IL LAVORO DELLE DONNE TRA OSTACOLI E OPPORTUNITÀ 

da | Mar 6, 2025 | Donne e lavoro

 

RAPPORTO CNEL – ISTAT 

 

IL LAVORO DELLE DONNE

TRA OSTACOLI E OPPORTUNITÀ 

 

Documento di sintesi

a cura di

Cristina Freguja, Clelia Romano, Lina Laura Sabbadini 

 

6 marzo 2025

 

Il presente documento è realizzato nell’ambito dell’Accordo interistituzionale CNEL – ISTAT con il coordinamento del Comitato per le Pari Opportunità del CNEL (cfr. determinazioni del Presidente del CNEL n. 21, 22, 26, 99 del 2024) presieduto dalla Cons. Rossana Dettori, e composto dal Cons. Fiovo Bitti, dalla      Cons. Maria Teresa Colaiacovo, e dalla Cons. Livia Ricciardi, oltre altri esperti esterni.

TAVOLA DEI CONTENUTI

Cresce l’occupazione femminile                                                                                                              3

Elevata la distanza dall’Europa dei tassi di occupazione femminile.                                                       3

Elevate anche le disparità territoriali                                                                                                       4

Titoli di studio più alti riducono le disuguaglianze di genere                                                                 4

Elevata la distanza dei tassi di occupazione femminile da quelli Europei                                                4

Elevate anche le disparità territoriali                                                                                                       5

Titoli di studio più alti riducono le disuguaglianze di genere                                                                 5

La vulnerabilità lavorativa è più diffusa tra le donne                                                                              6

Più spesso vulnerabili le lavoratrici giovani, residenti nel Sud, con bassa istruzione, straniere                6

Più vulnerabilità lavorativa in agricoltura, alberghi e ristorazione, servizi alle famiglie                          7

Le madri hanno un tasso di occupazione decisamente più basso rispetto alle single                               7

Tassi di occupazione delle madri più elevati nel Nord e per le laureate                                                  8

Quasi un terzo delle occupate lavora part time e il 41% delle lavoratrici madri 25-34enni                       8

Tra le occupate le madri sono maggioranza, quasi 1 milione le madri sole                                              9

Le donne che non lavorano: quasi 1 milione le disoccupate, 7,8 milioni le inattive fino a 64 anni           10

La maggior parte delle disoccupate è di lunga durata, 600 mila inattive non cercano lavoro perché scoraggiate                                                                                                                                                             10

La maggior parte delle madri inattive con figli non cerca lavoro per motivi familiari                            11

Diminuiscono le famiglie monoreddito e crescono quelle in cui entrambi i partner lavorano                11

In Europa, l’Italia è al terzo posto per incidenza di coppie monoreddito maschili                                 11

Il modello monoreddito maschile è più diffuso tra coppie con figli, coppie con stranieri e con basso titolo di studio                                                                                                                                                             12

Vivere in una coppia in cui i partner contribuiscono in egual modo al proprio reddito migliora il benessere soggettivo                                                                                                                                             13

Più basso il contributo al reddito da lavoro familiare delle figlie rispetto ai figli                                    13

I servizi educativi per la prima infanzia sono ancora scarsamente diffusi specie nel Mezzogiorno        13

Le ragazze scelgono in prevalenza il percorso liceale per lo più in materie umanistiche                        14

La presenza femminile è maggioritaria tra gli immatricolati all’università, ma solo il 20% si iscrive a corsi STEM                                                                                                                                                             14

L’Italia supera l’Europa per immatricolazione femminile a corsi STEM ma non in informatica e ingegneria 15

Più istruite degli uomini, ma meno occupate                                                                                        16

Svantaggio occupazionale delle donne italiane per tutti i titoli di studio, ma meno per le laureate        16

Le diplomate con un indirizzo di studi vocational hanno tassi di occupazione più elevati                      17

Il divario di genere occupazionale è maggiore per i professionali rispetto ai tecnici                              17

I divari occupazionali di genere sono sempre a favore degli uomini anche nelle “discipline femminili” 18

Scarso l’accesso all’apprendimento continuo: 21° posto tra i Paesi europei                                            18

Metà dell’occupazione femminile è concentrata in 21 professioni, quella maschile in 53.                       19

Aumentata la segregazione orizzontale delle professioni                                                                      19

Il soffitto di cristallo è ancora lungi dal frantumarsi                                                                              20

Crescita delle donne tra i componenti dei cda delle imprese quotate in borsa, ma tra gli amministratori delegati le donne sono solo il 2,9%.                                                                                                                        21

Solo il 28,8% delle imprese è a conduzione femminile                                                                           22

Metà del personale dipendente delle imprese femminili è donna                                                          22

Sono 1 milione 500 mila le imprenditrici, mediamente più giovani degli uomini                                   23

Le lavoratrici dipendenti sono a più bassa retribuzione                                                                        23

 

Cresce l’occupazione femminile

Nella prima metà del 2024, pur con alcuni segnali di rallentamento, prosegue la dinamica positiva del mercato del lavoro, con la crescita dell’occupazione accompagnata dalla diminuzione della disoccupazione e dell’inattività. In particolare, nel secondo trimestre 2024, il tasso di occupazione femminile nella fascia di età 15-64 anni aumenta di 0,9 punti in un anno (nei trimestri del 2023 la crescita tendenziale superava sempre un punto percentuale), quello di disoccupazione cala di 0,8 punti (dinamica simile nel 2023), mentre si attenua la riduzione del tasso di inattività 15-64 anni (-0,5 punti rispetto a valori compresi tra -0,8 e -1,7 punti nel 2023).

Nel terzo trimestre si registra un nuovo aumento del tasso di occupazione che raggiunge 1,4 punti ed è associato al calo del tasso di disoccupazione, in particolare per le donne, mentre il tasso di inattività aumenta leggermente per entrambi i generi. Nei dati provvisori del mese di dicembre, per le donne, il trend congiunturale positivo rallenta fino a invertirsi, con un calo del tasso di occupazione associato all’aumento del tasso di disoccupazione e alla stabilità di quello di inattività.

Nel terzo trimestre 2024, l’incremento tendenziale del numero di occupate è per il 71,3% dovuto alle ultracinquantenni. Rispetto allo stesso periodo del 2008 mentre il tasso di occupazione femminile è di 6,4 punti superiore, per le ultracinquantenni l’aumento raggiunge i 20 punti, contro un valore di appena 1,4 punti per le 25-34enni. L’incremento del tasso di occupazione femminile è maggiore nell’Italia Centrale (+8 punti), nell’Italia Settentrionale e Meridionale si attesta su +5 punti percentuali in 16 anni, con un incremento che si concentra soprattutto negli ultimi quattro anni.

 

Elevata la distanza dall’Europa dei tassi di occupazione femminile.

A tale dinamica positiva per  le donne fa da contraltare il persistente ampio divario con l’Europa: nel terzo trimestre 2024 il tasso di occupazione femminile risulta inferiore di 12,6 punti alla media Ue e alla Francia, e 20 alla Germania , rimanendo il valore più basso tra i ventisette paesi dell’Unione europea e molto distante dalla maggior parte dei paesi: in quattro paesi l’indicatore è oltre venti punti superiore a quello italiano, dai Paesi Bassi (+25,2 punti) alla Finlandia (+20,1 punti), in dodici è maggiore di almeno quindici punti, in altri sei paesi di almeno dieci punti e, infine, in Spagna è di 8 punti più elevato. Meno distanti soltanto la Romania e la Grecia (+1,3 punti e 0,8 punti, rispettivamente).

Peraltro, in Italia, pur avendo raggiunto il massimo livello, il tasso di occupazione è cresciuto meno rispetto alla media Ue (nel terzo trimestre 2024 di sei punti rispetto al terzo trimestre 2008, in confronto a 8,6 punti in Europa), ampliando ulteriormente il gap a sfavore del nostro paese.

Nel terzo trimestre 2024, il gap di genere del tasso di occupazione è quasi doppio rispetto alla media Ue (17,4 punti contro 9,1 punti): anche in questo caso risulta il valore più elevato tra i paesi dell’Ue, molto distante dalla maggior parte di essi.

 

Elevate anche le disparità territoriali

Ad ampliare ulteriormente i divari con l’Ue nella partecipazione femminile al mercato del lavoro si aggiungono le marcate disparità territoriali, che si sommano a quelle generazionali, per cittadinanza e per livello di istruzione. Nel secondo trimestre 2024, al Nord sono occupate il 62,4% delle donne con un’età compresa tra 15 e 64 anni, quota che scende al 60,8% nel Centro e diviene poco più di un terzo nel Mezzogiorno (36,9%); se nelle regioni settentrionali il divario con l’Ue si assottiglia a circa un terzo di quello totale, nel Mezzogiorno la distanza è profonda e sembra incolmabile nel breve periodo. Se si scende nel dettaglio regionale, tutte le regioni del Nord e del Centro, tranne il Lazio, hanno raggiunto l’obiettivo previsto dalla Strategia di Lisbona 2010 e in Trentino Alto Adige il valore è più elevato della media europea (67,8%); nessuna regione meridionale, invece, ha raggiunto il target europeo.

