Sto allevando mio figlio come un sultano di Anna Del Bo Boffino, ‘Amica’ dalla rubrica da “donna a donna” 1974

da | Feb 11, 2010 | Scritti d'archivio

“Col mestiere che fai mi dicono – dovresti uscire di più”. Forse è vero. Questa vita che faccio, tutta lavoro, famiglia, casa, alla fine può risultare meschina. Quando immaginavo, del resto, il mestiere di “giornalista”, o quando ascolto qualche collega “che esce”, mi vergogno un po’ del mio tran-tran quotidiano. Poi, naturalmente, mi passa. Mi passa anche perché non c’è giorno che non mi capiti di fare qualche verifica o addirittura qualche scoperta. Il mio viaggio intorno alla “dimensione -donna” non è mai finito, e non finisce di meravigliarmi. E che cosa scoprirei se vivessi come un uomo, con autonomie e privilegi maschili?
Quando leggo un importante, e illuminante, inchiesta sociologica sul doppio ruolo della donna che lavora e, nel bel mezzo della statistica, mi viene in mente, con un sussulto, che in casa non c’è più frutta e che devo uscire in tempo per trovare aperto il supermercato che chiude alle sette, sperimento sulla mia pelle i condizionamenti del doppio ruolo in termini che nessuna statistica mi potrebbe mai dare. Quando seguo un convincente discorso (che condivido pienamente) sulla necessità di allevare maschi e femmine senza distinzione di sesso e mi ricordo che quella stessa mattina mi sono alzata presto per preparare il caffellatte a mio figlio (maschio) e gli ho perfino (orrore!) lucidato le scarpe sporche di tre giorni, lo sconforto mi assale. Ecco come -mi accuso – sto allevando un futuro sultano, che pretenderà analoghi servizi da sua moglie, e renderà infelice un’altra poveretta…Eppure – mi dico – questo ragazzo non lo vedo fino a stasera; se parte di casa con caffelatte caldo nello stomaco e le scarpe lucide ai piedi forse si porta dietro una sensazione di appoggio, di sicurezza, nella sua giornata di studente in crisi in una scuola in crisi…Tutta retorica mammista – mi rimprovera la femminista, sempre vigilante dentro di me -.

Se nessuno lo servisse, imparerebbe, il “do-it-yourself” condizione indispensabile all’autonomia “vera”. Ma io so benissimo che il caffelatte forse, e non spesso, arriverebbe a scaldarselo, ma le scarpe non se le luciderebbe proprio mai; a questi ragazzi piace troppo andare in giro conciati come barboni e poi, si sa, i professori li guardano storto; e il terrore più nero è che a forza di farli, i barboni, lo diventino sul serio…Puri ricatti sentimentali – commenta la femminista, ironica – che fai a te stessa…Eppure io so che questo rituale mattutino, come la cena della sera, preparata in quattro e quattr’otto, o le commissioni del sabato, mi danno una pace, una sensazione di “cosa giusta al posto giusto” che nient’altro mi sa dare. Questo pezzetto di vita femminile strappato al ritmo diverso delle mie giornate è la garanzia che qualcosa mi lega ancora al passato, ci sono radici di benevolenza, disponibilità materne ancora vive, dentro di me, assieme al giusto desiderio che la condizione femminile cambi, e presto. Forse la generazione dopo la mia troverà altri modi di essere benevola, disponibile, senza perdersi nella dissociazione emotiva, mentale. Per noi, per me, è ancora indispensabile somigliare in qualche cosa alle mamme, alle nonne.

Commento di Marta Ajò

Non entriamo nel merito del riconoscimento dell’uomo ‘sultano’ che da secoli convive con il desiderio di non esserne le schiave.
Quello che oggi mi sembra valga la pena riflettere è se sia davvero “la cosa giusta al posto giusto” preparare la colazione o il pranzo  per rimanere legate al passato o ripercorrere i comportamenti delle nostre madri e delle nostre nonne per sentirsi vive nel presente.
Possibile che il giusto desiderio che la condizione femminile cambi, anche oggi, debba essere strappato nella quotidianità attraverso ritmi defatiganti?