Pubblichiamo questa interessante riflessione di Isabella De Baptistis
pubblicata da AMistades-Centro Studi per la promozione della cultura internazionale
1. Introduzione
Il corpo è, per sua natura, inserito in una sfera materiale e ideale all’interno della quale, troppo spesso, viene politicamente inquadrato ed ingabbiato da pratiche di contenimento e controllo. Secondo Marx, il corpo era contrassegnato dalla classe economica di appartenenza che, a sua volta, influenzava le esperienze della persona stessa. Foucault sosteneva che nella logica del “bio-potere” le questioni corporee e sessuali non sono solamente individuali, ma sono anche oggetto di regolamentazione sociale e politica.[1] Lo Stato mette, dunque, in atto meccanismi di controllo che tengono conto del corpo, della salute e della gestione complessiva delle popolazioni, in relazione anche alla dimensione demografica. In questo contesto, le misure politiche e le pratiche che coinvolgono il corpo divengono, quindi, elementi centrali per analizzare la forma di potere e, in particolar modo, il grado di evoluzione dello Stato dei diritti da esso riconosciuti e rispettati. Il corpo, infatti, svolge un ruolo primario nel plasmare atteggiamenti, azioni e diritti politici. Il grado di libertà di cui esso gode è monito del livello di progresso, dello status sociale e civile diffuso in una comunità e in una determinata area geografica. Il corpo è stato storicamente disciplinato (Linda Zerilli[2]) e normato, cioè sottoposto alla gestione e alla tutela di una forza esterna, quella politica, rappresentata il più delle volte da figure maschili. Politiche conservazioniste vengono messe in atto da sistemi di potere oppressivi che intervengono, molto spesso brutalmente, sulla sessualità e sul ruolo riproduttivo femminile.
La storia politica dei corpi femminili coincide con la violazione “inevitabile” della loro sfera intima e con una marginalizzazione della narrazione delle cause e degli effetti fisici e psicologici a lungo termine a cui le donne sono sottoposte. I riflettori e l’attenzione mediatica si attivano nei momenti strategici e di propaganda politica, cioè quando il corpo femminile si scopre improvvisamente teatro di scenari culturali, politici e sociali: prostituzione, aborto, sessualità, contraccezione, stereotipizzazione dei canoni di bellezza, sex work e disabilità. La questione del corpo femminile e del corpo umano in quanto tale, distaccato dal sesso, ha un peso politico immenso. I casi e le forme di oppressione di cui le donne sono state e sono tuttora vittime, hanno a che fare intrinsecamente con i loro corpi. Il focus di questa analisi è far luce su alcune delle pratiche dannose, figlie di politiche tradizionaliste e conservatrici, che fanno leva su un clima di disinformazione e arretratezza, che vengono imposte al corpo femminile. Così facendo, si vuole mettere l’accento sulla condizione di autonomia e libertà del corpo femminile, direttamente correlata ai principi di indipendenza e benessere. Col supporto di dati e storie passate e attuali, l’obiettivo è quello di sensibilizzare e ispirare una riflessione critica su questo tema.
2. Autonomia e libertà di scelta
“Il mio corpo è mio”: quante donne e ragazze si trovano nella posizione di poterlo affermare liberamente?
Ogni persona ha diritto all’autonomia del proprio corpo. Eppure, a milioni di donne, la libertà di fare le proprie scelte per il proprio corpo, viene negata. Tale privazione lascia campo libero a diseguaglianze e violenze. Gli interventi che impediscono alle donne e alle ragazze adolescenti di godere dell’autonomia e dell’integrità corporea sono molteplici: tra questi, la mutilazione genitale, le sterilizzazioni forzate e l’isterectomia. Tutte queste pratiche, in alcune zone geografiche, sono il riflesso dei sistemi patriarcali di potere, di disuguaglianza di genere e di disempowerment. Le norme discriminatorie sono emesse da comunità e possono essere confermate e rafforzate da istituzioni politiche, economiche, legali e sociali. Nel mondo, in media, le donne godono di appena il 75% dei diritti degli uomini (Segretario Generale delle Nazioni Unite, 2020). Come illustrato nella Figura 2, le informazioni fornite, finora da 57 Paesi, mostrano che solo circa la metà delle ragazze e delle donne è in grado di prendere le proprie decisioni per l’autonomia e l’integrità del proprio corpo, nonostante gli accordi e le dichiarazioni internazionali che cristallizzano l’importanza della salute delle donne e dell’empowerment in generale. Le decisioni sui corpi delle donne sono spesso prese o influenzate da altri, che si tratti del partner, della famiglia, della società o addirittura del governo. Il sistema di sorveglianza e controllo sul ruolo riproduttivo delle donne ha contribuito a diffondere e radicalizzare convinzioni errate, regole e consuetudini tradizionali, culturali e religiose, imposte su ogni singola parte del corpo femminile.