Sebbene il divario di genere a sfavore delle donne aumenti nelle classi di età più avanzate, nella media Ue le differenze risultano meno marcate (passando da 7,0 punti nella fascia 15-34 anni a 10,9 punti nella fascia 50-64 anni); in Italia, infatti, il divario quasi raddoppia, attestandosi a 12,1 punti per i più giovani e a 22,9 punti nella fascia più adulta. Anche in questo caso le differenze si accentuano ulteriormente nel Mezzogiorno, dove la distanza tra i tassi di occupazione femminile e maschile passa da 14,3 punti per classe 15-34 anni a quasi il triplo per le 50-64enni (33,1 punti in meno rispetto agli uomini).

 

Titoli di studio più alti riducono le disuguaglianze di genere

Il livello di istruzione riveste un ruolo chiave nella partecipazione al mercato del lavoro delle donne e nella riduzione delle disuguaglianze: all’aumentare del titolo di studio cresce il tasso di occupazione 15-64 anni e diminuisce progressivamente il gap di genere (nella media europea da 16,1 punti per coloro che possiedono una bassa istruzione a 4,8 punti dei laureati, in Italia da 22,7 a 4,1 punti). Un elevato livello di istruzione riduce sia i divari territoriali tra le donne sia quelli rispetto agli uomini: il tasso di occupazione 15-64 anni delle laureate è circa tre volte quello delle donne con al massimo la licenza media, e la differenza tra Nord e Mezzogiorno, che sul totale è pari a 25,9 punti, quasi si dimezza per le donne con elevato titolo di studio (14,5 punti).

 

Elevata la distanza dei tassi di occupazione femminile da quelli Europei

A tale dinamica positiva per le donne fa da contraltare il persistente ampio divario con l’Europa: nel secondo trimestre 2024, il tasso di occupazione femminile risulta inferiore di circa 13 punti dalla media Ue (in Francia è pressoché analogo a quello medio, mentre in Germania la distanza non raggiunge gli otto punti), rimanendo il valore più basso tra i ventisette paesi dell’Unione europea e molto lontana dalla maggior parte dei paesi: in cinque paesi l’indicatore è di oltre venti punti superiore a quello italiano, dai Paesi Bassi (+25,7 punti) alla Finlandia (+20,5 punti), in undici è maggiore di almeno quindici punti (dai 19,8 punti della Lituania ai 15,1 punti del Lussemburgo), in altri sei paesi di almeno dieci punti e, infine, in Spagna è di 8,4 punti più elevato. Meno distanti soltanto la Romania e la Grecia (+2,8 punti e +2,1 punti, rispettivamente).

Peraltro, in Italia, pur avendo raggiunto il massimo livello, il tasso di occupazione è cresciuto meno rispetto alla media Ue (nel secondo trimestre 2024 di sei punti rispetto al secondo trimestre 2008, in confronto a 8,6 punti in Europa), ampliando ulteriormente il gap a sfavore del nostro paese.

Nel secondo trimestre 2024, il gap di genere del tasso di occupazione è quasi doppio rispetto alla media Ue (17,6 punti contro 9,0 punti): anche in questo caso risulta il valore più elevato tra i paesi dell’Ue, molto distante dalla maggior parte di essi, dato che in venti Stati membri il divario di genere è inferiore a quello della media Ue. Tra gli altri paesi europei spicca la Finlandia dove il divario di genere è inesistente (il tasso di occupazione femminile è lievemente più elevato di quello maschile), mentre in Francia e Germania il gap è comunque contenuto (5,5 e 6,5 punti).

 

Elevate anche le disparità territoriali

Ad ampliare ulteriormente i divari con l’Ue nella partecipazione femminile al mercato del lavoro si aggiungono le marcate disparità territoriali, che si sommano a quelle generazionali, per cittadinanza e per livello di istruzione. Nel secondo trimestre 2024, nel Nord sono occupate il 62,8% delle donne con un’età compresa tra 15 e 64 anni, quota che scende al 59,9% nel Centro e diviene poco più di un terzo nel Mezzogiorno (37,2%); se nelle regioni settentrionali il divario con l’Ue si assottiglia a circa un terzo di quello totale (-3,6 punti), nel Mezzogiorno la distanza è profonda e sembra incolmabile nel breve periodo (-29,2 punti). Se si scende nel dettaglio regionale, tutte le regioni del Nord e del Centro hanno raggiunto l’obiettivo previsto dalla Strategia di Lisbona 2010; inoltre, in Trentino Alto Adige il valore è più elevato della media europea (67,4%); nessuna regione meridionale, invece, ha raggiunto il target europeo. Nondimeno, il gap di genere nell’indicatore cresce progressivamente da 13,8 punti nel Nord, a 14,5 punti nel Centro fino a giungere a 24,2 punti nelle regioni meridionali.

Sebbene il divario di genere a sfavore delle donne aumenti nelle classi di età più avanzate, nella media Ue le differenze risultano meno marcate (passando da 7,0 punti nella fascia 15-34 anni a 10,9 punti nella fascia 50-64 anni); in Italia, infatti, il divario quasi raddoppia, attestandosi a 10,9 punti per i più giovani e a 21,9 punti nella fascia più adulta. Anche in questo caso le differenze si accentuano ulteriormente nel Mezzogiorno, dove la distanza tra i tassi di occupazione femminile e maschile passa da 11,9 punti per classe 15-34 anni a quasi il triplo per le 50-64enni (31,9 punti in meno rispetto agli uomini).

Titoli di studio più alti riducono le disuguaglianze di genere

Il livello di istruzione riveste un ruolo chiave nella partecipazione al mercato del lavoro delle donne e nella riduzione delle disuguaglianze: all’aumentare del titolo di studio cresce il tasso di occupazione 15-64 anni e diminuisce progressivamente il gap di genere (nella media europea, da 16,1 punti per coloro che possiedono una bassa istruzione a 4,8 punti dei laureati, in Italia, da 27,4 a 7,1 punti). Un elevato livello di istruzione riduce sia i divari territoriali tra le donne sia quelli rispetto agli uomini: il tasso di occupazione 15-64 anni delle laureate è circa due volte e mezzo quello delle donne con al massimo la licenza media, e la differenza tra Nord e Mezzogiorno, che sul totale è pari a 25,6 punti, si dimezza per le donne con elevato titolo di studio (12,5 punti). Anche il gap di genere diminuisce progressivamente all’aumentare del livello di istruzione, passando da un massimo di 32,9 punti tra chi ha una bassa istruzione e risiede nel Mezzogiorno a un minimo di 5,7 punti tra i laureati residenti al Nord, un valore che diviene poco distante da quello della media Ue tra chi ha una istruzione terziaria (4,8 punti).

 

La vulnerabilità lavorativa è più diffusa tra le donne

La distribuzione degli occupati nei diversi profili nel terzo trimestre del 2024 fa emergere ancora una volta le forti differenze di genere: se tra gli uomini circa sette occupati su dieci possono contare su un lavoro standard (dipendente a tempo indeterminato o autonomo con dipendenti), le occupate in questa stessa situazione sono poco più della metà (53,9%). Di contro, quasi un quarto delle donne che lavorano – quasi 2 milioni e mezzo – presenta elementi di vulnerabilità, contro il 13,8% gli uomini: il 19,9% ne sperimenta solamente un tipo (dipendente a tempo determinato, autonomo con o senza dipendenti, part time involontario), mentre il 4,0%, pari a 411 mila occupate, sperimenta una condizione di dipendete a termine o collaboratore assieme al part time involontario (contro rispettivamente il 11,9% e l’1,8% degli uomini). A incidere maggiormente sulla differenza tra uomini e donne è il fatto di svolgere un lavoro a orario ridotto non per scelta: le lavoratrici che hanno come unico elemento di vulnerabilità il part time involontario sono il 8,6% rispetto al 2,5% degli uomini.

 

Più spesso vulnerabili le lavoratrici giovani, residenti nel Sud, con bassa istruzione, straniere

La distribuzione geografica e le caratteristiche socio-demografiche di quanti presentano elementi di vulnerabilità lavorativa confermano l’esistenza di disparità strutturali: il tasso di vulnerabilità lavorativa raggiunge il 38,7% tra le donne giovani (29,1% tra i coetanei), il 31,2% per le residenti nel Mezzogiorno (18,5% per gli uomini), il 31,7% per le donne che hanno conseguito fino alla licenza media (16,3% degli uomini) e il 36,5% per le lavoratrici con cittadinanza straniera, quota questa distante sia dalle donne italiane (22,4%) sia dagli uomini stranieri (24,3%). Queste stesse categorie sono quelle che subiscono più spesso una doppia vulnerabilità lavorativa, con un’incidenza massima per le giovani donne (7,0%, rispetto a 3,8% dei coetanei maschi). Anche in questo caso il livello di istruzione ridimensiona i divari: tra le laureate la quota di lavoratrici standard sale al 61,7%, con una differenza di 7,6 punti rispetto agli uomini (contro i 16,2 punti del totale) e quella di lavoratrici vulnerabili scende al 17,2%. Se si analizza il ruolo in famiglia, i più forti divari di genere riguardo il lavoro standard si registrano tra i genitori (tra i padri la quota di lavoro standard raggiunge il 76,8%, tra le madri non si discosta dal valore medio del 53%), mentre tra le donne nel ruolo di figlie si riscontrano i più forti segnali di debolezza: poco meno della metà sperimenta almeno una vulnerabilità lavorativa (circa un terzo i figli maschi) e il 9,2% due vulnerabilità (4,9% i maschi).

