Per una pandemia femminista

da | Apr 9, 2020 | Testimonianze e contributi

di Eleonora Meo

“Finalmente…femministe fuori combattimento. Liberi dalla retorica dell’8 marzo”.(1)
Così titolava Libero all’indomani del DPCM del 4 marzo 2020 (entrato in vigore l’8 marzo) che prevedeva tra le misure restrittive anche la sospensione su tutto il territorio nazionale di manifestazioni, eventi, spettacoli e assembramenti sia pubblici che privati di qualsiasi natura. La Commissione di Garanzia ha vietato anche lo sciopero generale del 9 marzo indetto dal movimento transfemminista globale,(2) impedendoci così di attraversare una delle date per noi simbolicamente più significative.
Certo, l’articolo (scritto per giunta da una donna) di un quotidiano di destra, tristemente noto per essere misogino e per incorrere in ricorrenti strafalcioni politici (come l’aver prima inneggiato alla strage e poi successivamente minimizzato e ridicolizzato l’emergenza Covid-19), forse non è così indicativo per una lettura del sentire nazionale durante una pandemia. Oppure lo è? In fondo, si sa, in situazioni di emergenza o di urgenza rivoluzionaria (e la storia, alle donne, lo ha costantemente ricordato) bisogna saper accantonare le questioni secondarie e lasciare spazio alle istanze politiche considerate prioritarie nella lotta al capitale. Anche quando non si sostiene direttamente la subordinazione della donna all’uomo si finisce spesso per subordinare le sue istanze politiche. Quanti avranno pensato, e mi riferisco anche all’universo della sinistra, che forse questa volta l’8 marzo e la lotta contro il patriarcato potevano passare in secondo piano rispetto alla ben più grave minaccia di una pandemia globale?
Certamente la gravità di questa emergenza sanitaria e degli effetti ancora più nefasti che ne conseguiranno è innegabile e quanto mai tangibile. Com’è stato più volte ricordato, oltre trent’anni di sfrenate politiche neoliberiste attuate da governi e Unione Europea hanno minato già da tempo le nostre possibilità di sopravvivenza in un sistema economico che sfrutta tutte le specie viventi senza troppe distinzioni (attraverso allevamenti industriali intensivi, deforestazioni e inquinamenti ambientali, precarizzazione e sfruttamento delle lavoratrici e dei lavoratori, tagli e privatizzazioni della sanità pubblica, scarsissimi finanziamenti e politiche di supporto per il contrasto alla violenza di genere, disinvestimenti nell’edilizia pubblica e nell’offerta di abitazioni sociali, ecc.). È già stato stimato che la crisi economica e occupazionale che questa pandemia scatenerà sarà senza precedenti, ben peggiore della crisi del 2008 della quale a stento se ne stava intravedendo l’uscita. Ecco allora che il femminismo come movimento di liberazione dalle logiche capitalistiche del patriarcato e le questioni di genere ad esso legate non appaiono più così secondarie all’interno anche di questa pandemia. La domanda che ci vogliamo porre è: Quali sono e quali saranno le ricadute di questa emergenza sanitaria sulle donne e le soggettività lgbt*qia+? In che modo questa nuova crisi capitalistica continua a sfruttare il lavoro produttivo e riproduttivo femminile?
La retorica governativa dello “stare a casa” – fino a sabato indirizzata solo agli sportivi e a chi portava fuori il cane, dimenticandosi del padronato industriale e di quei datori di lavoro di settori non essenziali all’emergenza che continuavano a far lavorare i propri dipendenti – ha finito ben presto per cortocircuitare con le esigenze materiali delle persone, intaccando ben poco quelle del mercato.
Quando si parla di quarantena infatti non si devono dimenticare alcuni dati e aspetti che oltre ad essere fondamentali per la prevenzione del contagio lo sono anche per la violenza di genere, ovvero che nel 2019 l’81,2% dei femminicidi è avvenuto in famiglia e che spesso relazioni di coppia già compromesse rischiano di sfociare in violenza soprattutto quando l’abitazione è troppo affollata e non sufficientemente grande per consentire spazi vitali minimi ai suoi numerosi abitanti (lo stesso vale per le condizioni nelle carceri, nei centri di accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo, nelle case di riposo per anziani e nei dormitori per le/i senza fissa dimora). Non a caso i periodi in cui generalmente le donne chiedono più aiuto sono le vacanze estive o le feste di Natale, ovvero quei momenti dell’anno in cui la convivenza si fa più serrata e il pericolo di subire violenza si fa sempre più probabile.
