La Banca d’Italia nella relazione presentata ieri ha sottolineato il problema della bassa occupazione femminile e ha segnalato la strada che il nostro Paese dovrebbe seguire, “interventi mirati a sostenere l’offerta di
lavoro delle donne, rafforzando la disponibilità di servizi di cura per l’infanzia e per gli anziani non autosufficienti, favorendo il coinvolgimento dei padri nella cura dei figli e promuovendo il reinserimento professionale delle donne che hanno lasciato il lavoro da più tempo”.
D’altro canto la situazione delle donne è particolarmente critica. Poco più di metà delle donne lavora, l’incremento occupazionale c’è, ma la crescita si concentra soprattutto tra le donne con più di 50 anni. La “child penalty” è particolarmente grave. Due strumenti sono imprescindibili per alleviare il problema del sovraccarico di lavoro familiare sulle spalle delle donne: sviluppo di servizi di qualità per infanzia, anziani e disabili e misure per favorire una redistribuzione dei carichi di lavoro familiare all’interno della coppia.
Tutt’altre priorità si è dato il governo Meloni fino a oggi. Sui servizi per l’infanzia la reintegrazione dei fondi del Pnrr “provvisoriamente” tagliati sugli asili nido non è stata fatta. Siamo sempre al 28% di bimbi iscritti al nido, di cui la metà in nidi privati e con tasso di copertura molto eterogeneo a livello territoriale, con il Mezzogiorno penalizzato. Eppure per il 2026 dovremmo arrivare a quella fatidica soglia del 33% che era obiettivo europeo per il 2010, con 16 anni di ritardo. Ci arriveremo? Dubito fortemente, tranne che non aiuti il governo un ulteriore calo delle nascite, che farebbe incrementare l’indicatore, anche con bassa crescita dei posti disponibili nei nidi, ma perché diminuisce il denominatore, cioè il numero di bimbi da O a 2 anni. Eppure il governo Draghi aveva definito come livello essenziale delle prestazioni il 33% di tasso di copertura dei nidi in tutti i Comuni, prevedendo stanziamenti anche per le spese correnti.
Per quanto riguarda lo sviluppo di servizi di cura per gli anziani non autosufficienti, la riforma è stata fatta, peccato che non siano stati stanziati i fondi necessari. Quindi, tutto fermo e rimandato, tranne che un piccolo stanziamento per un numero di persone esiguo rispetto ai bisogni. E così ci rimettono sia le donne non autosufficienti che sono la maggioranza degli anziani in queste condizioni, sia le care giver che non saranno supportate da servizi pubblici di qualità adeguata.
Non parliamo del coinvolgimento dei padri nella cura dei figli. Siamo fermi a 10 giorni di congedo di paternità.
Avremmo bisogno di un congedo ben più ampio, quanto a numero di giorni, se veramente puntiamo a una condivisione delle responsabilità genitoriali. Ma non sembra essere questo obiettivo del governo Meloni.
E su questo fronte ciò che ci aspetta domani è ancora peggiore, se solo ci atteniamo al discorso di insediamento della presidente del Consiglio, dove segnalava di voler «lavorare progressivamente per introdurre il quoziente familiare». L’esatto contrario di quello che ha affermato ieri il Governatore della Banca d’Italia Fabio Panetta nelle sue considerazioni finali, quando raccomandava, per aumentare l’occupazione, di «ridurre i disincentivi al lavoro del secondo percettore di reddito della famiglia».
Ebbene, l’introduzione del quoziente familiare scoraggerà il lavoro femminile, più di quanto non sia scoraggiato ora.
Avrebbe due effetti, riduzione del gettito fiscale complessivo e scoraggiamento del lavoro femminile. Con quella misura si rafforza una tipologia di famiglia con una divisione tradizionale dei ruoli, e si penalizzano le famiglie con una divisione dei ruoli più simmetrica, ma dove comunque, le donne guadagnano meno degli uomini e dovrebbero pagare una tassa superiore sul loro già più basso reddito, tale da disincentivare loro dal lavorare. E in un Paese come il nostro non ce lo possiamo permettere.
La non valorizzazione delle energie e della creatività dei cittadini, ed in particolare delle cittadine, la compressione dei loro diritti, l’assenza di una visione strategica di libertà quanto perequativa, finiscono inevitabilmente per penalizzare non solo la democrazia, ma la stessa crescita economica.
C’è bisogno di una strategia che metta al centro le donne con tutte le loro differenziazioni, non solo le madri con due o più figli. Di una strategia che assecondi il loro desiderio di realizzarsi su tutti i piani. Vanno respinti gli attacchi alla libertà di scelta, come quello che permette alle regioni di far entrare nei consultori le organizzazioni antiabortiste più estreme, per convincere le donne a non abortire. Sono le donne a dover scegliere le loro vite e nessun altro. La libertà femminile deve essere il nostro obiettivo strategico.
Sempre.
La Repubblica, 01-06-2024