Fig.2: Percentuale di donne di età compresa tra i 15 e i 49 anni che prendono le proprie decisioni in materia di salute e diritti sessuali e riproduttivi (compresa la decisione sulla propria assistenza sanitaria; la decisione sull’uso della contraccezione; e la possibilità di dire no al sesso), per regione SDG, dati più recenti 2007-2018 (come risulta da dati report UNFPA)
3. Pratiche di controllo: le mutilazioni genitali femminili
“Il corpo diventa gradualmente relazionale e territorializzato in modo specifico. Lo stesso per il posto. Entrambi sono fatti di relazioni, dentro e fuori di sé, territorializzato da scale, confini, geografia, geopolitica. Corpi e luoghi sono così prodotti da certe iscrizioni spaziali e da rapporti di potere.” (Nast e Pile, 1998)
Mutilazioni genitali femminili (MGF), sterilizzazioni forzate, isterectomia, sono tra le pratiche più dannose e purtroppo diffuse che minacciano la salute e annientano l’autonomia del corpo femminile. Si tratta di fenomeni sommersi, che non sono raggiunti da informazioni e sensibilizzazioni appropriate e doverose. Non solo non vi è una percezione e una conoscenza precisa delle azioni di mutilazioni che vengono effettuate, ma anche la formazione, le forme e le organizzazioni sanitarie di supporto risultano insufficienti e inadatte rispetto alle diverse conseguenze fisiche e psicologiche che variano a seconda dell’esperienza individuale e della tipologia di intervento subito. Se tra gli effetti immediati si riscontrano rischi di emorragia, lesioni al tessuto genitale circostante e addirittura il pericolo di morte, sussistono anche numerose complicanze sul lungo periodo: un maggiore pericolo durante il parto, l’infertilità, infezioni ricorrenti, complicanze a livello urinario e problemi afferenti alla sfera sessuale. Da non dimenticare, poi, le inevitabili conseguenze psicologiche, tra cui depressione, ansia e stress post-traumatico.
Si stima che 4 milioni di ragazze siano ancora sottoposte a MGF (come risulta dai dati UNFPA), un numero probabilmente sottostimato. In diverse comunità, la mutilazione genitale femminile ha una connotazione identitaria legata alla tradizione di una cultura patriarcale. Viene tramandata di generazione in generazione e condannare questa pratica, spesso considerata rito di passaggio all’età adulta, può quindi comportare la sottrazione di una ragazza al sistema culturale di riferimento della propria comunità, esponendola al rischio dell’esclusione sociale. I motivi che spingono all’attuazione di questa pratica sono molteplici, proprio come le conseguenze fisiche e psicologiche che donne e ragazze devono successivamente subire. Spesso, le mutilazioni sono effettuate per conservare la verginità delle ragazze. Talvolta, questi interventi sono associati al tentativo di rispettare un’ideale di bellezza che prevede l’eliminazione delle parti del corpo femminile considerate impure. In alcune comunità si crede che le mutilazioni garantiscano una migliore igiene degli organi genitali. Alcuni genitori sottopongono a questa pratica le proprie figlie per motivi economici.
Nelle comunità in cui le MGF afferiscono alla tradizione, infatti, le possibilità di matrimonio aumentano e, se il matrimonio implica una transazione economica, la cifra può aumentare se la sposa ha subito l’intervento. Ulteriore aggravante si registra in contesti di crisi umanitarie, durante i conflitti armati o le crisi sanitarie, quando i programmi per abolire o prevenire le MGF sono spesso esclusi dai piani di risposta umanitaria. Durante la pandemia da Covid-19, ad esempio, la maggior parte dei Paesi in cui la MGF è prevalente, non ha dato priorità all’eliminazione di questa pratica nei piani nazionali di risposta umanitaria, nonostante le diverse indicazioni sul rischio di un suo aumento (UNFPA e UNICEF, 2020). Secondo le stime dell’UNFPA, la pandemia potrebbe aver causato 2 milioni di casi di MGF, con una riduzione di un terzo dei progressi verso l’obiettivo 5.3 dell’Obiettivo di Sviluppo Sostenibile di eliminare le MGF entro il 2030 (UNFPA, 2020b).
