“Un nuovo Corpo dello Stato. La polizia femminile in Italia (1961-1981)”, di Liliosa Azara,  ed.Viella 2023

da | Apr 11, 2023 | Consigli di lettura

Recensione al volume di Anna Maria Isastia 

Liliosa Azara insegna Storia delle donne all’Università Roma Tre insieme a Storia contemporanea perché la storia delle donne in Italia,- a differenza di molti altri paesi occidentali -, non ha ancora una sufficiente dignità scientifica. È autrice di L’uso “politico” del corpo femminile. La legge Merlin tra nostalgia, moralismo ed emancipazione (Carocci 2017); I sensi e il pudore. L’Italia e la rivoluzione dei costumi (1958-68) (Donzelli 2018). È curatrice del volume La donna delinquente e la prostituta. L’eredità di Lombroso nella cultura e nella società italiane (Viella 2019).
Questo  volume dunque segue un coerente percorso scientifico e intellettuale dell’A. che, dai lavori sul corpo delle donne prostitute, arriva a studiare il Corpo che nasce anche a seguito della legge Merlin.

Nel 1961 entrano in servizio le prime donne del nuovo Corpo di polizia femminile, istituito su proposta della democristiana Maria Pia Dal Canton e sciolto nel 1981. L’Italia si allinea così con ritardo alle nazioni europee ed extra europee dove la creazione di analoghi corpi di polizia è stata la risposta alla paura generata dalla tratta delle bianche, dilagante nel periodo tra le due guerre mondiali.
Il nuovo Corpo assume in Italia una fisionomia distinta all’interno della polizia, come esito del compromesso tra un principio di uguaglianza e di piena cittadinanza e le diffuse forme di resistenza istituzionale e sociale che ne scoraggiano l’istituzione. Nonostante abbia attraversato i decenni Sessanta e Settanta – tra profonde mutazioni, rivoluzioni sociali, ma anche persistenti retaggi etico-giuridici e morali – la storia della polizia femminile è rimasta a lungo nell’ombra. Questo volume ne ripercorre le vicende, dalla costituzione allo scioglimento, con l’intento di restituire alla storia un tema che non poco ha contribuito al processo di emancipazione delle donne italiane.

Ho letto questo volume con un interesse crescente – trovandomi a confrontare continuamente quello che leggevo con i risultati di alcuni miei studi del passato .Sul piano generale confrontando la storia delle donne in Italia nell’arco del ‘900 con quella delle donne di altri paesi, ma anche con storie più puntuali. In filigrana – dietro la battaglia per aprire alle donne l’accesso alla polizia di stato -riconoscevo i lunghi dibattiti contro l’ingresso delle donne in magistratura e quelli molto più lunghi e complessi a favore e contro l’ingresso delle donne nelle FFAA durati oltre mezzo secolo.

Da una parte la costituzione italiana che dal 1948 – con gli artt. 3, 37, 51 – affermava che non esistevano differenze né discriminazioni tra uomini e donne. Dall’altra la realtà di divieti e preclusioni che hanno avuto bisogno di lunghi dibattiti in parlamento e nel paese per essere superati. Pensiamo solo alla legge del 6 febbraio 1963 che ha aperto finalmente alle donne l’accesso a tutti i concorsi per la dirigenza dello Stato (magistratura, carriera prefettizia e al ministero degli esteri) o la legge Anselmi del 1977 sulla ‘parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro’ che era già nella carta costituzionale. In questo contesto si inserisce la storia dell’ingresso delle donne in polizia affrontato da Liliosa Azara con una incredibile attenzione a tutta la documentazione esistente (dalle carte d’archivio agli articoli di giornale, passando per leggi e regolamenti). L’argomento è affrontato da molti punti di vista: storico, giuridico, sociologico, antropologico, criminologico, di genere.

Mi è parso molto interessante il fatto che il primo stimolo ad una presenza femminile in polizia -in Italia- sia venuto dal mondo anglosassone: in questo caso dal Governo militare alleato che occupava Trieste nel dopoguerra. Nel 1947 venne introdotta una sezione di donne poliziotto con il compito di occuparsi di prostituzione, assistenza a donne bisognose e bambini abbandonati. Anche nel caso delle FFAA erano stati gli Alleati occupanti che avevano sollecitato la creazione di un primo nucleo di donne in divisa,  il CAF (Corpo di assistenza femminile). In entrambi i casi si trattò di esperimenti poco apprezzati e molto criticati.

