Perché non sono d’accordo con il trasversalismo di SNOQ, di Monica Lanfranco

da | Set 13, 2012 | L'opinione


Sono contenta che Francesca Izzo abbia scritto in modo chiaro quello che per lei è il valore aggiunto nella pratica politica di Snoq, che ha definito l’originale trasversalismo.

In varie occasioni, e in diversi gruppi del movimento, avevo colto accezioni di volta in volta differenti del senso di questa trasversalità: uno strumento che , per esperienza diretta, vissi dentro il Genova Social Forum nel 2001, quando fui  portavoce del movimento delle donne nel Gsf.

Il tentativo, dentro quel variegato e contraddittorio coacervo di realtà politiche, sindacali e di movimenti misti (e contemporaneamente dentro anche ai movimenti femministi) fu quello di provare a prestare ascolto alle diverse pratiche per costruire un percorso che portasse tutti e tutte a vivere al meglio il protagonismo antagonista delle varie anime della proposta, e della protesta, contro l’incipiente avanzata della globalizzazione neoliberista e della crisi, che allora sembrava lontana e che noi femministe precognizzammo a Punto G, un mese prima del G8, senza essere adeguatamente ascoltate.

Ho sempre pensato che la trasversalità, in qualità di strumento, abbia dato buoni frutti, (tra i tanti voglio ricordare l’accordo parlamentare tra tutte le donne elette sulla cancellazione dell’abominio che, prima del 1996, rubricava lo stupro come un delitto contro la morale, e due casi più lontani, il consenso tra le donne cattoliche e le socialiste e comuniste che fecero pressing nei rispettivi partiti e ambienti politici per l’ottenimento delle leggi sul divorzio e la 194).

Parlo della trasversalità come strumento, appunto, e non come ad un fine: usato come mezzo conveniente (convenire, così ho imparato dal pensiero di Lidia Menapace, su singole questioni anche in presenza di differenze spesso profonde tra chi lavora assieme per ottenere il risultato atteso) per arrivare a soluzioni politiche su questioni controverse, che nei casi citati configuravano diritti negati alle donne in situazioni che invece, una volta raggiunta la possibilità di esercitare l’autodeterminazione grazie ai diritti ottenuti, hanno reso migliore anche la vita degli uomini e più ampia la pratica della cittadinanza inclusiva.

Ho citato non a caso tra grandi questioni come la violenza sessuale, il divorzio e l’interruzione volontaria di gravidanza, perché si tratta di argomenti che appartengono a quella sfera di temi eticamente sensibili  sui quali l’analisi femminista ha dato un grande contributo, mettendo a tema la necessità di leggi non punitive e vendicative ma ispirate al principio del riconoscimento della soggettività e, appunto, dell’autodeterminazione, uno sguardo che ha migliorato la qualità sociale, politica e culturale in Italia, almeno fino all’avvento del drammatico ventennio berlusconiano nel quale ancora annaspiamo.

Sono colpita che Francesca Izzo liquidi la stagione di maturità e autorevolezza dei movimenti delle donne, quando questi si fecero anche portatori di soggettività giuridica per l’ottenimento di diritti, in un passaggio che mi pare cruciale del suo articolo nel quale scrive: “Dire dignità ̀voleva significare che l’avvento della libertà femminile apre una epocale questione di carattere antropologico che investe la natura della libertà coinvolgendo tutti, uomini e donne e non può più essere affrontata rincorrendo il radicalismo dei diritti”.

Quando la parola dignità è stata evocata, in occasione della chiamata del 13 febbraio 2011, non mi sono trovata d’accordo con alcune che definivano moralista ricorrere a questo concetto.

Ben prima di quella data, memore anche delle analisi sulla globalizzazione e sul neoloberismo che facemmo nel 2001, ero convinta che il concetto di dignità fosse intimamente legato al percorso storico e politico dei movimenti delle donne.

