Il territorio geografico dell’Afghanistan si trova nel cuore dell’Asia centrale e per questa sua posizione strategica è stata una terra frequentemente sottoposta a invasioni e conquiste da parte di altri paesi limitrofi.
L’Afghanistan ha conosciuto lunghi periodi sordidi a causa di piccole e grandi potenze che hanno esercitato il proprio dominio in nome di interessi strategici. Una storia dannatamente complessa, quella del paese, che è risorta alla ribalta mondiale per essere divenuto il rifugio principale del terrorismo islamico e dell’immagine del suo fanatismo.
Sono ormai decenni che l’Afghanistan rappresenta per l’opinione pubblica internazionale il simbolo di un dominio politico e culturale fra i peggiori, e gli interventi stranieri non sembrano aver modificato di molto questa situazione.
Vittima inevitabile di questi cambiamenti è stata ed è la popolazione, uomini e donne colpiti nelle loro radici più profonde. Ma, ancor più, la condizione subita dalle donne che, come vittime sacrificali, sono state ridotte a meno che niente sul piano umano e fisico, o addirittura a merce di scambio.
Non è stato sempre così, questa terra ha avuto anche grandi momenti di dignità nazionale e culturale; ci sono stati periodi in cui le donne non avevano l’obbligo del velo né tanto meno l’appartenenza al sesso femminile precludeva loro il diritto all’istruzione ed al lavoro.
Nell’ultimo quarto di secolo, però, l’Afghanistan non ha mai conosciuto momenti di stabilità. Nel 1973 il re Zahir venne detronizzato da un colpo di Stato che impose la dittatura militare per cinque anni e fu poi deposto da un contro-golpe degli ufficiali comunisti pro-sovietici. Le dure riforme del nuovo regime militar-socialista scatenarono una rivolta popolare che giustificò l’invasione sovietica del 1979 e la conseguente occupazione militare di tutto il territorio.
Come avviene in ogni conflitto, i conquistatori hanno cercato di imporre le proprie ideologie e la propria cultura. Questa dolorosa forzatura non è venuta meno neanche allora: la cultura russa predicava un’emancipazione femminile che introduceva matrimoni liberi, senza il consenso genitoriale, andando a cozzare inevitabilmente con quella afgana, costituita essenzialmente da una società patriarcale.
Contro il dominio sovietico nacque l’opposizione armata dell’Unione islamica, che riuniva le varie fazioni dei guerriglieri musulmani, i mujaheddin. Essi, con una guerra di logoramento, e con l’appoggio degli Stati Uniti in funzione anti-sovietica, salirono al potere nel 1992 instaurando un regime semifondamentalista.
In quello stesso periodo nacque il movimento dei Taliban, “studenti di teologia coranica”, che proclamavano l’integralismo islamico formando un’organizzazione di stretta osservanza religiosa. I Taliban si fecero portatori dell’ideale politico-religioso per recuperare tutto il portato culturale, sociale, giuridico ed economico dell’ Islam. Imposero poi una dura repressione rivolta in particolare contro le donne.
Il primo editto che essi mandarono in vigore asseriva: “Donne, dovete restare a casa. E se uscite, non dovete vestire abiti alla moda o essere truccate o apparire davanti agli uomini come accadeva prima dell’Islam”.
S’introdusse l’obbligatorietà del burqa, oltre a molte altre proibizioni che avrebbero impedito alle donne di lavorare, andare a scuola, frequentare bagni pubblici, lavare vestiti al fiume, camminare da sole, essere assistite da un medico durante il parto.
Un accanimento contro le donne che portò ad un vero e proprio femminicidio dovuto a fame, infezioni, morti per lapidazione, fucilazioni contro presunte prostitute, dove inoltre ogni accusa, anche senza prove, poteva portare alla morte.
E in questa oppressione perpetrata nei loro confronti le donne persero la dignità di esseri umani. Persero inoltre, insieme a ogni forma di libertà, il diritto allo studio divenendo conseguentemente schiave del sostentamento maschile, e le vedove furono costrette a mendicare o a prostituirsi, spesso a suicidarsi.
