Anna Bravo, storica

da | Ago 4, 2011 | Interviste/Video

Anna Bravo, storica

Ha insegnato storia sociale all’Università di Torino, e ha scritto molto sui movimenti politici e sociali del nostro tempo, sulle guerre, e sul ruolo che vi hanno giocato le donne. Il suo libro più recente – “A colpi di cuore” – è una rivisitazione in chiave anche soggettiva della storia, anzi meglio delle “storie” del sessantotto, come recita il sottotitolo del volume. Nonostante siano passati più di 40 anni la discussione sul significato di quel momento – che attraversò come una prima profonda scossa globale molti paesi del mondo e le generazioni giovanili – è ancora ben viva del dibattito politico e culturale. Come si dimostra viva – lo dicono in vario modo molti degli intervistati in questo libro – la presenza dei temi critici sollevati dal movimento “no global”a cavallo degli anni ’90 e 2000. 

Hai riflettuto in questi anni in termini critici, che hanno fatto discutere, sulla presenza della violenza nei movimenti di protesta. Esiste un punto di vista femminile sulle logiche del conflitto? Credi che anche a questo aspetto non risolto si deva il declino della visibilità e del protagonismo del movimento nato a Seattle? 

Non ho vissuto direttamente le giornate di Genova, ma non c’è dubbio che la repressione brutale delle forze di polizia abbia provocato un vero e proprio shock in molti dei giovani che si erano impegnati molto generosamente, spesso per la prima volta nella loro esperienza di vita, e del tutto pacificamente. Però io sono convinta che una forte responsabilità negativa per l’immagine complessiva di quel movimento stia anche nelle scelte di coloro che non rifiutarono completamente la logica della violenza, o quantomeno della sua rappresentazione simbolica. Carlo Giuliani è stato vittima di un colpo d’arma da fuoco sparato da un carabiniere. Ma una riflessione si doveva e si dovrebbe imporre anche per chi non ha mai rotto radicalmente con una cultura che non rinuncia all’uso di pratiche violente, e che anzi ancora oggi cede alla tentazione di mitizzarle. Io dopo Seattle ero sicura che quel moto si sarebbe sviluppato come una cosa grande e bella, piena di futuro: ricordo che su Seattle inserii “in tempo reale” un paragrafo in un manuale di storia contemporanea che stavo scrivendo per la scuola. E abbiamo visto quanta forza effettivamente abbia saputo sviluppare l’onda lunga di quel movimento quando il 15 febbraio del 2003 riempì le piazze di mezzo mondo contro l’imminente invasione dell’Iraq da parte della coalizione radunata dal giovane Bush. Si parlò del fatto che era nata una nuova “superpotenza mondiale”.  Poi c’è stato un ripiegamento, dovuto certamente a tanti motivi, ma anche alla gestione poco democratica dell’organizzazione, e dal permanere di un’idea di militanza troppo condizionata dalla suggestione della forza da manifestare in piazza. Non è un caso che, come raccontano molte testimonianze, le donne si siano sentite tagliate fuori, quasi condannate al ruolo di vittime obbligate a subire la violenza poliziesca da un lato e le logiche ottuse dei “militanti” loro amici e compagni. Mentre la presenza femminile era stata fondamentale sia nella produzione delle nuove idee del movimento, sia nell’azione per organizzarlo e farlo vivere. In fondo in un certo modo di gestire la piazza e di concepire la “militanza” sembra esserci posto solo per le schiere dei maschi giovani e sani. Una mamma che ha con sé un bambino, oppure una persona anziana, o qualcuno che abbia un handicap, sono come forzatamente esclusi dalla possibilità di esserci, di essere rappresentati, di contare nel messaggio simbolico che una manifestazione comunque produce. 

Da un punto di vista femminile la pratica della violenza va comunque esclusa in tutte le sue forme nella gestione di un conflitto politico e sociale? 

Io non dico questo, e tra le donne per fortuna ci sono – come su tutto il resto – opinioni diverse. Ai tempi dell’intervento in Kosovo ero favorevole al fatto che la comunità internazionale non girasse la testa da un’altra parte mentre era in corso la “pulizia etnica”, anzi pensavo che si sarebbe dovuto intervenire prima, e con modalità molto diverse. Ciò che mi lascia  sgomenta è l’assenza di una riflessione e elaborazione critica sul metodo e sugli strumenti con cui si affronta e si gestisce un conflitto quando si è costretti a misurarsi con qualcuno che esercita la violenza spesso nel modo più brutale e disumano.  Mi interrogo in questo momento sulla situazione in Libia e trovo folle che non cresca una critica più forte contro la guerra combattuta dall’alto, con i bombardamenti supposti “intelligenti”. Se si vuole davvero difendere i civili, i soggetti più deboli esposti alla forza brutale di un dittatore, credo che si debba organizzare la presenza fisica sul teatro delle violenze, chiamiamola una forza di polizia internazionale,  di interposizione, legittimata a usare anche le armi, ma attrezzata a gestire la soluzione del conflitto con le capacità e l’intelligenza umana, degli uomini e delle donne, non delle bombe. Invece sembra che siamo sempre allo stesso punto. Eppure sono passati molti anni da quando questo discorso era stato sviluppato da un uomo come Alex Langer, che parlava della necessità di essere costantemente presenti sul territorio per costruire la pace,  con una preparazione adeguata, con regole di ingaggio precise nel caso che fosse indispensabile ricorrere all’uso della forza. 

 Hai ricordato la presenza fondamentale delle donne nel movimento “no global”.  Il loro contributo è stato particolarmente oscurato dal prevalere di un conflitto violento? 

Nei confronti delle donne, sia quelle più giovani venute alla politica negli anni dopo Seattle, sia delle femministe come me che hanno radici nel ’68 e negli anni ’70, si è spesso ripetuto nel periodo più recente: “uscite dal silenzio”. Abbiamo risposto e ripeto che non siamo mai state zitte.  Un problema diverso è lo scarso accesso che ci è stato riservato dal mondo dell’informazione e della politica. Oggi penso che sia particolarmente importante la critica che da molte donne viene sviluppata al modo in cui è distribuito e organizzato il lavoro. Anche qui siamo in presenza di un’onda lunga.  Nel mio libro sul ’68 ricordo come nel 1977, grazie alla nuova legge sulla parità delle chiamate al lavoro, la Fiat si trova 300 donne in fabbrica. E cito un episodio raccontato da Lea Melandri: si era sviluppato un conflitto tra donne e uomini anche nel sindacato. A una delegata che chiedeva di essere trasferita alla fonderia un operaio grande e grosso disse: “Ma cosa vuoi venire a fare in fonderia se non sei nemmeno capace di tirare su questa roba?”. E lei: “Beh, ma tu sei scemo a tirare su quella roba, ti fa male alla schiena”.  Qui una presunta debolezza femminile si capovolge in un possibile vantaggio per tutti, donne e uomini. Vale per gli operai, ma vale anche per le e i manager che decidono come si lavora e per che cosa. Ripensare tempi e qualità del lavoro alla luce del desiderio delle donne di tenere insieme la cura degli affetti e la presenza nel mercato potrebbe aprire molte nuove possibilità. Siamo appena agli inizi e da parte degli uomini vengono ancora molte paure, molte resistenze. Eppure io penso che anche i giovani padri possano vivere il bisogno di avere più tempo per stare con i figli. Forse la paura, lo spirito di competizione e i rancori maschili si potrebbero vincere più facilmente se si sottolineasse di più che la leva per cambiare sono proprio le “debolezze” di noi donne. O almeno così vengono definite.

Intervista di  Alberto Leiss