Vittoria Doretti, anestesista della Asl 9 di Grosseto
intervista di laura preite per LaStampa.it
«Cerco di fare bene il mio dovere, non faccio nulla di più di questo, sono un medico del Servizio sanitario nazionale». Vittoria Doretti, dirigente anestesista della Asl 9 di Grosseto sintetizza così il suo impegno e l’esperienza del Codice rosa, la task force contro la violenza nata nel 2010 nella città toscana e replicata in tutta la regione a partire dal prossimo anno, e di esempio per altre regioni. Ieri, durante l’audit con le associazioni che si occupano di violenza la ministra delle pari opportunità Josefa Idem ha ribadito la volontà di costituirne una a livello interministeriale.
Com’è nata la task force codice rosa?
«Nel 2009 ero responsabile anestesista del dipartimento materno infantile dell’Ospedale di Grosseto e insieme al procuratore Giuseppe Coniglio andavamo ai convegni ma i dati sulla violenza che avevamo erano discordanti. Io avevo solo tre casi di violenza sessuale in tre anni, il procuratore 60 fascicoli. Pur avendo ogni ente ottime procedure non c’era dialogo. Ho lavorato molto per strada perché ho una doppia formazione anestesista e rianimatrice e mi sono resa conto che il grande problema era al pronto soccorso. Se una vittima va in un centro antiviolenza o in questura ha già preso coscienza di essere una vittima. Invece chi arriva al pronto soccorso non sempre lo è. Era lì, in prima linea che andavano sviluppate delle sensibilità, competenze e modi particolari».
Quindi come avete agito?
«Siamo partiti con un pool di 40 professionisti, polizia, carabinieri, medici, ostetriche, assistenti sociali, una squadra ma con lo stesso ‘sguardo’, in compagnia dei centri antiviolenza che hanno uno sguardo diverso da quello che abbiamo noi. Siamo cresciuti insieme, abbiamo rianalizzato le procedure che oggi sono condivise da tutti e abbiamo firmato un protocollo. All’interno del pronto soccorso abbiamo creato un codice rosa e una stanza rosa (non rosa come il colore ma come la rosa bianca), un luogo appartato, dove le persone sono al sicuro, protette nella privacy, non escono per farsi visitare come accade normalmente ma sono i professionisti ad entrare e non ripetono tutti le stesse domande. In questa stanza è come se il tempo si fermasse e lì c’è il tempo per parlare».
Chi è assistito?
«Il rosa non è mai stato qualcosa riservato alle donne. Abbiamo pensato che uomo, donna, anziano, giovane, italiano o straniero, ognuno di noi può avere in quel momento una situazione in cui è vittima della violenza e non riesce ad uscirne. A queste persone noi come Stato dovevamo qualcosa di più, in pronto soccorso vagavano non viste, le persone più deboli. Le donne sono la maggioranza dei codici rosa anche se gli ultra 65 enni vittime di violenza domestica incominciano ad essere un numero importante. Il 1 gennaio 2010 abbiamo avuto il nostro primo caso ufficiale e quell’anno abbiamo avuto oltre 300 casi, il secondo oltre 500 con un aumento del 63%, l’anno scorso 470 ma si sono quintuplicate le consulenze telefoniche dai servizi territoriali, come i medici di famiglia, i casi vengono intercettati prima. Ora la gente incomincia a conoscerci e a fidarsi, arrivano e dicono ‘sono un codice rosa’. Questi sono dati da una provincia bucolica come la nostra, possiamo solo immaginare cosa c’è altrove».
Anche l’iter giudiziario di questi casi è cambiato?
«Abbiamo avuto un abbattimento dei tempi della giustizia perché ora le prove vengono raccolte in modo perfetto. Prima per una visita ginecologica dovevi essere trasportata dal pronto soccorso all’ostetricia (in un caso che mi ha turbato molto abbiamo dovuto trasportare una ragazza per tutto l’ospedale e mi sono detta ‘mai più’). Ora abbiamo una procedura per le fotografie che è molto ligia perché ci vogliono ore per una violenza sessuale. Con un bambino invece, non devi fare domande per non inquinare le prove. Anche gli atteggiamenti degli uomini delle volanti sulla scena del crimine, sono importanti, bisogna aprire uno sguardo più limpido, mai giudicante, con un sguardo ti giochi tutto. Dai centri antiviolenza abbiamo capito che non devi spingere la vittima a fare denuncia, ha bisogno dei suoi tempi e noi come Stato saremo lì ad aspettarla, se la donna vuole. Le nostre forze dell’ordine vanno in borghese nelle stanza rosa, possono fare un colloquio e c’è il computer pronto per la denuncia».
La task force ha risorse economiche aggiuntive?
«Tutti riceviamo uno stipendio, siamo dipendenti pubblici. In fondo non è altro che fare il proprio dovere ma farlo in sincronia profonda, vuol dire essere insieme, 24 ore, un’unica divisa da indossare a pelle sotto ciascuno i propri vestiti. Per due anni non abbiamo avuto fondi, ora ne abbiamo per la formazione, grazie a un progetto regionale. Diciamo che i nuclei operativi sono un po’ votati al sacrificio (mentre la intervisto Doretti è a Firenze per allenare altre 5 task force, ndr). C’è un nemico grande della violenza domestica, la solitudine delle vittime e dell’operatore che si trova di fronte a casi di violenza e non riesce a muoversi. Telefoni e non risponde nessuno o dice “non è di mia competenza”. Una delle nostre regole è stata: nessuno dica che non è di mia competenza, è semplice ma apre un mondo».