Solo per ricordare alcuni casi: nel 2002 fu fatta saltare in aria con esplosivo la scuola femminile di Ghazni, per affermare che le donne non possono avere istruzione; una donna (fonte Apcom) si dette fuoco dopo un tentativo di stupro da parte del suocero; l’Afghan Independent Human Rights Commission documenta come “la vita, per molte donne afgane, era ed è così ancora terribile e dolorosa da preferire la morte, anche se atroce, fra le fiamme. L’organizzazione ha intervistato 800 persone, le cui sorelle, figlie o nuore si sono uccise appiccandosi il fuoco pur di sfuggire alle angherie e agli abusi, ai matrimoni forzati o ad altri comportamenti misogini cui erano sottoposte”.
Eppure, quello che accadeva in Afghanistan nei confronti delle donne, veniva molto spesso raccontato ed esportato secondo un concetto, troppo spesso accettato, o sottociatuto, come il prodotto di una cultura locale che doveva essere rispettata come qualsiasi altra cultura differente.
Ecco perché, circa tre mesi fa, la firma che l’attuale presidente afgano Karzai ha apposto sulla proposta di legge che legalizza di fatto lo stupro all’interno delle mura domestiche e che obbligherebbe la moglie ad avere rapporti con il marito quando e quanto vuole, anche se non consenziente, rappresenta la certificazione del fallimento di qualsiasi forma di democrazia.
È questa, infatti, una normativa che non fa altro che reintrodurre i rigidi principi della legge coranica, così come era stata imposta dai talebani in molte zone del paese, oltre a rendere possibile, di conseguenza, l’orribile esecuzione per la lapidazione delle donne adultere.
La vita delle donne, in un Afghanistan martoriato, non ha né prezzo né valore. Le persecuzioni che nel tempo esse hanno subito ogni qualvolta abbiano tentato una politicizzazione del loro genere o abbiano svolto campagne di sensibilizzazione anche all’estero, cercando di divenire cittadine visibili a tutti gli effetti, stanno a dimostrare il prezzo che esse stanno pagando all’integralismo e al fanatismo che ancora vige in quel paese.
È stato scritto, e non si stenta a crederlo, che le donne siano state usate, ancora una volta, come merce di scambio in vista delle prossime elezioni presidenziali di agosto, che vedranno per l’appunto il presidente Hamid Karzai impegnato nella raccolta di voti; voti e sostegno, specie fra i fondamentalisti islamici che guardano al programma elettorale come a un traguardo per le loro idee. O anche, come ha insinuato il giornale “The Independent”, tale provvedimento di legge potrebbe essere il frutto delle pressioni dell’Iran, che mantiene uno stretto legame con la minoranza sciita afgana.
Neanche le posizioni espresse dalla comunità internazionale, Stati Uniti e Occidente, sembrano scuotere troppo il governo afgano, che dice di voler rivedere questa legge, ma che a oggi ancora non risulta averla né ritirata né modificata. L’Italia, sottolineando la propria disapprovazione, ha chiesto di cancellare la norma sottolineando come “non possiamo aiutare un amico come l’Afghanistan senza che torni indietro su questa cosa che offende non le donne, ma tutti noi”.
Intanto, a Kabul è stato commesso un omicidio nei confronti di una consigliera provinciale di Kandahar, Sitara Achzai, colpevole di promuovere attività in favore dei diritti femminili; una giovane coppia, fuggita dalle famiglie per sposarsi è stata fucilata. Le storie di questo tipo non finiscono qui. Molti altri sono i nomi di donne, più o meno visibili, che continuano a sparire.
Le donne, per prime e con coraggio quelle afghane, hanno manifestato il loro dissenso contro il tentativo di far passare la legge che legalizza lo stupro; rendendo visibile la forza del loro movimento, ma questo grido appare ancora troppo flebile rispetto alle logiche degli interessi politici.
La sconfitta della dignità, della libertà e dei diritti umani delle donne afgane non può passare che attraverso la sconfitta di tutte le donne che, per queste conquiste, hanno pagato nel tempo prezzi altissimi.
Minerva, Focus/Donne e Islam, 10 febbraio 2010