La ricerca di Azara si apre con una panoramica del contesto internazionale. Qui nei paesi più avanzati,  come quelli del nord Europa, gli Stati Uniti, la Gran Bretagna, la Germania etc. il ruolo delle donne poliziotto è maggiormente accettato. Ma è interessante l’annotazione dell’A. sul fatto che negli USA negli anni 70 la virilità era l’essenza del lavoro in polizia; le donne venivano accolte e accettate più agevolmente nella professione se negavano la loro identità. Qualcosa di analogo è successo anche in Italia dove le donne che finalmente sono entrate in quel tempio maschile che era la magistratura nel 1965, per anni si sono negate come donne, nascoste sotto la toga e l’anonimo termine di “magistrato”.

Sono deputate della Democrazia cristiana quelle interessate alla genesi della legge e poi ai successivi progetti di modifica. Il primo progetto di legge di Maria Pia Dal Canton è del 1955 e non è semplice arrivare alla legge 1083 del 7 dicembre 1959 che prevede che solo donne nubili o vedove possano fare domanda per il concorso per il quale è prevista la laurea o un diploma di scuola superiore. Interessante ricordare che Oscar Luigi Scalfaro cercò di affossare il disegno di legge in tutti i modi tentando anche di far inserire nella legge il fatto che le donne non dovevano avere figli a carico (p. 85).

La convivenza tra poliziotti e poliziotte (che sono 553 a partire dal 1961) non fu semplice, e il vortice di circolari e relazioni degli anni successivi è un chiaro segnale delle tante criticità esistenti.Il Corpo di polizia femminile dipende dalla Divisione di polizia amministrativa. Solo dal 1972 nasce un Ufficio di polizia femminile. Ci si aspetta che le donne svolgano azioni di prevenzione e assistenza sociale e da molti sono percepite come assistenti sociali in divisa. Si occupano della tutela del lavoro delle donne e della tutela del lavoro dei minori.

Sono rimasta particolarmente colpita da quanto Liliosa Azara scrive a p. 104 “Un particolare cenno merita il ruolo della polizia femminile nell’ambito della prevenzione e repressione dei reati contro la moralità e il buon costume, nello specifico della prostituzione”. Stiamo parlando degli anni ‘60 del ‘900 ma quello che segue è identico a quanto denunciato a fine ‘800 dai risultati di una Inchiesta sulle donne prostitute fortemente voluta da Ernesto Nathan e da lui riassunta nel volume Le diobolarie e lo Stato.

Nelle circolari di sessanta anni fa si raccontava dell’attività di “mediatorato” di loschi figuri per il collocamento di personale domestico e lavoratori dello spettacolo (vietata ma molto praticata) che costituivano in realtà una rete attraverso cui reclutare donne giovani e inesperte da avviare alla prostituzione. Individui senza scrupoli aspettavano all’arrivo dei treni le lavoratrici domestiche, giovani sprovvedute e semianalfabete, che arrivavano dalle campagne e le irretivano. Nello stesso modo cento anni prima accadeva all’arrivo dei calessi dalle campagne in città. Anziane donne dall’aspetto tranquillizzante affiancavano le ragazzine analfabete e sperdute, con in mano un pezzo di carta con  l’indirizzo della famiglia dove dovevano recarsi a servizio, e le conducevano direttamente nelle case di tolleranza dove ragazzine illibate  finivano registrate – con la connivenza dei questurini – come ‘notorie prostitute’.

