I risultati di un’indagine della Commissione del Senato sulla violenza di genere. Quando ci si trova di fronte a donne assassinate neanche i numeri sono neutri. Le parole lo sono ancora meno. E questo vale anche per il linguaggio delle sentenze. Non è raro, infatti, che tra commi e articoli del codice penale si facciano largo stereotipi e pregiudizi. E quindi può capitare che il “delirio di gelosia” diventi addirittura un’attenuante in un caso di omicidio.
A rivelarlo è un’indagine svolta dalla commissione del Senato sul femminicidio e la violenza di genere, che ha analizzato i casi che si sono verificati nel biennio 2017-2018 prendendo in considerazione non soltanto i numeri del fenomeno, ma anche il linguaggio usato nei verbali della polizia giudiziaria e nelle sentenze dei giudici.
“Calmare gli animi” – Una delle criticità più evidenti negli atti della fase investigativa è l’insufficiente ricerca del movente di genere, ossia di un eventuale rapporto di sopraffazione dell’assassino nei confronti della vittima.
In alcuni dei casi considerati emerge che chi fa le indagini non riesca a distinguere tra violenza domestica e lite familiare e così, nelle annotazioni di servizio, capita di leggere che l’intervento è servito a “calmare gli animi”. Insomma, le violenze sono spesso ridimensionate a conflitti familiari, e accade che le forme ossessive di controllo da parte degli uomini nei confronti delle loro partner siano banalizzate come “gelosia”. Altro fattore non secondario è che spesso i metodi investigativi utilizzati sono gli stessi applicati a qualsiasi omicidio e hanno l’obiettivo di verificare la dinamica della morte come fatto singolo, come un episodio, e non come esito di una lunga sequenza di aggressioni.
Nei verbali di polizia giudiziaria le violenze sono spesso ridimensionate a conflitti familiari – Così, anche se nella maggior parte dei casi analizzati l’uomo ha dichiarato alla polizia giudiziaria che la moglie non voleva cucinare o voleva chiedere la separazione, queste affermazioni non sono state considerate come segni di un clima di violenza e sopraffazione.
Nell’indagine viene per esempio raccontato il caso di un agente delle forze dell’ordine che, sollecitato ad assumere provvedimenti, ha pensato che bastasse prendersi un caffè con l’uomo e invitarlo “ad avere pazienza” per evitare che si verificasse un dramma. E, invece, a distanza di pochi mesi l’autore delle violenze ha ucciso le due figlie e sparato alla moglie. Nella relazione di servizio redatta dopo la strage, la polizia giudiziaria, per descrivere quanto accaduto nei mesi precedenti, ha continuato a usare termini come parti in dissidio, conflittualità coniugale, e “comunque non oltre la media riscontrabile in controversie di questo tipo”.
Le sentenze – Nelle successive fasi del procedimento le cose non cambiano. Di alcuni casi si è parlato perché le sentenze hanno fatto molto discutere.
Nell’ottobre 2018 Cristina Maioli è stata uccisa dal marito a coltellate. L’accusa ha chiesto l’ergastolo, ma la corte di assise di Brescia ha assolto l’uomo perché incapace di intendere e volere a causa di quello che l’avvocato della difesa ha definito “un delirio di gelosia”. Nel marzo 2019 la corte d’appello di Bologna ha quasi dimezzato la pena a Michele Castaldo, omicida reo confesso di Olga Matei, strangolata, perché ha agito “in preda a una tempesta emotiva”. In questo caso a cambiare l’esito della vicenda è stata la cassazione, che ha annullato lo sconto di pena.
L’analisi della commissione del senato dimostra che non si tratta di casi isolati. Dalla lettura di gran parte delle sentenze esaminate, per esempio, emerge che la passata condotta violenta dell’uomo nei confronti della donna viene derubricata a “relazione burrascosa, tumultuosa, turbolenta, difficile, instabile, non tranquilla, caratterizzata da conflittualità domestiche, tutt’altro che felice”, e questo anche se in precedenza la vittima aveva presentato denunce per maltrattamenti.
C’è poi un uso distorto della sfera dei sentimenti. In alcune sentenze il femminicidio viene considerato una conseguenza di un impulso spiegato facendo ricorso a un linguaggio emotivo. Spesso, poi, capita che le vittime siano chiamate per nome, mentre gli imputati per cognome: una differenza di trattamento che ha implicazioni non solo linguistiche e che non ha alcun fondamento giuridico.
Le donne assassinate inoltre non vengono descritte quasi mai in relazione al contesto sociale o professionale, ma per lo più in relazione al ruolo familiare e dunque come madri, mogli o figlie. Le vittime di femminicidio che svolgevano attività di prostituzione spesso vengono indicate soltanto come prostitute, senza nome né cognome.
Per l’autore dell’omicidio le cose funzionano al contrario. Così, se c’è una condizione di disagio sociale, come per esempio tossicodipendenza o dipendenza da alcol, ludopatia, perdita del lavoro o malattia, questa circostanza viene messa in evidenza, quasi a voler giustificare i gesti del colpevole. Un altro dato interessante che emerge dall’analisi della commissione del senato è l’utilizzo frequente di un linguaggio fortemente vittimizzante nei confronti delle madri anziane uccise dai figli, spesso definite simbiotiche o oppressive.