In queste settimane di quarantena per emergenza sanitaria i centri antiviolenza, le case rifugio e i centralini contro la violenza di genere hanno registrato un calo drastico di richieste di aiuto. Dai dati del Telefono Rosa, ad esempio, è emerso infatti che nelle prime due settimane di marzo le telefonate sono diminuite del 55,1% rispetto a quelle dello stesso periodo dell’anno scorso: le donne sopravvissute alla violenza che hanno chiamato il centralino sono diminuite del 47,7% mentre le telefonate di sopravvissute di stalking hanno registrato una diminuzione addirittura del 78,8%. Inutile precisare che il motivo principale è l’impossibilità materiale per le donne di chiamare quando sono chiuse in casa con il proprio oppressore, pensando che è meglio sopportare pur di non far esplodere partner violenti. Il rischio, naturalmente, è quello di ottenere un incremento di femminicidi e violenze domestiche su donne e persone lgbt*qia+ che non potranno ricevere aiuto.
Altra questione è quella della protezione dal rischio di contagio Covid-19 nei luoghi di lavoro. Come denunciato dalla rete D.i.Re., finora il governo non ha fatto nulla per fornire alle case rifugio, ai centri antiviolenza e a tutti gli altri presidi sociali collettivi (come le strutture che accolgono donne richiedenti asilo e rifugiate) strumenti adatti a gestire e a far fronte all’emergenza. Le operatrici dei cav (centri antiviolenza) e delle case rifugio si sono infatti dovute dotare in autonomia delle mascherine necessarie (per sé e per le donne ospiti) per continuare a svolgere il lavoro, senza aver ricevuto alcun aiuto da parte delle istituzioni. Ancora, l’ICRSE (International Committee on the Rights of Sex Workers in Europe) ha pubblicato lo scorso 18 marzo un documento intitolato “Covid-19: Sex Workers need immediate financial support and protection”(3) in cui si fa un appello ai governi nazionali affinché agiscano urgentemente per assicurare che lavoratrici e lavoratori sessuali possano accedere al supporto sociale durante la pandemia del Covid-19. Con l’autoisolamento e le restrizioni negli spostamenti, infatti, molte/i sexworker perderanno una parte, se non tutto, il loro reddito e dovranno affrontare difficoltà finanziarie, maggiore vulnerabilità, indigenza o perdita della casa. Molte donne non potranno inoltre accedere alle protezioni previste invece per altre categorie di lavoratrici, come ad esempio la malattia pagata.
Con il decreto “Cura Italia” del 16 marzo, la maxi-manovra da 25 miliardi che ha esteso la Cassa integrazione in deroga a (quasi) tutti i lavoratori, sono stati esclusi colf, badanti e baby-sitter, vale a dire circa 2 milioni di lavoratori che sono soprattutto donne e stranieri. Queste lavoratrici, che potranno accedere solo al Reddito di ultima istanza, rischiano non soltanto di restare senza lavoro nel pieno dell’emergenza coronavirus ma addirittura di essere licenziate, poiché per queste categorie la norma anti-licenziamento prevista dal decreto (che vieta licenziamenti per i prossimi 60 giorni) non vale. (4)
Il movimento transfemminista si deve fare portavoce delle istanze delle donne e delle soggettività non eteronormate che non hanno i privilegi economici per poter far fronte all’emergenza e deve insistere sulla necessità della creazione di un reddito di quarantena che dia la possibilità a tutt* di sopravvivere non soltanto durante questa emergenza ma soprattutto durante ciò che ne conseguirà. Non dimentichiamo che secondo gli ultimi dati Eurostat aggiornati a maggio 2019 (relativi alla popolazione compresa nella fascia d’età di 20-64 anni), nel 2018 la percentuale di occupazione femminile in Italia era pari al 53.1% rispetto al 72.9% di quella maschile (mentre i dati europei sono rispettivamente del 67.4% per le donne e 79% per gli uomini). All’interno dei dati sull’occupazione poi, senza naturalmente parlare del gender pay gap, bisogna sottolineare due aspetti che saranno fondamentali soprattutto quando a fine emergenza sanitaria subentrerà l’ormai certa crisi economica, ovvero il divario di genere nel lavoro part-time e lo storico divario Nord-Sud. Mentre il lavoro part-time è svolto ben dal 32.4% delle donne a fronte del 7.9% degli uomini, per motivi legati alle necessità di gestire i tempi di lavoro di produzione (salariato) e di riproduzione (domestico e di cura), all’interno dell’Italia la percentuale di donne con un’occupazione rivela un drammatico divario tra regioni del Nord e quelle del Sud: con una media italiana di occupazione femminile pari al 53.1%, è possibile notare come in Emilia Romagna è occupato il 66.9% delle donne, in Lombardia il 63.8% e in Veneto il 62.6% mentre agli ultimi tre posti ci sono regioni come la Calabria con il 33.5%, la Campania con il 31.9% e la Sicilia con solo il 31.5% di donne occupate.
Ebbene, è quanto mai necessario iniziare a chiederci cosa ne sarà di noi una volta finita questa pandemia. Per adesso teniamo duro su quei luoghi di lavoro ancora operativi e “restiamo a casa” (per chi può), ma quando tutto questo finirà ritorneremo in strada e presenteremo al patriarcato il conto anche di questa crisi capitalistica e emergenza sanitaria di Stato che, ancora una volta, sta esternalizzando i suoi costi maggiori sulle nostre vite. Quello che ci dobbiamo auspicare, allora, è che la prossima pandemia sia quella femminista.

da Umanità Nova