Cento anni dopo si cercava di arginare il fenomeno grazie alla polizia femminile che vigilava nelle stazioni ferroviarie delle grandi città.
Nei casi in cui fossero implicati minori di 14 anni, non imputabili, la competenza esclusiva di polizia giudiziaria era del personale femminile che doveva appoggiarsi alla polizia maschile in tutti gli altri casi.
Il personale di polizia femminile – inquadrato nelle questure – era assegnato agli uffici di polizia per i minorenni, a quelli che si occupavano della stampa e dei manifesti e alle sezioni del buon costume delle squadre mobili.
Nel giugno del 1968 fu organizzato un viaggio in Inghilterra per un selezionato gruppo di poliziotte per un aggiornamento sul terreno. E’ molto interessante il giudizio delle inglesi sulle colleghe italiane di cui avevano apprezzato il profilo intellettivo ed estetico, mentre avevano notato “l’esile emancipazione, certificata dal fatto che erano state accompagnate da una delegazione maschile” (p. 173).

Le inglesi operavano da anni sul territorio mentre le colleghe italiane  avevano molte mansioni burocratiche, ma poche operative. Tra le inglesi non c’erano distinzioni di genere nell’assegnazione dei compiti, mentre in Italia c’era una evidente subordinazione delle donne agli uomini. Il confronto metteva a nudo le profonde differenze e la tanta strada da percorrere.
Le poliziotte furono attive nel campo dell’assistenza pubblica durante il terremoto della Sicilia occidentale, la sciagura del Vajont, l’alluvione di Firenze. A Montevago nel 1968 le sei poliziotte inviate si prodigarono con ogni mezzo  e nel 1969 ebbero la medaglia di bronzo al valore civile per l’opera di soccorso alle popolazioni colpite dal terremoto nella Sicilia sud occidentale.

Ho trovato molto interessanti le inchieste fatte dai periodici italiani nel corso degli anni ’70 per la mole di informazioni che ci forniscono. Nel 1971 il settimanale ‘Lo Specchio’ intervistò Romana Ricci, l’ispettrice che dirigeva l’Ufficio di polizia femminile di Roma, sui tanti casi di ragazze rintracciate dopo la fuga da casa; erano traumatizzate dalle esperienze vissute, ma detestavano chi le aveva ritrovate riportandole a casa. L’ispettrice parlava di insofferenza adolescenziale nei confronti di una educazione tradizionale giudicata fuori moda, ma denunciava l’estrema difficoltà a comunicare con queste ragazze perché in realtà le poliziotte condividevano i criteri educativi delle famiglie e dunque non erano in grado di creare empatia con queste minorenni. Le poliziotte dunque avevano un retroterra culturale di tipo tradizionale, ma il risultato di questo mancato dialogo portava spesso le ragazze negli istituti di correzione.
Interessante appare il confronto con analoghe interviste fatte alla polizia maschile. Il capo della buon costume della questura di Roma diceva che le ragazze scappavano per amore e sempre per amore spesso finivano per prostituirsi.
Molto più credibile quanto dice il capo della buon costume, che quindi capisce le situazioni più della poliziotta che dovrebbe aver avuto una preparazione mirata a donne e minori.Tra i compiti della polizia femminile (ispettrici e assistenti) c’era il contrasto alle tossicodipendenze – per combattere le quali 30 di loro avevano seguito corsi di specializzazione dedicati. Molte energie erano dedicate alla guerra alla pornografia e alla stampa pornografica; le poliziotte controllavano l’età di chi entrava al cinema, sequestravano giornali, cercavano di combattere in ogni modo la nuova libertà sessuale. Tutte attività marginali che infatti comparivano alla fine delle relazioni periodiche sull’attività della polizia.

“Negli anni settanta appare evidente la volontà dell’amministrazione di non alterare quella marginalità del ‘corpo’ femminile che fungeva da argine ad una eventuale/graduale erosione del potere maschile dominante nel mondo della polizia”  scrive Liliosa Azara.
Eppure la mentalità delle poliziotte -quale emerge da tutti i documenti dell’epoca- non avrebbe dovuto impensierire nessuno. Queste donne non sono toccate affatto dal femminismo e ripropongono il cliché di una cultura conservatrice, come appare evidente dalla sintesi di una conferenza tenuta a Catania da due ispettrici superiori nel 1975. Dai loro discorsi traspare la condanna delle ‘donne corrotte’, l’apprezzamento del modello delle donne del popolo e la convinzione che una donna deve obbedienza e collaborazione al marito.
Singolare la contraddizione tra il lavoro che avevano scelto e la sedimentazione culturale che manifestavano nei loro giudizi. Sono le prime ad essere entrate in un mondo di uomini -per svolgere un lavoro considerato da uomini- ma sembra che non ne abbiano affatto consapevolezza e ripropongono vecchi stereotipi di genere cui aderiscono con convinzione.