 

Più vulnerabilità lavorativa in agricoltura, alberghi e ristorazione, servizi alle famiglie

La maggiore concentrazione di occupati vulnerabili si registra tra le categorie più fragili nel mercato del lavoro e nei settori in cui sono maggiormente impiegate.

Oltre al settore agricolo, dove la vulnerabilità coinvolge il 37,0% dei lavoratori, spiccano il settore alberghiero e della ristorazione (41,2%), caratterizzato da una forte presenza di giovani, e quello dei servizi alle famiglie (36,8%), ad alta concentrazione di donne e di lavoratrici straniere. Un’elevata quota di lavoratori vulnerabili si osserva anche negli altri servizi collettivi e personali (29,0%) e nell’istruzione (21,5%), anch’essi con una forte incidenza di occupazione femminile. Tuttavia, la più forte differenza di genere si registra nel settore del commercio dove la presenza di uomini e donne è più equilibrata, ma la quota di lavoratrici vulnerabili è 13 punti superiore a quella degli uomini.

Riguardo alle professioni, i lavoratori vulnerabili si concentrano principalmente nei ruoli non qualificati, con un’incidenza del 38,6%, che raggiunge il 46,8% per le donne. Seguono gli addetti al commercio e ai servizi (28,2% il totale e 32,8% le donne). Anche tra le professioni qualificate, pur con incidenze inferiori alla media generale, emergono sacche di vulnerabilità, in particolare tra quelle scientifiche e intellettuali.

 

Le madri hanno un tasso di occupazione decisamente più basso rispetto alle single

Il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni si attesta, nel 2023, al 52,5% per le donne e al 70,4% per gli uomini, con un divario di quasi 18 punti percentuali. Tuttavia, se si tiene conto del ruolo in famiglia – condizione che riflette le diverse fasi del ciclo di vita – è evidente come i valori medi celino situazioni molto eterogenee. Il 69,3% delle donne che vivono da sole ha un impiego, percentuale che, pur restando tra le più elevate, scende al 62,9% tra le madri sole e al 57,2% tra le madri in coppia (più di 12 punti di distanza dalle single). Un dato significativamente più basso riguarda le donne che vivono come figlie nella famiglia di origine, con un tasso di occupazione pari al 31,1%, in conseguenza sia dell’investimento in percorsi di formazione, sia delle difficoltà di accesso al mercato del lavoro delle più giovani.

Tra gli uomini le differenze sono decisamente meno marcate. Il tasso di occupazione per i single supera il 77%, mentre arriva all’86,3% per i padri in coppia, quasi 30 punti percentuali in più rispetto alle madri in coppia. Più elevata rispetto alle donne anche la percentuale di figli occupati (42,4%).

Il carico familiare rappresenta per molte donne un motivo di rinuncia all’attività lavorativa, soprattutto quando ci sono bambini in età prescolare: tra i 25 e i 34 anni, meno della metà delle madri risulta occupata, a fronte di oltre il 60% nella fascia tra i 35 e i 54 anni. Nella fascia di età tra 25 e 54 anni, il tasso di occupazione degli uomini senza figli è del 77,3%, 8,6 punti percentuali in più rispetto alle donne (68,7%). La differenza è di circa 30 punti percentuali quando i genitori hanno figli minori (rispettivamente 91,5 e 61,6%).

 

Tassi di occupazione delle madri più elevati nel Nord e per le laureate

Le disparità a livello territoriale appaiono molto importanti, legandosi anche alla diversa disponibilità di servizi per la prima infanzia: mentre nelle regioni del Nord e del Centro il tasso di occupazione delle madri supera o sfiora il 70%, nel Mezzogiorno si attesta poco sopra il 40%. La presenza di almeno un figlio minore ha un effetto negativo sui tassi di occupazione femminile in tutte le aree del Paese: ciò è più evidente quando i figli minori sono più di uno, specialmente nel Mezzogiorno dove la quota di occupate tra le madri con figli minori si ferma al 42,0%.

All’aumentare del titolo di studio aumenta la quota di occupate e diminuisce il gap tra le donne senza figli e quelle con figli, in tutte le classi di età. La distanza più ampia (oltre 20 punti percentuali) riguarda, di nuovo, le giovani madri (25-34 anni) con al massimo la licenza media, il cui tasso di occupazione non raggiunge il 30%. Tra le laureate giovani e quelle più mature, invece, i tassi non presentano significative differenze per presenza di figli.  Peraltro, tra le 25-34enni il tasso di occupazione delle madri è molto vicino a quello dei padri laureati della stessa età.

 

Quasi un terzo delle occupate lavora part time e il 41% delle lavoratrici madri 25-34enni

Il ricorso a un’occupazione a tempo parziale permette di ridurre le difficoltà di conciliazione tra carichi familiari e impegni lavorativi e, non a caso, sono soprattutto le donne a utilizzare questa forma di occupazione: sul totale degli occupati il 31,5% delle donne, circa 3 milioni, lavora part time, contro l’8,1% degli uomini, circa un milione. In particolare, nella classe di età 25-54 anni, l’incidenza tra gli uomini diminuisce ulteriormente: solo il 6,6% degli uomini lavora a tempo parziale, contro il 31,3% delle occupate, e cala ulteriormente (4,6%) in presenza di figli, mentre tra le madri sale al 36,7%. L’avere figli, infatti, consolida il ruolo di breadwinner dei padri, simmetricamente a quanto avviene per il ruolo di caregiver delle madri.

In particolare, tra le donne con figli, sono soprattutto le 25-34enni a ricorrere al tempo parziale (41,0% contro il 38,1% delle 35-44enni e 34,7% delle 45-54enni). La quota di part time per le madri cresce all’aumentare del numero di figli, con un picco pari al 48,0% per le madri più giovani con tre o più figli minori.

I motivi della scelta del part-time sono perlopiù riconducibili alla necessità di prendersi cura dei propri figli o ad altre ragioni familiari, riportati da oltre il 50% delle madri occupate a tempo parziale. Una quota affatto trascurabile (42,1%) si ritrova a lavorare part time perché non è riuscita a trovare un lavoro a tempo pieno (part-time involontario), quota che diventa maggioritaria tra le occupate senza figli (66,9%).

Tra le occupate le madri sono maggioranza, quasi 1 milione le madri sole

I profili socio-demografici e occupazionali delle lavoratrici si diversificano in base al ruolo ricoperto in famiglia. Quantificare i distinti sottogruppi può essere utile anche per tarare politiche adeguate in relazione a distinti bisogni.

Le donne occupate sono quasi 10 milioni. Al primo posto si collocano le lavoratrici madri che vivono in coppia e sono 4 milioni 482 (44,9%). Seguono le donne in coppia senza figli, 1 milione 662 mila (16,6%), le single 1 milione 422 mila (14,2%), 1 milione 325 mila le figlie (13,3%), e le madri sole 941 mila (9,4%).

Tra le madri in coppia sono più numerose le donne delle classi di età centrali tra i 35 e i 54 anni che coprono più dei due terzi di questo sottoinsieme di lavoratrici. La maggioranza vive nel Centro Nord, e il 24,5% nel Mezzogiorno, a fronte del 19,2% delle donne in coppia senza figli. L’incidenza delle occupate a tempo indeterminato è tra le più elevate, allo stesso livello delle single e delle madri sole (72,7%), ma presentano una percentuale di tempo parziale più elevata rispetto agli altri gruppi (35,6%). Svolgono una professione qualificata più frequentemente delle altre occupate, con una quota leggermente più elevata della media nei settori Istruzione e Sanità. Interessante sottolineare che nel settore Istruzione dove lavorano in maggioranza donne (75%), il 51% di queste è rappresentato da madri in coppia.

Le donne in coppia senza figli sono più eterogenee dal punto di vista dell’età, con una presenza più elevata di ultra55enni (36,9%), probabilmente nella fase del nido vuoto, dopo l’uscita dei figli dalla famiglia di origine, e di 25-34enni (22,1%). Si caratterizzano per valori superiori alla media di residenti nelle regioni del Nord (59,4%). Tra le donne in coppia senza figli sono più numerose quante hanno un’attività autonoma e un lavoro a tempo pieno (collocandosi al secondo posto solo dopo le single).

Le single sono concentrate nelle classi di età più mature: in maggioranza tra 45 e 64 anni, più di un terzo ha almeno 55 anni, l’incidenza delle ultrasessantacinquenni raggiunge in questo gruppo il valore, seppur piccolo, più elevato rispetto alle altre occupate (6,6%). Si tratta più frequentemente degli altri gruppi di straniere (18,8%) e laureate (36%). Per quanto riguarda il tipo di lavoro svolto, in conseguenza anche della cospicua presenza di donne mature, le single hanno più frequentemente un lavoro a tempo indeterminato (72,7%), con regime orario a tempo pieno (77,8%) nel settore dei Servizi (87,7%) e in particolare Servizi alle famiglie.

