di Luisa Pogliana, pubblicato sulla rivista "Persone&Conoscenze" n. 132
RIFLESSIONI
La legge sulle donne nei Cda ha raggiunto l’obiettivo, senza però incidere sulla cultura aziendale. Le donne sono entrate soprattutto nei ruoli di controllo senza potere di indirizzo, ma le politiche aziendali
si fanno nel top management. Che resta sostanzialmente maschile. È più di una limitazione di libertà: in quei luoghi si forma la cultura aziendale che, se ci sono solo uomini, continua a essere maschile. Dobbiamo muoverci noi, per portare ai vertici più donne, ma con un pensiero differente da quello dominante. Cominciando a prendere consapevolezza delle resistenze anche dentro di noi.
Per molti anni Direttore Ricerche e Studi di Mercato in un grande gruppo editoriale, poi consulente sui mercati internazionali di quattro continenti. Ha collaborato con organismi professionali internazionali e due Commissioni Ue. È presidente dell’associazione Donnesenzaguscio per valorizzare le prassi innovative di donne manager. Su questo ha pubblicato Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende (2016), Le donne il management la differenza (2012) e Donne senza guscio (2009) tutti presso Guerini. Collabora a riviste professionali.
La legge che vincola i Consigli di amministrazione a una presenza minima di donne al 30% ha raggiunto l’obiettivo. Un segnale anche simbolico: si è cominciato a intaccare una barriera che esclude le donne. Tuttavia poco sembra aver in- ciso sulle prassi aziendali, per varie ragioni.
Innanzitutto non basta entrare nei Cda per prendere le deci- sioni che contano, perché nel Consiglio ci sono diversi ruoli: il potere di indirizzo sulle politiche aziendali spetta all’Ammi- nistratore Delegato, a qualche top manager, ai rappresentan- ti degli azionisti principali. Le altre figure –collegio dei sin- daci e consiglieri indipendenti nominati– hanno più che altro compiti di controllo del funzionamento dell’organizzazione. E proprio in queste cariche si concentrano –per oltre due ter- zi– le donne nei Cda. D’altra parte è anche un effetto della situazione a monte: se poche sono le donne che nelle aziende hanno il ruolo di Amministratore Delegato o top manager, poche saranno in quei ruoli anche nei Cda.
Inoltre il Consiglio (almeno in Italia, mentre in altri Paesi come gli Usa ha un ruolo più esteso) si occupa degli indi- rizzi e degli obiettivi dell’azienda. Tra i quali, trattandosi di aziende quotate in Borsa, prende molto spazio la compliance, ovvero rispondere al profitto richiesto dagli azionisti. Il Con- siglio non si occupa di cosa si farà in azienda per realizzare quegli indirizzi. Come fare si decide dentro l’azienda, nelle posizioni più alte del management.
Per questo una recente ricerca1 –tra le molte che da tempo se- gnalano che una presenza significativa di donne nei board fa
aumentare i profitti e la diversità arricchisce il management– ci dice però una cosa in più: questa influenza si ha soprattut- to quando c’è una presenza femminile consistente non solo nei Cda, ma anche nel top management. E per la stessa ragione alcune aziende già si pongono l’obiettivo di aumentare il numero di donne a quei livelli.
È questo il punto su cui riflettere, perché la prima linea manageriale è ancora ampiamente territorio maschile. Nemmeno lo sbandierato aumento dei profitti con l’inclusione di più donne ha prodotto grandi aperture alle carriere femminili nei livelli di vertice. La posta in gioco evidentemente è più alta.
È una questione di ricambio delle élite, che tendono a riprodursi uguali a se stesse. E dato che lì prevalgono gli uomini, le donne non hanno accesso a quei ruoli pur se ne hanno i requisiti. Anche l’accesso a ogni gradino della scala gerarchica per le donne è molto più faticoso: bloccandole fin dai livelli manageriali più bassi si ri- ducono di conseguenza le possibili aspiranti ai ruoli di vertice. Ma non c’è solo questa limitazione di libertà. Il danno è più vasto.
Un’altra cultura nei ruoli decisionali
In quei luoghi si forma la cultura aziendale e se lì ci sono quasi solo uomini questa continuerà a essere ma- schile. Una cultura che sminuisce il valore del lavoro delle donne con conseguenze pesanti nella loro vita. Per fare qualche esempio, la disparità retributiva tra uomini e donne, e quindi l’enorme disparità di ric- chezza (documentata dalla Banca d’Italia) dipende so- prattutto dal limitato accesso delle donne alle carriere, con la maggiore remunerazione conseguente. Blocchi motivati con una presunzione di inadeguatezza (con la legge sulle quote nei Cda c’era chi si aspettava un calo dei risultati aziendali), o in particolare con la ma- ternità –anche potenziale– ritenuta incompatibile con una carriera impegnativa. Un altro tipo di disparità re- tributiva, a parità di mansioni, si vede nei settori con prevalente manodopera femminile rispetto a quelli a prevalenza maschile: nel Tessile la remunerazione media è più bassa che nel Metalmeccanico. Persino le donne grandi star del management internazionale, pur con retribuzioni vertiginose, guadagnano meno degli uomini in posizioni uguali. Il lavoro degli uomini vale di più in ogni caso e questo lo decidono gli uomini.