Ho trovato importante il paragrafo su ‘L’immagine ufficiale della poliziotta italiana tra contesto nazionale e dimensione internazionale’ (p.168-180) perché dalle risposte che il ministero dava alle tante domande dei questionari inviati da autorità straniere – interessate a conoscere il funzionamento della polizia femminile in Italia – emergeva la discriminazione di genere, presente nei requisiti per l’ammissione, nelle condizioni di impiego, nel livello dei compiti assegnati, nella formazione, nell’addestramento, nelle promozioni e nella progressione di carriera, nella retribuzione. Due esempi significativi: la polizia libanese pensò di mandare in Italia le candidate perché era assicurata la separatezza fisica tra maschi e femmine; da  Osaka arrivò una delegazione di 4 dirigenti apicali donna che voleva parlare con le ispettrici italiane, ma fu ricevuta da funzionari uomini.

Tutte le proposte e i progetti di modifica della condizione lavorativa delle poliziotte si scontrarono con il no delle autorità competenti, sia per motivi culturali sia perché a metà degli anni ‘70 era stato avviato un progetto di riforma per la smilitarizzazione e la sindacalizzazione della polizia. Ci provarono la senatrice Tullia Romagnoli Carettoni e il collega Luigi Anderlini ma senza successo. Tra i compiti della polizia femminile c’era la vigilanza sull’evasione dall’obbligo scolastico, irrilevante al nord ma dilagante al sud e nelle isole. Dalle relazioni periodiche su questo genere di attività emergevano sacche di povertà e marginalità soprattutto in Sicilia e in Calabria ancora alla fine degli anni ’60.
In provincia di Cosenza si denunciava la denutrizione dei neonati a causa dei lavori pesanti cui erano costrette le madri e il conseguente tasso di mortalità infantile altissimo nel primo anno di vita. Molti i bambini piccoli malati di malattie sessualmente trasmesse come conseguenza di esorcismi e sortilegi per la presunta guarigione di malattie veneree. I bambini non andavano a scuola ma venivano avviati precocemente al lavoro, molti gli illegittimi, molte le convivenze more uxorio in condizioni pesantemente degradate.
Non era migliore la situazione a Cagliari con un numero altissimo di analfabeti e semianalfabeti che mandavano i figli a lavorare già da piccoli. Alti anche i reati di incesto e violenza carnale; molti i bambini malati e deperiti, i bambini che convivevano con gli animali e che venivano tenuti in condizioni penose.

Nel 1978, per la prima volta, le donne parteciparono alle prove per il concorso bandito dal ministero dell’Interno per entrare nel ruolo dei funzionari con la qualifica di commissario. Erano state ammesse ‘con riserva’ in attesa del parere del Consiglio di Stato. Una donna vinse il concorso, ma la rivista “Polizia Moderna” ignorò la grande novità. Il direttore si difese dalle critiche che gli piovvero addosso affermando che la cosa era ‘naturale’, ricordando l’art. 3 della costituzione, il 37 sulla parità salariale, il 51 sulla parità di accesso ai pubblici uffici. In realtà avrebbe dovuto fare riferimento alla legge Anselmi relativa alla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di lavoro (legge n. 903 del 1977).

“Il percorso verso la parità di genere nella polizia, approdò nel 1981 alla riforma attuata con la legge 121. Il provvedimento disponeva lo scioglimento del corpo delle guardie di pubblica sicurezza e del corpo di polizia femminile, stabilendo che il relativo personale, unitamente a quello appartenente ai ruoli del personale civile della carriera direttiva dell’amministrazione di pubblica sicurezza, confluisse nei ruoli del personale della polizia di stato.
La riforma sancì la piena equiparazione tra personale femminile e maschile, con parità di retribuzioni, funzioni, trattamento economico e progressione di carriera. La legge rimosse gli ostacoli giuridici alla effettiva parità delle donne nel servizio di polizia e simbolicamente segnò la fine dell’uguaglianza condizionata alle attitudini di genere” (p. 202).