Le occupate che vivono come figlie nella famiglia di origine si caratterizzano per la più giovane età. L’80,3% ha fino a 34 anni, quasi la metà da 25 a 34 anni. Il 90,0% ha almeno il diploma superiore e condivide con le single la più alta percentuale di laureate. Appena il 4,3% è costituito da straniere. La maggioranza vive nel Centro Nord, mentre nel Mezzogiorno si raggiunge il 29,4%. L’incidenza delle lavoratrici a termine è più che doppia rispetto alla media (38,3%), così come più elevata è la quota di lavoratrici in part time involontario (21,8%). La maggioranza si concentra inoltre nelle professioni impiegatizie del commercio e dei servizi (54,3%): Commercio, insieme ad Alberghi e ristorazione e Altri servizi collettivi e personali, sono i settori maggiormente rappresentati tra le lavoratrici figlie.

Le madri sole rappresentano il segmento con più elementi di vulnerabilità sul mercato del lavoro. Il 69,6% ha tra 45 e 64 anni, una percentuale più alta di 11 punti rispetto alle madri in coppia, il 12,0% è costituito da straniere, un quarto ha un basso titolo di studio (25,3%). L’incidenza del part time involontario (19,7%) è seconda solo al gruppo delle figlie. Più frequentemente delle altre tipologie di occupate svolge professioni non qualificate e nel settore Alberghi e ristorazione e dei Servizi alle famiglie.

 

Le donne che non lavorano: quasi 1 milione le disoccupate, 7,8 milioni le inattive fino a 64 anni

Le donne in cerca di lavoro sono poco meno di 1 milione, circa la metà (49,3%) del totale dei disoccupati. Tra le donne in cerca di lavoro, quasi un terzo (31,5%) sono figlie che vivono nella famiglia di origine. Un altro terzo circa è costituito da madri in coppia (31,9%), seguono le single (12,9%) concentrate soprattutto nelle classi di età più adulte, le madri sole (11,8%) e le donne in coppia senza figli (9,9%).

Le inattive sono oltre 7,8 milioni, pari al 63,5% del totale degli inattivi nella fascia di età tra i 15 e i 64 anni. la componente più numerosa è rappresentata dalle madri in coppia (38,6%, oltre 3 milioni). Seguono le figlie (33,5%), che in gran parte continuano gli studi, e le donne in coppia senza figli (14,8%); molto meno numerose le single e le madri sole (rispettivamente 6 e 5,5%).

 

La maggior parte delle disoccupate è di lunga durata, 600 mila inattive non cercano lavoro perché scoraggiate

Sul totale delle disoccupate, quelle in cerca di lavoro da un anno o più, le cosiddette “disoccupate di lunga durata”, rappresentano la maggioranza, ovvero il 54,3% (percentuale che raggiunge il 65,0% nel Mezzogiorno, con picchi del 70% tra le madri sole). Nel complesso, il numero medio delle azioni di ricerca attiva del lavoro non fa registrare differenze di genere: 3,7 sia per gli uomini sia per le donne. Il 47,9% risiede nel Mezzogiorno.

La maggior parte delle donne inattive non solo non cerca un’occupazione, ma si dichiara anche non disponibile a lavorare: circa 1,3 milioni fa parte delle forze lavoro potenziali, il segmento di inattivi più vicino al mercato del lavoro. Approfondendo le ragioni dell’inattività, emerge che sono le motivazioni familiari (indicate dal 33,9% delle inattive) a tenere le donne lontane dal mercato del lavoro; al secondo posto (28,6%) si colloca l’impegno in percorsi di formazione o studio. Il 14,6% non lavora né cerca lavoro perché é in pensione o non interessata a un impiego e il 7,5% (quasi 600 mila donne) si dichiara scoraggiata, convinta di non riuscire a trovare un impiego.

La maggior parte delle madri inattive con figli non cerca lavoro per motivi familiari

A differenza delle donne, per gli uomini i motivi dell’inattività sono riconducibili soprattutto ai motivi di studio (45,7%) o ad altri motivi (17,7%), mentre i motivi familiari, tra gli ultimi in graduatoria, vengono riportati solo dal 2,8%.

Le motivazioni che spingono all’inattività variano considerevolmente tra uomini e donne anche in base al ruolo ricoperto in famiglia. Per quanti vivono come figli nella famiglia di origine, la ragione prevalente dell’inattività è lo studio, senza significative differenze di genere. Tra i maschi inattivi con figli il motivo predominante è la condizione di pensionato (40,6% per i padri e 56,2% per chi vive col partner senza figli). Tra le madri inattive con figli, invece, la maggior parte (62,2%) non cerca lavoro né è disponibile a lavorare per motivi familiari (incluso l’accudimento dei figli o l’assistenza a persone anziane o non autosufficienti), motivazione addotta solo dal 4,8% dei padri.

Considerevole anche la quota di donne che vivono in coppia senza figli (37,1%) o di donne sole (13,9%) inattive per motivi familiari, una percentuale molto più alta se confrontata con quelle degli uomini nelle stesse condizioni (rispettivamente 3,4% e 3,6%).

 

Diminuiscono le famiglie monoreddito e crescono quelle in cui entrambi i partner lavorano

Tra il 2008 e il 2023 è calata di oltre sei punti la quota di coppie in cui solo l’uomo lavora, provvedendo alle necessità finanziarie della famiglia (dal 33,5 al 25,2% del 2023). Crescono le coppie dual earner, in particolare quelle meno bilanciate, in cui, cioè, uno dei due partner guadagna più dell’altro. Si passa, in particolare, dal 30,4 al 33,8% per quelle in cui è l’uomo il principale percettore e, dal 4,8 al 7,5%, per quelle in cui la protagonista più importante è la donna. Ma aumentano anche le coppie più paritarie, in cui entrambi i partner lavorano e hanno redditi da lavoro di livello simile (27,8 e 29,8%).  Infine, molto raramente (1,4% delle coppie), e in misura minore che nel 2008 (2,3%), è la donna l’unica percettrice di reddito da lavoro, mentre crescono le coppie senza alcun reddito da lavoro (dall’1,9 al 2,3%).

 

In Europa, l’Italia è al terzo posto per incidenza di coppie monoreddito maschili

Nel confronto europeo relativo al 2023, il nostro Paese si colloca al terzo posto (dopo Grecia e Romania) per diffusione del modello monoreddito maschile: il 25,2%, a fronte di una media Ue del 16,1% e di valori ben più bassi soprattutto, ma non solo, nei paesi nordici (in Francia è il 10,5%).

Da segnalare anche che l’Italia è terz’ultima in Europa, insieme ad Austria ed Estonia, in termini di coppie in cui i partner hanno un reddito da lavoro di livello simile; anche la quota di coppie in cui la donna guadagna di più è più bassa della media europea (7,5% contro il 9,3%).

Forti le differenziazioni territoriali. In quattro coppie su 10 del Mezzogiorno la donna non lavora, a fronte di valori inferiori al 20% nelle altre ripartizioni territoriali. Nel Centro-nord sono più diffuse le coppie in cui l’uomo è il principale percettore di reddito da lavoro e quelle in cui il contributo dei due partner è analogo, con differenze rispetto al Sud e alle Isole che superano anche i 20 punti percentuali.

Le coppie in cui nessuno dei partner ha un reddito da lavoro oppure lavora solo la donna sono significativamente più diffuse nelle regioni del Sud e nelle Isole (rispettivamente 8,4 e 7,5%).

 

Il modello monoreddito maschile è più diffuso tra coppie con figli, coppie con stranieri e con basso titolo di studio

Avere figli, soprattutto più di uno, si associa a una maggiore diffusione del modello in cui la donna resta fuori dal mercato del lavoro: infatti, sono a monoreddito maschile il 18,6% delle coppie senza figli, il 22% di quelle con un solo figlio, fino a raggiungere il 32,8% in presenza di almeno tre figli

Le coppie in cui entrambi i partner sono italiani sono mediamente più paritarie delle coppie in cui almeno un partner è straniero. Tra queste ultime infatti è significativamente più elevata la quota di coppie monoreddito maschile: 39,1% a fronte del 22,6% delle coppie in cui entrambi sono italiani, superando il 43% nel caso in cui entrambi i partner siano stranieri

Il livello di istruzione si conferma una variabile chiave nella lettura della distribuzione dei redditi da lavoro. All’aumentare del titolo di studio della donna, cala significativamente la percentuale di coppie in cui l’uomo è l’unico percettore di reddito: si passa dal 42,0% delle coppie in cui lei ha conseguito al più una licenza media, al 24,7% se è diplomata, all’8,5% se è laureata. Al contrario, cresce il numero di coppie in cui i redditi da lavoro dei due partner sono simili – dal 12,7% al 30,3% fino a raggiungere il 46,6% in caso di donna laureata- e di coppie in cui lei guadagna di più, dal 6,0 al 6,8 fino al 10,3%, mentre si azzera la probabilità che la coppia non abbia alcun reddito da lavoro. Il conseguimento della laurea rappresenta uno strumento potentissimo che consente al 57% delle donne in coppia di avere un ruolo di pari o principale percettore di reddito da lavoro rispetto al proprio partner.