Una delle prime volte che ho letto, da giovane, questa parola, è stata in un passaggio del Manifesto femminista (1792) di Mary Wollstonecraft: “E’ tempo di compiere una rivoluzione nei costumi femminili, tempo di restituire alla donne la loro dignità perduta e di renderle partecipi della specie umana, in modo che riformando se stesse riformino il mondo”.

Dalla Wollstonecraft in poi i movimenti delle donne hanno ragionato e proposto, con pratiche ed  esiti diversi, sulla questione delle leggi e dei diritti, non solo perché spesso ne erano prive, ma perché anche nel momento in cui questi diritti venivano ottenuti non era sufficiente averli scritti per potersi dire pienamente, e a tutto tondo, protagoniste della libertà.

In questo percorso di continuo perfezionamento e ricerca di risposte, mentre la realtà poneva e pone nuove sfide (tra queste oggi c’è la violenza globale contro le donne e la questione della laicità a fronte del crescere dei fondamentalismi in tutte le religioni) penso che sia stata proprio la ferma determinazione a non arretrare nella difesa radicale dei diritti ottenuti, la volontà di estenderli a chi ancora non li ha (le/i migranti per la cittadinanza, i gay e le lesbiche per le unioni e la famiglia, per esempio) a determinare la forza di attrazione e di propulsione al cambiamento dei movimenti femministi.  

Se questa radicalità si stempera, se essa perde centralità e confonde, nell’ascolto necessario delle differenze, mezzi e fini, il rischio è per me quello di perdere il centro e il senso dell’agire e del pensare il cambiamento.

Penso alla  trasversalità come ad una pratica e uno strumento, come la nonviolenza, che mi aiuta a tenere occhio, cuore e mente aperti all’accoglienza e al dialogo.   

Sono convinta che, quando invece  la trasversalità diventa un fine e neutralizza le differenze, questo meccanismo di omogeneizzazione porta inevitabilmente all’omologazione, che nel nostro caso, in Italia, ha avuto come approdo una rinuncia alla politica, una velenosa e pericolosa deriva populista e violenta che non a caso ha dato spazio, come primo e devastante effetto, alla legittimazione della mercificazione del corpo femminile e all’assunzione del paradigma della logica del mercato e del denaro come unica misura per tutto.

Il conflitto, che è stato uno dei cardini sui quali il movimento delle donne si è sviluppato e si sta sviluppando dove esse stanno lentamente riprendendo voce e coscienza, non è una pratica in contrasto con la trasversalità quando questa è pratica di inclusione e ascolto critico: quello che penso sia pericoloso e confusivo, rispetto a ciò che vedo venire avanti nell’orizzonte teorico e concreto in Snoq, è l’asserire che ogni forma di pensiero e di orizzonti, se vengono dalle donne (o anche da qualche uomo) può trovare luogo e ascolto.

Ho imparato, per esempio, dalle attiviste femministe laiche che provengono dai paesi dove vigono dittature islamiste a non sedermi né a partecipare a dibattiti dove sono invitati sostenitori/trici del fondamentalismo, così come non ho mai accettato di partecipare a trasmissioni o dibattiti nei quali erano relatori uomini violenti e portatori di tesi sessiste.

Come scrive la femminista iraniana Maryam Namazie, che bene ha chiaro in mente come una pratica non strumentale del trasversalismo può portare al relativismo politico e culturale, con gli affetti devastanti che vediamo nel suo paese , ma anche in Europa: “Si possono avere molte e diverse opinioni e visioni sul mondo, ma non tutte queste visioni sono giuste. Anche i nazisti avevano una visione.”

Nonostante, (e per fortuna), molte delle antiche categorie di pensiero abbiano perso senso nel nostro presente globale, quello che penso abbia ancora valore come bussola alla quale riferirsi per orientarsi nella confusione attuale è proprio quella della radicalità dei diritti che abbiamo ereditato dalle donne che ci hanno preceduto, in primo luogo le suffragiste e le resistenti, il cui lavoro, storia, pensiero e pratiche sono da far conoscere, estendere e condividere con chi ancora non ne gode.