una parte della mia attività interpretativa di giudice, perché sono temi centrali della cultura di un Paese e della tenuta reale dei suoi diritti. Per due anni mi sono occupata della formazione dei magistrati del Lazio nel settore penale.
Mi permetta una domanda più personale: lei come è schierata all’interno della Magistratura?
Sono iscritta dal primo giorno di ingresso in magistratura all’Associazione Nazionale Magistrati, che rappresenta ognuno di noi e che ha difeso e difende la nostra indipendenza, e solo dopo anni a due correnti come il Movimento per la Giustizia e Magistratura democratica.
Ed è normale essere iscritta a due diverse correnti?
Effettivamente no, sono stata tra i primi a chiederlo, anche forzando gli statuti interni delle correnti che non lo prevedevano, perché credo fortemente che la magistratura di questo Paese che viene definita ‘progressista’ debba riconoscersi in un unico ampio schieramento che si sta mettendo alla prova sotto il nome di ‘Area’. Credo anche che la magistratura debba mettere in atto sempre di più un’operazione di uscita dalla propria autoreferenzialità, di critica feroce dei propri limiti e delle proprie cadute, oltre che di assoluto rigore.
Da magistrato impegnato e rigoroso a scrittrice. Come è nato questo libro? Da una sua esigenza interiore?
Non ho mai creduto e tuttora non credo che la mia vita personale e professionale meritasse e meriti un libro. Tutto è nato per caso, come solo i grandi amori e le cose belle della vita riescono a fare. Una mia amica e la direttrice di GhenaLibri mi hanno proposto di scrivere la mia esperienza di giudice donna in un libro e mi hanno convinto. Quando ho cominciato, sono stata come un fiume in piena.
Si è chiesta come mai aveva tante cose da dire?
Ho iniziato a guardare come in un caleidoscopio la mia esperienza. Arrivata all’ultima pagina ho pensato che ogni vita apre uno squarcio non solo su di sé, ma sulla società, sulla cultura, sul pensiero e sulla politica perché è da lì che trae linfa, ogni vita è degna di essere raccontata. Insomma scrivendo ho scoperto che la mia toga era ‘diversa’ da quella dei miei colleghi uomini perché, anche se identica alla mia, sotto c’era una storia, una cultura, un percorso diverso, diversissimo. Io ero stata vittima di pregiudizi che mi avevano impedito per 2000 anni di diventare giudice, loro no. Questi pregiudizi io non li avevo maturati, valutati, superati, li avevo interiorizzati e sperimentati sulla mia pelle, anzi sulla mia toga di giudice.
Ancora la toga, simbolo di una carica pubblica. In particolare, nel caso della magistratura anche di potere, quello di decidere, una carica prettamente maschile oppure no?
Nel libro ho raccontato gli episodi, più o meno comuni, che viviamo noi donne magistrato nelle aule di giustizia e che sono il sintomo di questa storia e di questa cultura troppo superficialmente archiviate come passate. Il mondo dell’interpretazione è stato negato alle donne per millenni e oggi siamo diventate, con una rivoluzione silenziosa, la metà dei magistrati cioè la metà degli interpreti del nostro Paese. Sarebbe ingenuo pensare che questo passaggio sia indolore e non abbia lasciato il segno, specialmente dentro noi donne.
La differenza di genere quanto influisce?
Mi sono chiesta quanto questo portato personale e culturale fatto di esclusione e di pregiudizio sia entrato nelle nostre sentenze, nelle nostre indagini, nelle nostre aule; mi sono chiesta se c’è un diverso punto di vista. Per rispondere alla fine, con fatica e liberazione allo stesso tempo, affermativamente a queste domande, ho cercato nella mia storia, nei miei pensieri, nelle mie emozioni, negli sguardi di cui sono stata fatta oggetto, nelle parole dei codici e dei filosofi e ho scoperto che neanche nell’interpretazione giuridica esiste il neutro e che solo un mondo costruito consapevolmente al femminile e al maschile è davvero completo e ricco, perché vero.
Con questo libro non teme le critiche dei suoi colleghi ?
Come dice una mia cara amica quando si scrive ci si espone, si è nudi allo sguardo e al giudizio degli altri. So di rischiare di essere trafitta e ferita anche perché le questioni che ho posto sono complesse e ognuno le leggerà secondo il proprio vissuto che è unico e irripetibile. Ciò che mi auguro è che l’incontro e lo scontro di pensieri e opinioni sia utile ad una crescita culturale comune nell’interesse degli uomini e delle donne di oggi, ma più ancora di domani.
per gentile concessione de L’indro.it