La possibilità di contare su un doppio reddito, proteggendo la famiglia dal rischio di povertà, rappresenta un fattore di benessere economico per tutti i suoi componenti. Un quarto delle coppie in cui lavorano entrambi i partner ricade nel quintile di reddito più elevato, a fronte di appena il 3,8% nel caso in cui lei non lavori. Al contrario, se nel quintile più disagiato ricade la metà delle famiglie monoreddito maschile (57,7% per le monoreddito femminili), si riscontrano valori decisamente più contenuti per le coppie in cui entrambi lavorano (3% per le coppie paritarie e, rispettivamente, 6,3% e il 13% per le coppie in cui lui o lei guadagnano di più).Il rischio di povertà infatti riguarda oltre la metà delle famiglie monoreddito maschile e femminile a fronte, per esempio, del 3,9% delle coppie paritarie.

 

Vivere in una coppia in cui i partner contribuiscono in egual modo al proprio reddito migliora il benessere soggettivo

Il 63% dei partner di coppie paritarie si dice molto soddisfatto della vita, a fronte di percentuali di circa il 40% dei partner di coppie monoreddito maschile. La stima con un modello logistico della probabilità che la donna in coppia sia soddisfatta della vita indica che, anche a parità di altre condizioni, sono avvantaggiate le donne che vivono in una coppia paritaria, poiché vivere nelle altre tipologie di coppia si associa a una minore probabilità di essere soddisfatte della vita. Il medesimo modello applicato alla probabilità che sia l’uomo ad essere soddisfatto della vita conferma che rispetto alle coppie paritarie la probabilità di sentirsi soddisfatto è più bassa in tutte le altre tipologie di coppia, ma con l’eccezione di quella in cui la donna è il principale percettore di reddito (in cui la probabilità è più elevata del 35%), presumibilmente grazie ad una funzione rassicuratrice e un impatto positivo del suo maggior reddito sulla qualità della vita.

 

Più basso il contributo al reddito da lavoro familiare delle figlie rispetto ai figli

Le differenti strutture occupazionali, la più elevata età dei maschi all’uscita dalla famiglia, e i divari retributivi di uomini e donne fanno sì che anche il contributo al reddito familiare dei figli occupati sia differenziato in base al genere. Innanzitutto risultano occupati il 61,7% dei figli 18-44 anni celibi che vivono in famiglia a fronte del 54,5% delle figlie nubili, con significative variazioni in base all’età e al territorio. Il reddito da lavoro dei figli occupati copre mediamente il 25,1% del reddito familiare complessivo: tuttavia questo valore varia tra il 22,5% delle figlie e il 26,8% dei figli). Il contributo delle figlie è più basso di quello dei figli in tutte le classi di età e trasversalmente al territorio, al livello di istruzione e alla condizione economica familiare. Va tuttavia sottolineato che anche tra i figli avere un titolo di studio elevato riduce le differenze di genere, pari a 2,9 punti percentuali a fronte dei 6,4 punti per quanti si sono fermati all’obbligo scolastico.

 

I servizi educativi per la prima infanzia sono ancora scarsamente diffusi specie nel Mezzogiorno

L’indagine campionaria, condotta nel 2023 da Istat e Università Ca’ Foscari – Venezia, in collaborazione con il Dipartimento delle politiche per la famiglia, ha rilevato i livelli di partecipazione al sistema educativo dei bambini tra 0 e 2 anni di età con riferimento ai soli nidi e alle sezioni primavera (pubblici e privati), stimando un tasso di frequenza del 28,1%. Dal punto di vista territoriale, la quota di iscritti sui residenti varia dal 17% del Mezzogiorno al 33% del Nord, fino al 37% del Centro, in linea con la disponibilità dei posti nei servizi censiti sul territorio. Si registra quindi una sostanziale saturazione delle strutture disponibili, in particolare nel Mezzogiorno, dove l’offerta è più carente. Proprio in quest’area, infatti, vi è un intenso ricorso all’iscrizione anticipata alla scuola dell’infanzia, che riguarda il 7,3% dei bambini di 0-2 anni, contro il 3,3% al Centro-nord (4,7% la media nazionale).

Uno dei principali fattori che limitano la frequenza del nido è la carenza dell’offerta, storicamente frammentata ed eterogenea sul territorio, nonostante negli ultimi anni siano state introdotte diverse misure mirate al potenziamento e al riequilibrio del sistema, fra cui il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR).

I dati raccolti con l’indagine campionaria sui nidi e le sezioni primavera, riferita all’anno educativo 2022/2023, mostrano che la domanda da parte delle famiglie è in aumento in misura maggiore rispetto all’espansione dell’offerta. Di conseguenza, cresce la quota dei servizi che non riescono ad accogliere tutte le domande di iscrizione e che dichiarano di avere bambini in lista d’attesa: dal 49,1% dei servizi nel 2021/2022 si passa al 56,3% del 2022/2023. I nidi con bambini in lista d’attesa sono molto più frequenti nel settore pubblico (67,6%), ma si registra un esubero delle domande anche nei servizi privati (49,4%).

 

Le ragazze scelgono in prevalenza il percorso liceale per lo più in materie umanistiche

Nell’anno scolastico 2022/2023 sono iscritte a un percorso di scuola secondaria di II grado il 92,8% delle 15-19enni e il 91,7% dei coetanei.

La scelta del tipo di scuola risulta differenziata in base al genere, con le donne, storicamente meno orientate a percorsi tecnico-scientifici, che scelgono in prevalenza il percorso liceale (64,6%), per lo più in materie umanistiche. Al contrario, solo una ragazza su cinque sceglie un istituto tecnico (anche in calo rispetto al 2008/2009), a fronte di due coetanei su cinque, ma solo il 37,4% sceglie un percorso Tecnologico, contro il 74% dei maschi, mentre la gran parte delle ragazze si orientano su quello Economico. Ancora meno numerose (14,6%) le ragazze che optano per un istituto professionale, ma in questo caso il gap di genere è decisamente più contenuto.

 

La presenza femminile è maggioritaria tra gli immatricolati all’università, ma solo il 20% si iscrive a corsi STEM

Le donne mostrano una più marcata propensione a proseguire gli studi dopo il titolo di scuola superiore di secondo grado. Nel 2022, meno della metà dei maschi (45,2%) si immatricola all’università nello stesso anno del conseguimento del diploma, a fronte del 58,2% delle donne.

Anche per l’anno accademico 2022/2023 si conferma la maggiore presenza femminile sul totale degli immatricolati. Sono donne, infatti, il 55,5% di coloro che si iscrivono per la prima volta all’università nei corsi di laurea di I livello e di laurea magistrale a ciclo unico; una percentuale che ha subito solo piccole oscillazioni negli ultimi 10 anni (era il 55,9% nel 2012/2013).

Analogamente a quanto visto per i percorsi scolastici, la presenza femminile è decisamente più contenuta nella maggior parte dei corsi dell’area cosiddetta Stem: il 20,3% del totale delle immatricolate contro il 39,9% circa degli immatricolati scelgono un corso in questa area, valori pressoché stabili nel tempo. In particolare, per i corsi di laurea in Informatica e Tecnologie Ict, su 100 immatricolati, solamente 15,1 sono donne; per il gruppo di Ingegneria industriale e dell’informazione si supera appena il 24%, mentre per quello di Architettura si arriva al 46,6%. Solo nel gruppo Scientifico le donne sono la maggioranza, rappresentando il 59,4%.

Negli ultimi 10 anni il peso della componente femminile per il complesso dei corsi dell’area Stem non è variata in modo significativo oscillando tra il 37 e il 39%. Tuttavia, nonostante diminuisca lievemente il peso delle immatricolate ai corsi nel gruppo scientifico, si osserva una lieve recupero negli altri corsi Stem: nell’ultimo anno, in particolare, la presenza femminile aumenta nel gruppo Architettura e Ingegneria civile (2,8 punti percentuali), ma anche in quello Informatico (+0,9 punti percentuali) e in quello dell’Ingegneria industriale e dell’informazione (+0,7 punti).

 

L’Italia supera l’Europa per immatricolazione femminile a corsi STEM ma non in informatica e ingegneria

Nel complesso l’Italia risulta in linea con altri Paesi europei nella scelta dei percorsi terziari dell’area Stem. In particolare, le ragazze che si immatricolano a percorsi dell’area Stem sono il 21,6% per i corsi di primo livello e il 19,1% per quelli di II livello, percentuali che superano rispettivamente di 5 e 2 punti i valori medi europei. Ciò avviene per la più alta presenza rispetto all’Europa di scienze naturali, matematica e statistica, rispetto ad una minore in informatica e ingegneria. Sono invece i ragazzi a collocarsi sotto la media europea, in particolare per i corsi di I livello.

Alla fine del percorso la mappa delle aree disciplinari ricalca abbastanza fedelmente quella dell’immatricolazione anche se, in analogia a quanto accade nei paesi UE27, appare leggermente più contenuta la percentuale degli Stem a favore di quella dell’Educazione e formazione, di quella Economica-giuridica e di quella della Salute e del welfare

 

In Italia troppe poche laureate: il 37,7% delle 25-34enni contro il 48,8% delle europee

I giovani laureati tuttavia rimangono ancora pochi in confronto a quanto osservato negli altri Paesi europei: la percentuale di 25-34enni in possesso di un diploma terziario, anche se aumenta nel tempo è decisamente più bassa della media europea sia per le femmine (37,1% contro 48,8%) che per i maschi (24,4% e 37,6%) e l’Italia è ancora terzultima nella graduatoria dei 27 paesi europei

Infine anche se si considerano i percorsi formativi post-laurea, nell’anno accademico 2022/2023, le donne rappresentano la maggioranza degli iscritti alle scuole di specializzazione (58,5%) e ai master di I (68,4%) e II livello (59,0%). Sono invece meno della metà nei corsi di dottorato (48,3%) che rappresentano il primo passo per la carriera lavorativa universitaria ancora dominata dalla presenza maschile.