4. Pratiche di controllo: le sterilizzazioni forzate
Un ulteriore strumento di controllo del corpo femminile, che incide sulla sfera dei diritti riproduttivi, è la sterilizzazione forzata, un’operazione principalmente impiegata per gestire politicamente le nascite. Tali interventi intendono tecnicamente legare le tube o asportare l’utero femminile e le maggiori vittime coincidono con il profilo di donne giovani, indigene, immigrate, afroamericane o disabili. Nella maggior parte dei casi si fa riferimento a pratiche eseguite abusivamente, ma in diverse occasioni questo tipo di intervento viene perpetrato nel rispetto di normative nazionali inerenti alla salute riproduttiva. Nel 1997, il quotidiano liberale svedese, Dagens Nyheter, riportò la notizia che tra il 1935 e il 1975 migliaia di donne svedesi erano state vittime di sterilizzazioni forzate, in conformità con la legislazione vigente. Tra il 1997 e il 1999, in Perù sono state depositate più di 90 denunce sulle violazioni dei diritti riproduttivi, che hanno coinvolto 157 persone (138 donne e 19 uomini): 17 di queste sono morte, mentre le restanti hanno subito complicazioni dopo l’intervento[3]. In Perù, come in Brasile, si sostiene che la sterilizzazione sia stata imposta a donne povere e indigene senza tener conto di eventuali divieti legali contro la procedura. Allo stesso modo, non bisogna dimenticare le numerose operazioni di sterilizzazioni forzate eseguite nella storia nell’area euro-atlantica.
Sotto il regime di Adolf Hitler, tali pratiche riflettevano la teoria della razza superiore, mentre negli Stati Uniti emblematico è il caso giudiziario Buck vs Bell. Il caso coinvolse Carrie Buck, una ragazza di 17 anni con una situazione economica precaria, che nel 1927, in Virginia, subì una sterilizzazione forzata per ordine del tribunale, dopo aver partorito una bambina illegittima. Il suo caso arrivò alla Corte Suprema, che decise di confermare la sentenza, facendo di Carrie la prima donna a essere sterilizzata in Virginia sulla base della legge sulla sterilizzazione forzata, fondata su premesse eugenetiche. A sua volta, la madre, Emma Buck, era stata accertata come persona “debole di mente” e “sessualmente promiscua”, condizioni a causa delle quali, subì un ricovero in un istituto psichiatrico, al Virginia’s Colony for Epileptics and Feebleminded. Allo stesso modo, sua figlia Carrie, subito dopo il parto, fu ricoverata nello stesso istituto, con una diagnosi che riconobbe, anche alla ragazza, i presunti problemi mentali della madre e che non tenne conto del fatto che la gravidanza di Carrie fu il frutto di una violenza perpetrata da un componente familiare.
5. Pratiche di controllo: le isterectomie
Infine, l’isterectomia è la procedura chirurgica ginecologica più comunemente eseguita. Si tratta di un intervento chirurgico di rimozione dell’utero. Tale pratica è un trattamento preventivo per il cancro all’utero e funzionale per varie condizioni uterine non cancerose che possono produrre livelli spesso invalidanti di dolore, disagio, sanguinamento, stress emotivo e sintomi correlati. Accanto alle operazioni legittime, però, una parte delle isterectomie non viene eseguita a fini medici, ma per ragioni ingiustificate e non necessarie. L’isterectomia è l’intervento chirurgico maggiormente eseguito, per motivi non sanitari, sulle donne in India. Un reportage dell’emittente francese France Télévisions ha riportato il caso del distretto di Beed, in India: nella maggiore area di produzione di zucchero di canna, il 37% delle lavoratrici, a volte molto giovani, hanno subito un’operazione di isterectomia. Le ragioni dell’intervento sono da rintracciare nella volontà dei mukadam (gli agenti di reclutamento) per una loro più efficace produttività, poiché tale pratica genera una menopausa precoce e provoca un invecchiamento prematuro. Un’operazione come questa, infatti, viene subita da donne estremamente giovani, che raramente sarebbero altrimenti sottoposte a un tale intervento. Bambini, mestruazioni, dolori e possibili insorgenze di cancro costituiscono un limite al potenziale produttivo totale di una donna lavoratrice. Per questa ragione, sotto pressioni di natura economica e lavorativa, le donne sono spinte dai loro reclutatori, e talvolta dai loro partners, a sottoporsi a tale operazione. In cambio di un lavoro (il più delle volte forzato e non tutelato) e di una efficace prestazione, il corpo femminile diventa il sacrificio da offrire per una condizione lavorativa più “adeguata”, ignorando le conseguenze fisiche e psicologiche, tutt’altro che proporzionali.