È questa cultura di sopraffazione che va cambiata. Finora l’effetto economico positivo delle donne nei board aziendali è stato misurato in termini finanziari, di solito riconducendolo solo a una ‘aggiunta’ di doti cosiddette femminili a un modello di management so- stanzialmente invariato. Invece quel modello va cam- biato, non rafforzato. Il vantaggio portato dalle donne deriva proprio da questa convinzione.
Sappiamo infatti che il potere, come lo vediamo an- cora prevalere in azienda, è un esercizio di comando, controllo, totale dominanza del lavoro rispetto al resto della vita. Logiche in cui più spesso le donne non si ritrovano e per questo a volte si sono tenute lontane da quei luoghi. Ma molte manager hanno fatto una svol- ta: hanno rifiutato quel modo di esercitare il potere, cogliendo però la potenzialità di influire sulle politiche aziendali stando nei luoghi ‘del potere’ pensati e agi- ti diversamente. Hanno assunto ruoli decisionali alti senza assimilarsi ai codici correnti e sono andate oltre i convincimenti radicati del management. Portando così benefici imprevisti per l’azienda e chi ci lavora.
2 La parte che sta nelle nostre mani
I vertici aziendali in mano solo agli uomini sono con- siderati da molte parti un fatto negativo anche per le ricadute economiche. Per questo ci sono stati inter- venti istituzionali, come la legge citata. Ma non pos- siamo aspettarci che un cambiamento arrivi se non ci muoviamo noi. Anche quella legge non è nata solo da due parlamentari, ma dalla pressione delle donne che vogliono libertà nel lavoro. Se stiamo nelle aziende e vogliamo governarle a modo nostro, una svolta possia- mo determinarla solo noi: la libertà non la regala nes- suno. Tanto più a questo proposito, perché non si trat- ta solo di ottenere un allargamento di spazi alle donne, ma fare in modo che in quei luoghi entrino donne che portano i contenuti e il senso di una visione differente. Guardiamo per esempio a un’esperienza (raccontata nel box nella pagina seguente), un vasto piano aziendale per sostenere le donne nelle loro ambizioni di carriera. Intervenendo sulle barriere organizzative dell’azienda da un lato, e dall’altro mettendo le donne interessate in condizioni di diventare più consapevoli delle loro am- bizioni e dei freni che vengono dal loro stesso vissuto. Rimandando al racconto delle protagoniste, qui impor- ta cogliere un paio di aspetti. Il progetto mostra che è possibile fare politiche aziendali per ampliare gli spazi di libertà delle donne nel lavoro. E che queste politiche nascono da donne entrate nei livelli alti mantenendo la propria visione differente, che usano il potere insito nel ruolo anche per sostenere altre donne. L’altro aspetto è che le donne non vengono ‘formate’ ad acquisire un mo- dello di impronta maschile. Vengono sostenute nell’af- fermare se stesse, quello che vogliono essere e come ar- rivare a realizzarlo. Fare un passo in alto e alzare la posta è questo: non solo la nostra libera carriera, ma anche la possibilità di incidere –tra l’altro– su come tutte le don- ne stanno nel mondo del lavoro.
Liberare l’ambizione
Nessuna donna, è chiaro, è tenuta ad assumere ruoli di responsabilità se non lo desidera. Ogni scelta va bene se è consapevole e libera. Ma possiamo considerare che forse non ci concediamo di desiderare una situazione in cui possiamo avere potere, cioè la libertà di agire. Soprattutto perché siamo ancora immerse in un con- testo improntato a modelli di una società passata, ‘patriarcale’. Tanto che anche noi li introiettiamo, in qualche misura.
Educate a ritenere negativa l’ambizione, a non essere adatte a certi ruoli, finiamo per sottostimarci e temere di non farcela. Non ci sentiamo mai abbastanza pre- parate: gli uomini sono spesso meno preparati di noi, ma non si tirano indietro. D’altra parte alle donne si chiede di essere perfette, agli uomini di essere corag- giosi: sempre un doppio codice. Anche le nostre scelte rispetto alla maternità –passaggio sempre penalizzante nel lavoro– diventano ancora più difficili, perché so- cialmente si ritiene ancora maternità e famiglia la no- stra priorità. Così si scatenano i nostri personali sensi di colpa (ma chiediamoci: di cosa siamo veramente colpevoli?)3.