 

Più istruite degli uomini, ma meno occupate

Grazie al maggiore investimento in formazione, le donne in Italia sono mediamente più istruite degli uomini: nel 2023, il 68,0% delle 25-64enni ha almeno un diploma o una qualifica (62,9% tra gli uomini) e il 24,9% è in possesso di un titolo terziario (18,3% tra gli uomini). Le differenze di genere nei livelli di istruzione risultano più marcate di quelle osservate nella media Ue27. Tuttavia, il maggior investimento femminile nell’istruzione non si traduce in un vantaggio lavorativo e gli indicatori che misurano i ritorni nel mercato del lavoro sono generalmente peggiori per le donne.

Nel 2023, il tasso di occupazione di chi possiede un titolo terziario raggiunge l’84,3%, valore superiore di 11 punti percentuali rispetto a quanti hanno un titolo secondario superiore (73,3%) e di 30 punti percentuali in presenza di un titolo secondario inferiore (54,1%). Si conferma, dunque, l’evidente “premio” occupazionale dell’istruzione, in termini di aumento della quota di occupati al crescere del titolo di studio conseguito.

 

Svantaggio occupazionale delle donne italiane per tutti i titoli di studio, ma meno per le laureate

Il confronto con l’Europa mette in risalto il forte svantaggio occupazionale delle donne nel nostro Paese, per tutti i livelli di istruzione, anche se in misura molto più contenuta per il titolo di studio terziario. Nella popolazione con al più un titolo secondario inferiore, mentre gli uomini sono perfettamente in linea con il dato medio europeo (69,1% e di 69,4%), il tasso di occupazione femminile è oltre 10 punti più basso rispetto a quello medio Ue. Nella graduatoria dei Paesi, l’Italia è al quart’ultimo posto, seguita solo da Croazia, Romania e Slovacchia; lontana da Germania, Spagna e Francia (57,0%, 50,2% e 47,5% i rispettivi tassi).

Le donne con diploma non sono in una situazione molto migliore, restando lontane dalle pari europee: il tasso di occupazione femminile è 9,2 punti inferiore a quello medio Ue (62,4% e 71,6% i rispettivi tassi); nuovamente lontano da Germania (80,5%), Francia (70,5%) e Spagna (67,1%), mentre ha un valore superiore solo a quello della Grecia. Anche in questo caso allo svantaggio femminile si contrappone un tasso di occupazione maschile in linea con quello medio Ue.

Le distanze con l’Europa però si riducono significativamente quando le donne sono in possesso di un titolo terziario. Infatti, la differenza tra l’Italia e l’Ue27 nei tassi di occupazione femminili si riduce a 3,8 punti (81,4% e 85,2% i rispettivi tassi). Sebbene l’Italia resti terz’ultima per tasso di occupazione femminile, la distanza con gli altri grandi Paesi europei si riduce a 3,9 punti nel confronto con la Germania, a 3,4 punti con la Francia ed il tasso di occupazione femminile italiano è leggermente superiore a quello della Spagna.

E’ importante inoltre evidenziare come la differenza con l’Europa nei tassi di occupazione femminili abbia registrato un’evidente crescita dal 2008 al 2023 tra le donne diplomate, passando da 2,3 punti a 9,2 punti, mentre sia rimasta stabile tra le donne con basso livello di istruzione (10,3 punti nel 2008) e sia in riduzione per i soli titoli terziari (5,3 punti nel 2008; 3,8 punti nel 2023).

Le diplomate con un indirizzo di studi vocational hanno tassi di occupazione più elevati

Per analizzare i ritorni occupazionali nella popolazione con grado di istruzione secondario superiore è importante distinguere tra gli indirizzi di studio definiti vocational e quelli definiti general. Nel sistema di istruzione italiano i primi includono i corsi degli istituti professionali, degli istituti tecnici, dell’Istruzione e Formazione professionale Iefp, dell’Istruzione e Formazione Tecnica Superiore Ifts e della formazione professionale regionale post qualifica/post diploma di durata uguale o superiore alle 600 ore. Gli indirizzi general corrispondono invece ai licei.

In quasi tutti i Paesi europei, i diplomati con un indirizzo di studi vocational sono avvantaggiati in termini di tassi di occupazione. L’Italia è uno dei Paesi nei quali tale vantaggio è particolarmente evidente sia per gli uomini (+6,1 punti) che per le donne (+5,4 punti), mentre in media Ue il vantaggio è maggiore per le donne (+6,5 punti contro i +3,5 punti negli uomini). Inoltre, mentre nella media Ue si osserva la tendenza a una riduzione del divario di genere negli indirizzi vocational – in Italia, l’ampio gap di genere che si osserva nei ritorni occupazionali degli indirizzi general resta di analoga entità anche tra gli indirizzi vocational (intorno ai 20 punti; in entrambi i casi il più ampio in Europa dopo la Grecia).

Anche all’interno dei percorsi professionalizzanti, la scelta del tipo di scuola secondaria superiore è determinante nella successiva partecipazione al mercato del lavoro. Il tasso di occupazione più elevato, nel 2023, pari all’82,7%, corrisponde alla popolazione tra i 25 ed i 54 anni con un diploma di istituto tecnico, e scende al 74,6% tra i diplomati di istituto professionale. Il tasso di inattività, pari al 12,6% tra i primi, sale al 18,1% tra i secondi.

 

Il divario di genere occupazionale è maggiore per i professionali rispetto ai tecnici

Il divario di genere occupazionale – molto forte tra i diplomati – è maggiore per i professionali rispetto ai tecnici: tra i primi, il tasso di occupazione è 22,4 punti inferiore per la componente femminile (17,2 punti tra i tecnici) ed il tasso di inattività è per le donne 20,8 punti superiore (15,8 punti tra i tecnici) Si osservano marcati divari di genere associati a specializzazioni considerate particolarmente premianti per il mercato del lavoro. Infatti, indipendentemente dal tipo di diploma (tecnico o professionale), il gap occupazionale di genere aumenta tra i diplomati con indirizzo STEM. Il tasso di occupazione dei diplomati di istituto tecnico con questo indirizzo è pari a 91,1% tra gli uomini, mentre scende al 70,7% tra le donne (-20,4 punti); per gli altri indirizzi si passa dall’87,0% al 72,4% (-14,6 punti).

Il tasso di occupazione dei diplomati di istituto professionale con un indirizzo STEM è pari al 90,2%, ma scende al 55,7% tra le donne (-34,5 punti); per gli altri indirizzi si passa dall’81,1% al 63,3% (-17,8 punti). I tassi di inattività confermano la maggiore penalizzazione delle donne con titoli ad indirizzo STEM; in particolare, quando il diploma è professionale, il divario di genere nei tassi di inattività raggiunge i 31,7 punti tra i diplomati con indirizzo STEM, mentre è pari a 17,2 punti per i diplomati di altri indirizzi.

 

I divari occupazionali di genere sono sempre a favore degli uomini anche nelle “discipline femminili”

Anche l’area disciplinare della laurea è decisiva nel determinare importanti differenze nei tassi di occupazione. Nel 2023, il tasso di occupazione tra i 25-64enni laureati nell’area Umanistica e dei servizi è pari al 79,5%, sale all’84,2% per i laureati nell’area Socio-economica e giuridica, si attesta all’86,6% per le lauree ad indirizzo Scientifico-tecnologico (STEM), raggiungendo il massimo valore (88,6%) tra i laureati nell’area Medico-sanitaria e farmaceutica.

I divari occupazionali di genere sono minimi, ma sempre a favore degli uomini, anche nelle discipline a prevalenza femminile: per esempio, per le lauree umanistiche (2,2 punti; 81,2% e 79,0%, rispettivamente) e per quelle mediche-sanitarie (3,3 punti; 90,7% e 87,4%, rispettivamente). Lo svantaggio femminile è invece massimo nelle lauree STEM (-9,2 punti; 90,1% e 80,9%) e nelle discipline socio-economiche e giuridiche (-7,8 punti; 88,6% e 80,8%), sebbene offrano elevate opportunità di partecipazione al mercato del lavoro a entrambi i generi.  In particolare, il tasso di occupazione femminile per l’area “scienze e matematica” è inferiore a quello maschile di 6,3 punti percentuali (80,1% e 86,4% rispettivamente) e per l’area “informatica, ingegneria e architettura” la differenza nei tassi di occupazione raggiunge i 9,3 punti percentuali (81,8% contro 91,1%).

Le disuguaglianze di genere nei tassi di occupazione trovano in parte ragione nella difficoltà di combinare una carriera professionale con un ruolo di responsabilità domestica e familiare.  L’analisi dei divari di genere nei tassi di occupazione per ruolo in famiglia evidenzia una sostanziale parità di genere nei tassi di occupazione dei laureati STEM tra i single, mentre tra quanti vivono in coppia il gap diventa elevato e a sfavore delle donne, accentuandosi ulteriormente in presenza di figli.