6. Il quadro normativo di riferimento
È acclarato che tali pratiche sono una violazione dei diritti umani delle donne e delle bambine e una forma estrema di discriminazione e violenza rivolta esclusivamente a queste due categorie. I diritti riproduttivi riconoscono la libertà e la sicurezza riproduttiva, ma implicano, allo stesso tempo, il riconoscimento e il rispetto di altri diritti che difendono la vita privata e familiare, la salute, l’accesso all’informazione e all’istruzione: diritti discussi e difesi in diverse conferenze internazionali. Tra queste, è doveroso citare la Piattaforma d’azione di Pechino del 1995, che riconosce l’importanza di programmi educativi a sostegno delle donne per lo sviluppo della loro autostima e delle conoscenze, affinché siano in grado di decidere per la propria salute, sessualità e fertilità. In essa si propone di eliminare atteggiamenti e comportamenti dannosi, incluso la MGF, tutti riconosciuti come violazioni dei diritti umani. La Conferenza del Cairo per l’eliminazione delle MGF (2003), sancisce lo sforzo, da parte di governi, organizzazioni internazionali e nazionali, rappresentanti della società civile e leaders religiosi, di promuovere strumenti legislativi finalizzati al contrasto e alla prevenzione di tale pratica. Nella dichiarazione si fa esplicito riferimento alle MGF come violazione della dignità delle donne e dei diritti fondamentali. Allo stesso modo, è possibile riscontrare il riconoscimento di questi diritti in dichiarazioni e trattati internazionali.
La Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione contro le donne (CEDAW), ad esempio, stabilisce all’art 5 che gli Stati parte si impegnino nell’eliminazione dei “pregiudizi e delle pratiche consuetudinarie o di altro genere che siano basate sulla convinzione dell’inferiorità o della superiorità dell’uno o dell’altro sesso o sull’idea di ruoli stereotipati degli uomini e delle donne”. Il Protocollo alla Carta Africana sui diritti dell’uomo e dei popoli, riguardo i diritti delle donne in Africa, è stato adottato dall’Unione Africana l’11 luglio 2003; l’art. 5 del Protocollo di Maputo condanna formalmente e per la prima volta, tutte le pratiche tradizionali lesive dell’integrità fisica e psichica delle donne.
7. Conclusioni
Nella storia, troppo spesso le donne non sono state riconosciute legittime proprietarie dei loro corpi. Un’autonomia naturale e lecita che viene negata e minacciata da pratiche disumane che trasformano i corpi in vittime di strumenti politici e di controllo. Riappropriarsi della libertà di scelta e di autonomia, significa non solo prendere decisioni fondamentali riguardo al proprio corpo, ma progredire in materia di salute e istruzione, reddito e sicurezza. L’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile contiene, al quinto posto, l’obiettivo della parità di genere che racchiude l’accesso universale alla salute e ai diritti sessuali e riproduttivi. Una donna che ha il totale controllo sul proprio corpo ha maggiori probabilità di essere autonoma in altre sfere della sua vita e di favorire un ambiente di maggiore giustizia e benessere a vantaggio di tutti. Per acquisire consapevolezza dei diritti e dei rischi per la propria salute, sono necessari investimenti in progetti sociali ed economici, servizi legali e sanitari, educazione, informazione e comunicazione, non solo rivolti alle donne, ma alle comunità nella loro interezza, inclusi i decision makers.
È dunque importante creare i presupposti per un ambiente sociale dove le donne possano sentirsi inserite e rispettate, secondo una logica di ascolto e di supporto che permetta di mettere in pratica azioni di solidarietà e condivisione. In questo, appare cruciale il ruolo dell’educazione, e quindi delle istituzioni scolastiche ed universitarie, così come il contributo delle realtà di studio e di ricerca, per ampliare le possibilità di promuovere attività di laboratorio e di approfondimento. Porre al centro del dibattito pubblico e privato la correlazione tra bodily autonomy e sviluppo, agevolerebbe l’elaborazione e la valorizzazione del tema stesso. Oggi, il mondo digitalizzato ci tende una mano con la capacità amplificatrice dei social networks attraverso le campagne di sensibilizzazione, le ricondivisioni e i like. Al pari dei cambiamenti climatici e delle disuguaglianze, una forte e convinta mobilitazione “dal basso” svolgerebbe un compito essenziale per attirare attenzione e azioni concrete dal mondo politico. Oggi più che mai, di fronte alle diverse sfide che ci attendono, forte è il richiamo ad un massimo impiego del potenziale di tutti, compreso quello delle donne.
Ma un ultimo interrogativo: se le donne non sono, innanzitutto, indipendenti e libere nei confronti dei loro corpi, come potranno mai esserlo appieno in altri ambiti?