Pensiamo anche al nostro timore dei conflitti intrinse-
ci a una posizione ‘di potere’: qualunque cosa si faccia qualcuno ci sarà ostile e questo non ci piace. Perché ci mancano le conferme, l’apprezzamento che ci rassicura. Qui non serve ‘indurirci’, con comportamenti che non ci vanno bene. Possiamo invece usare la nostra attitu- dine a muoverci attraverso le relazioni, una forza che ci permette di affrontare i conflitti non come distrutti- vi, ma come situazioni in cui si può negoziare. A volte, insomma, i nostri bisogni affettivi non ci fanno vedere chiaramente gli aspetti professionali richiesti da una situazione. Serve solo essere coscienti di come stiamo usando questa nostra forza, per quali obiettivi reali. Quando però ci liberiamo da questi freni, quando non ci tiriamo indietro, spesso scopriamo che la realtà non è così minacciosa. Incutere paura del potere è un modo con cui il potere si difende. Ma basta ricordare le vol- te che nella nostra vita abbiamo sorpreso noi stesse, facendo cose che non avremmo immaginato di saper fare. Se desideriamo ricoprire in azienda ruoli decisionali, abbiamo motivi e possibilità per nutrire questa ambizione. Nonostante le difficoltà.
Nessuno dice che sia facile. Ma l’esperienza ci indica qualche strumento che può aiutare.
Il confronto con altre donne, dentro e fuori la propria azienda, è essenziale. Aiuta a prendere consapevolez- za delle nostre resistenze e di cosa le motiva, si capisce meglio il contesto e come muoversi. Diventa più facile vedere il proprio valore attraverso quello che le altre vedono in noi: darsi valore e darlo alle altre porta a un sostegno reciproco.4
Ci aiutano anche le esperienze di quelle manager che sono entrate nei luoghi decisionali mantenendo i loro valori: come apripista personali e per le politiche che hanno introdotto. Si può imparare che coprire questi ruoli a modo nostro non comporta solo fatica e il rischio delle proprie idee. C’è anche il piacere di muoversi con signoria negli spazi sempre preclusi, senza sottostare a come quello spazio è stato definito. Il piacere può ri- configurare quello spazio. Il piacere è strettamente le- gato alla libertà. Lì possiamo incidere, inventare delle cose, scegliere come farle. Provare a fare come si vuole, anche se non tutto quello che si vuole. Fidandoci di noi stesse e di altre con cui abbiamo costruito relazioni.
Si tratta allora di muoverci nella specifica situazione in cui ci troviamo cogliendo le possibilità che ne emergo- no. Non rinunciando all’occasione quando ci accorgia- mo che ci sono delle opportunità. Ricordando che molte cose si imparano facendo. Anche gestire il potere diver- samente. Così hanno fatto le manager a cui ci riferia- mo: agire, provarci, magari scontrarsi con dei muri, ma quando si trova una porta, entrare. Si corrono sempre dei rischi, ma il più forte è restare ferme se insoddisfatte. Donne forti della propria visione dentro ai vertici azien- dali possono allargare le possibilità che anche altre don- ne arrivino a posizioni qualificate e decisionali, senten- dosi sostenute. Quando le donne aprono spazi di libertà per sé li aprono per tutti. “L’ambizione femminile è fe- conda, non narcisistica”, dice Luisa Muraro.
I tempi sono maturi per fare questo passo in alto. C’è consapevolezza diffusa tra le donne della sopraffazio- ne che troviamo nei luoghi del lavoro, e c’è voglia di non lasciare più che questo continui. Un incoraggia- mento viene anche da quello che è successo negli Usa: le donne che hanno denunciato i ricatti sessuali nel lavoro dello spettacolo hanno fatto crollare quel siste- ma. L’azienda di Harvey Weinstein –il produttore di Hollywood accusato di violenze e molestie da decine di donne– è fallita. E c’è un seguito che vale come simbo- lo. Quell’azienda è stata acquistata da una donna, che ha messo a dirigerla un board di donne.
Anche così si spazzano via le sopraffazioni.
Luisa Pogliana, per molti anni Direttore Ricerche e Studi di Mercato in un grande gruppo editoriale, poi consulente sui mercati internazionali di quattro continenti. Ha collaborato con organismi professionali internazionali e due Commissioni Ue. È presidente dell’associazione Donnesenzaguscio per valorizzare le prassi innovative di donne manager. Su questo ha pubblicato Esplorare i confini. Pratiche di donne che cambiano le aziende (2016), Le donne il management la differenza (2012) e Donne senza guscio (2009) tutti presso Guerini. Collabora a riviste professionali.