 

Scarso l’accesso all’apprendimento continuo: 21° posto tra i Paesi europei

I dati dell’indagine europea sulla formazione degli adulti evidenziano uno scarso accesso, rispetto al resto dell’Europa, all’apprendimento continuo da parte dei cittadini residenti in Italia. La bassa partecipazione alle attività di formazione riguarda sia gli uomini sia le donne, tuttavia, nel nostro paese, lo svantaggio femminile è decisamente più marcato. Se nel resto d’Europa le donne mostrano tassi di partecipazione superiori a quelli degli uomini, nel nostro Paese ciò avviene solamente per coloro che svolgono professioni qualificate.

Come nel resto d’Europa, l’attività formativa degli adulti è prevalentemente connessa con l’attività lavorativa, si può dunque comprendere come i minori tassi di occupazione e il minor accesso alle attività professionali più qualificate tendano a contenere la partecipazione femminile alla formazione. A ciò si aggiungano i costi della formazione e i carichi familiari che frenano ulteriormente l’accesso alle attività formative delle donne.

Dal confronto internazionale emerge come l’Italia sia in ritardo rispetto ai principali Paesi Ue anche per il segmento della formazione non formale: tra gli adulti di 25-64 anni, il tasso di partecipazione alle attività di apprendimento non formale è pari a 34,1% (quasi 10 punti percentuali sotto il valore medio europeo) e colloca il nostro Paese al 21° posto nel ranking Ue27.

Per le donne la distanza dal valore medio europeo è anche maggiore (11,5 punti percentuali) perché, a differenza di quanto accade negli altri paesi europei, le donne in Italia mostrano tassi di partecipazione più bassi degli uomini.

 

Metà dell’occupazione femminile è concentrata in 21 professioni, quella maschile in 53

Nonostante i progressi, la posizione delle donne sul mercato del lavoro è ancora oggi fortemente condizionata da processi di “segregazione” che conducono a una distribuzione non uniforme delle occupazioni tra donne e uomini, concentrando uno dei due generi in determinate professioni o settori di attività. Si parla, in particolare, di segregazione “orizzontale” in presenza di una maggiore concentrazione in un numero ristretto di professioni, mentre il concetto di segregazione “verticale” si riferisce alla difficoltà che sperimentano le donne nell’accesso a professioni qualificate o a posizioni di vertice all’interno delle organizzazioni.

Nel 2023, circa la metà dell’occupazione femminile risulta concentrata in sole 21 professioni, mentre per gli uomini questo valore raggiunge ben 53.

Per la componente femminile tra le professioni più frequenti troviamo le addette agli affari generali e segretarie, le commesse, le badanti, le colf, le infermiere e le operatrici socio-sanitarie, le addette ai servizi di pulizia e le maestre di scuola primaria. Tra le professioni specialistico/intellettuali, troviamo esclusivamente quelle legate all’ambito della formazione, come le maestre di scuola pre-primaria e primaria, le insegnanti di discipline umanistiche nella scuola secondaria superiore e le insegnanti di sostegno. Tra le professioni tecniche, si annoverano le professioni sanitarie e infermieristiche, insieme alle contabili. Il lavoro d’ufficio include, oltre alle già menzionate, addette agli affari generali e alla segreteria, anche le addette alla contabilità. È comune per le donne esercitare professioni nel commercio e nei servizi, come esercenti di negozio, commesse, cassiere, bariste, cameriere, parrucchiere, estetiste, badanti e operatrici socio-sanitarie. Infine, tra le professioni non qualificate, molte donne lavorano come collaboratrici domestiche, addette alla pulizia di uffici e locali commerciali e bidelle.

In generale, rispetto al panorama dell’occupazione femminile, quello maschile risulta molto più variegato: alle numerose professioni dell’ambito operaio e a quelle non qualificate (braccianti, facchini, operatori ecologici) si affiancano le professioni tecniche (informatici, agenti di commercio, geometri) e le professioni qualificate (avvocati, ingegneri, imprenditori e commercialisti)

 

Aumentata la segregazione orizzontale delle professioni

Negli ultimi anni, la segregazione di genere sul lavoro si è andata accentuando; l’indice di Charles, che misura la sovra-rappresentazione (se positivo) o sotto-rappresentazione (se negativo) delle donne in specifici gruppi di professioni, segnala infatti, tra il 2008 e il 2023, un rafforzamento della presenza delle donne nelle professioni già relativamente più femminilizzate (da 0,93 a 1,08).  In questo lasso di tempo, ciò avviene in quasi tutti i gruppi in cui le donne sono maggioritarie, ad eccezione delle professioni tecniche infermieristico-sanitarie: gli aumenti coinvolgono soprattutto il personale non qualificato nelle attività domestiche, ricreative e culturali – tra cui le collaboratrici domestiche –, quelle qualificate nei servizi, il gruppo dei docenti, gli impiegati di ufficio e quelli a contatto diretto con la clientela. Al contempo, si assiste all’espansione della presenza maschile nei gruppi di operai, agricoltori, imprenditori e dirigenti d’impresa. Un’inversione di tendenza, si osserva invece tra i dirigenti della Pubblica amministrazione e tra i medici, dove si registra un aumento delle donne. Dunque negli ultimi anni la crescita dell’occupazione femminile ha riguardato soprattutto le professioni tradizionalmente già a prevalenza femminile – badanti, impiegate, addette alle pulizie – ma anche, seppure meno marcatamente, alcune professioni prevalentemente appannaggio degli uomini.

Nel 2023, tra gli occupati nelle STEM (l’8,7% del totale occupati) solo un quinto è rappresentato dalle donne (19,1%), con un maggiore spazio fra gli specialisti in scienze matematiche, chimiche fisiche e naturali (un terzo degli occupati), tra ingegneri e architetti (23,6%), e un peso ancora meno rilevante fra gli specialisti in scienze informatiche e tecnologiche (ICT al 17,8%) e fra le professioni tecniche in ambito STEM (17,0%).

Lontanissime dall’area della parità anche le generazioni più giovani, sebbene la quota di donne 25-39enni impiegate in area STEM sia di quasi 10 punti più elevata che nella generazione 55-69 anni (22,3% a fronte del 13,2%). A livello territoriale il Centro e il Nord sono le ripartizioni con la quota più elevata di donne occupate in profili STEM, mentre il Mezzogiorno registra un gap ancora più ampio con una presenza femminile ferma al 14,5%.

Ciò nonostante le donne occupate nelle professioni afferenti all’ambito STEM risultano più istruite: 92,7% vs 83,0%, nelle professioni STEM specialistiche e 44,4% vs 19,9% in quelle tecniche.

 

Il soffitto di cristallo è ancora lungi dal frantumarsi

Il soffitto di cristallo continua ad essere una realtà, sia che si guardi alle posizioni di rappresentanza politica e ai vertici delle istituzioni, sia rispetto alle posizioni apicali del contesto lavorativo pubblico o privato. Nonostante la crescente presenza di donne competenti nelle diverse professioni, permane un insufficiente riconoscimento nei luoghi decisionali. Le barriere che ostacolano o rallentano la crescita in ambito professionale delle lavoratrici impediscono loro di raggiungere posizioni di vertice, dando luogo a una segregazione di tipo verticale.

Le donne coprono ancora solo una quota minoritaria dei seggi nel parlamento nazionale. In Italia, nel 2023, le parlamentari donna sono il 33,6%, in linea con la media Ue27 del 33,2%, ma lontano dai Paesi nordici, come Islanda, Finlandia e Svezia, che sono in testa alla classifica europea e vicini a una condizione di perfetto equilibrio con valori tra il 46 e il 47%. Siamo distanti anche da altri paesi mediterranei: in Spagna la presenza parlamentare femminile raggiunge il 43,4%.

Su livelli ancora più bassi la presenza femminile nelle funzioni governative: 29,7% a fronte del 35,2% della media Ue27 e di Paesi come Finlandia, Belgio e Paesi Bassi in cui le donne al governo rappresentano la quota maggioritaria, con valori rispettivamente del 72,4%, 55% e del 53,6%. L’Italia è uno dei pochi Paesi, però, con Presidente del Consiglio donna.

Più equilibrata appare invece la composizione del Parlamento europeo con una presenza femminile che per il nostro Paese si attesta sul 46,1% a fronte del 40% della media europea.

Guardando alla politica locale, la presenza femminile è ancora più contenuta ed è più evidente il ritardo con il resto dell’Europa. La quota di donne elette nei consigli regionali si ferma nel 2023 al 24,5%, collocando il nostro Paese a più di 10 punti di distanza dalla media europea (35,7%) e al 13° posto nella graduatoria dei 19 paesi europei per cui si dispone di questo dato. A ottobre 2024 dei 19 presidenti di Regione solo uno è donna.

Tra i sindaci la rappresentanza femminile si ferma al 15,4%: solo due dei 20 comuni capoluogo hanno sindaci donna. Nessuna donna invece è a guida di una delle 9 città metropolitane, dove anche tra i consiglieri la presenza femminile scende al 30,6%.

Se tra i magistrati ordinari le donne rappresentano la maggioranza (58,6% a marzo 2024), e tra i magistrati con ruoli semidirettivi la composizione di genere si aggira intorno all’area della perfetta parità (con il 46,4% di donne), le cose cambiano, e di molto, tra i magistrati con ruoli direttivi, dove le donne si fermano al 28,8%. Stesso discorso nel settore Sanità: le donne rappresentano, nel 2022, oltre la metà dei dirigenti medici che operano nel Servizio Sanitario nazionale (56%), ma la presenza femminile cala al 38% in presenza di un incarico di struttura semplice e si riduce al 21% nel caso di incarico di struttura complessa (ex primari).

 

Crescita delle donne tra i componenti dei cda delle imprese quotate in borsa, ma tra gli amministratori delegati le donne sono solo il 2,9%

Sebbene, grazie agli interventi normativi si sia consolidato l’equilibrio di genere nei consigli di amministrazione delle società quotate in borsa (la presenza femminile nel 2023 si attesta sul 43,1% a fronte di un valore europeo del 34,2%), le statistiche dipingono un quadro tristemente chiaro: le donne continuano ad essere ampiamente sottorappresentate nelle posizioni di leadership aziendale. E ciò nonostante diversi studi dimostrino i vantaggi anche finanziari di una guida femminile. Restando sulle grandi società quotata in Borsa, nel 2024 in Italia solo il 2,9% degli amministratori delegati è donna a fronte di una media Ue27 del 7,8%, del 21,1% della Lituania (che guida la classifica) e, per fare un altro esempio, dell’8,3% della Francia. Le disparità restano enormi anche se si guarda ai direttori d’azienda. Di nuovo l’Italia si colloca nelle posizioni di coda della graduatoria dei Paesi Ue con il 15,6% dei dirigenti donna, a considerevole distanza dalla media UE27 del 22,7%, ma soprattutto da Paesi come la Lettonia o la Francia, in cui le donne che guidano un’impresa quotata in borsa rappresentano rispettivamente il 32,1% e il 29,9%. Infine ancora nel 2024, nessuna donna ricopre il ruolo di governatrice di una delle banche centrali europee.

 

Solo il 28,8% delle imprese è a conduzione femminile

Sono oltre un milione e 300 mila, pari al 28,8% del totale, le imprese femminili attive nel 2022, dando evidenza della forte e persistente sotto-rappresentazione femminile nel settore: quasi 7 imprese su 10 sono di proprietà maschile, mentre quelle paritarie, in cui cioè la proprietà è equamente divisa tra uomini e donne, rappresentano una componente del tutto residuale (1,6%).

Le imprese femminili sono mediamente più giovani di quelle maschili: il 41,6% ha al massimo 5 anni di vita, a fronte del 34% delle imprese maschili. La differenza resta di 5 punti percentuali anche tra le neo-nate, fino a 2 anni di vita: rispettivamente 25% e 20%. Al contrario, hanno più di venti anni il 21,0% delle femminili contro il 29,1% delle imprese maschili.

Le imprese femminili si caratterizzano anche per un minor numero medio di dipendenti, sia perché sono più numerose quelle che non ne hanno (69,5% a fronte del 64,8%), sia perché il numero di dipendenti, quando ci sono, è più basso.  Il 14,1% delle imprese femminili ha tra i 2 e i 9 dipendenti (contro il 16,8% delle imprese maschili) e solo il 2,8% ha 10 o più dipendenti, contro il 5% delle imprese maschili.

Guardando ai settori di attività economica, meno di un’impresa su cinque del comparto Industria (19,2%) è a guida femminile, si arriva a un terzo delle imprese nel comparto dei Servizi (33,2%). Decisamente contenuta la presenza nel settore delle Costruzioni (6,6%), che si conferma a forte caratterizzazione maschile. Scendendo più nel dettaglio dei settori, si osserva una forte diversificazione nell’ambito manifatturiero con una presenza di imprese femminili che si colloca in media sul 19,4%, ma che raggiunge il 27,9% nel settore alimentare, supera il 30% nel tessile e nella fabbricazione di articoli in pelle e arriva al 50% nella classe Confezione di articoli di abbigliamento, pelli e pellicce.

Le imprese femminili sono più numerose di quelle maschili solo nelle Altre attività di servizi, con il 57,9% di imprese a proprietà femminile. Si collocano nell’area della parità (con valori superiori al 40%) anche le imprese che operano nei settori della Sanità e Assistenza sociale e dell’Istruzione, con valori rispettivamente del 49 e del 44%. Meno equilibrata la composizione per genere negli altri settori dei Servizi, che restano comunque più bilanciati rispetto al comparto Industria e Costruzioni.

 

Metà del personale dipendente delle imprese femminili è donna

Un elemento di particolare interesse, in linea con le evidenze riportate da studi effettuati a livello internazionale, è la forte caratterizzazione di genere degli occupati alle dipendenze degli imprenditori. Il 50,3% del personale dipendente nelle imprese femminili (con dipendenti) è di sesso femminile, a fronte del 38,1% del personale delle imprese di proprietà maschile. Tranne che nelle Costruzioni, ciò avviene trasversalmente ai settori di attività economica, quindi non solo nel comparto dei Servizi tradizionalmente a forte caratterizzazione femminile (58,1% a fronte del 47,1%), ma anche nel comparto Industria dove l’occupazione femminile rappresenta il 33,4% nelle imprese guidate da donne, a fronte del 26,6% di quelle maschili. Considerando i settori più nel dettaglio, la maggiore quota di dipendenti donna nelle imprese femminili si osserva sia nel comparto manifatturiero, con una differenza di 7 punti percentuali (34,4% contro il 27,3% delle imprese maschili), sia nel settore di Fornitura di energia elettrica, gas, vapore e aria condizionata, dove la differenza sale a 10 punti percentuali (33,8% vs 23,4%), fino a superare i 28 punti nel settore Altre attività di servizi, dove la componente femminile dell’occupazione raggiunge l’83,4% nelle imprese guidate da donne e il 55,3% in quelle maschili.

 

Sono 1 milione 500 mila le imprenditrici, mediamente più giovani degli uomini

Nel 2022, gli imprenditori che operano in Italia sono poco meno di 5 milioni; di questi circa 1milione 500mila sono donne (30,3%), con una crescita rispetto al 2015 di oltre 100mila unità (+1,2 punti percentuali).

Grazie ad una più cospicua componente under35, le imprenditrici sono mediamente più giovani dei loro colleghi: hanno un’età media di 49 anni a fronte dei 52 dei loro colleghi maschi. La maggiore presenza di giovani tra le imprenditrici contribuisce ad attenuare, senza cancellarlo, il forte squilibrio di genere. Nella classe di 50 anni e più le donne rappresentano il 26,8% del complesso degli imprenditori. Lo squilibrio si riduce leggermente nella classe di età centrale (33,4%) e in modo più consistente tra i più giovani, dove la quota femminile raggiunge il 37,2%. Rispetto al 2015 la quota di donne è cresciuta in tutte le classi di età, ma soprattutto tra le under35 (+2,3 punti) e tra le 35-49enni (+2,4 punti).

 

Le lavoratrici dipendenti sono a più bassa retribuzione

La diffusione di contratti non standard, declinata sia come ridotto impiego orario che come insufficiente durata dei rapporti di lavoro, è la principale responsabile di livelli retributivi individuali insufficienti.

Un’analisi sulle condizioni retributive dei lavoratori dipendenti mostra come il tema sia particolarmente rilevante per le donne. Nonostante dal 2015 al 2022 – ultimo anno disponibile dei dati provenienti dagli archivi amministrativi –  il numero di donne occupate sia cresciuto più rapidamente di quello degli uomini (+13,3 % contro il +12,8%) e il loro monte retributivo annuo sia cresciuto in termini reali del 5% (contro un più modesto 3,2% degli uomini), il differenziale di genere tra le retribuzioni medie resta piuttosto marcato, superiore ai 6 mila euro su base annua a vantaggio dei dipendenti maschi.

Le differenze di genere nella retribuzione annua media pro capite, in lieve ma progressivo calo nel tempo, si riducono all’aumentare della scolarizzazione, ma per gli individui oltre i 45 anni il divario retributivo resta comunque superiore al 30% fino alla laurea. Nel settore pubblico le retribuzioni lorde annue pro capite sono mediamente più elevate rispetto agli altri settori economici, anche per effetto della maggiore stabilità delle occupazioni.

Nelle imprese dell’industria e dei servizi, l’intensità (regime orario) media dei rapporti di lavoro femminile è inferiore a quella della componente maschile, a causa di una diffusione del part-time molto maggiore tra le donne che tra gli uomini, ed è la principale responsabile del minor livello medio della retribuzione annuale delle lavoratrici dipendenti. L’insieme dei dipendenti che si trovano in condizioni di vulnerabilità retributiva, ossia con retribuzioni inferiori a una soglia minima (il 60% della mediana per la retribuzione annuale; i 2/3 della mediana per la retribuzione oraria), è infatti costituita in prevalenza da donne.

Nel 2022, prendendo come riferimento i soli individui con contratti di lavoro dipendente, ben due donne su tre hanno sperimentato, fra il 2015 e il 2022, almeno un anno di bassa retribuzione annuale e quasi una su tre di bassa retribuzione oraria, con incidenze sensibilmente superiori rispetto alla componente maschile.  La quota di quante non riescono mai a uscire dalla bassa retribuzione (34,2% contro 17,8% per gli uomini) suggerisce come sia più difficile per loro emanciparsi da questa condizione.