“Le mie impronte digitali
prese in manicomio
hanno perseguitato le mie mani
come un rantolo che salisse la vena della vita,
quelle impronte digitali dannate
sono state registrate in cielo
e vibrano insieme ahimè alle stelle dell’Orsa Maggiore.”
Alda Merini
Che dirvi sulla poetessa tanto discussa, quanto ribelle e “diversa” nel panorama degli intellettuali italiani? La prima cosa che subito mi preme ricordare è quanto avesse sofferto il manicomio, all’epoca, prima della Riforma Basaglia, contesto di umiliazione e sofferenza e poca cura.
Chi non sa nulla di lei, deve apprendere che Alda Merini finì in manicomio perché aveva avuto un agito in famiglia e il marito, all’epoca figura che poteva decidere del destino della moglie, allertò il reparto del “Paolo Pini”, ospedale psichiatrico milanese, per ricoverarla. Ci stette circa dieci anni. Anni in cui la sua dignità venne meno totalmente, i suoi sogni furono distrutti per le forti ristrettezze fisiche, umiliazioni e pene morali in cui visse. Condizioni di sostentamento non adeguate e giacigli di fortuna nel parco adiacente. All’inizio i degenti erano separati, gli uomini erano posti in un padiglione, le donne in un altro. Successivamente gli uni e le altre poterono incontrarsi e questo procurò loro sollievo e amicizie. Le cure erano sotto forma di pesanti elettroshock, oppure di medicine/terapie da “imbottimento” per sedare brutti nervosismi e forti disagi mentali, in cui la personalità, ovvero la soggettività della persona veniva annullata.
Nel periodo di degenza, Alda Merini ebbe la fortuna di essere presa in cura da uno psichiatra, il Dr. G., che le prescrisse come forma di terapia autogestita, di scrivere ciò che provava, i suoi traumi sugli uomini, probabilmente sul padre.
Così nacque Alda Merini poetessa e scrittrice, già insegnante. All’epoca del trattamento proposto, il Dr. G., era un medico che amava, a dire della Merini, la psicoanalisi, che da sempre fondava il suo metodo con la talking cure, la cura della parola. Quale più potente cura per un disagio psicologico così invalidante, come quello dell’ascolto del disagio mentale e della sua scrittura terapeutica?
Nella mia pratica da psicoterapeuta, io stessa svolgo le stesse attività o funzioni, e, a volte, metto per iscritto le mie idee per un libro o appunti sui miei pazienti. Perché la parola riconosciuta, letta, riflettuta, non è più amorfa e apatica, mortifera, ma portatrice di nuove cose ed energie. C’è un potenziale Altro che le legge, magari le ascolta con il cuore, con il cervello empatico e ne è attratto.
Perché affascinarsi di una “diversa”, come la figura di Alda Merini? Perché, come dice il titolo di questo articolo, esiste una questione dell’inclusività, di accettare il dolore che può essere presente in ciascuno di noi, senza averne la fobia. E’ ”normale” includere la sofferenza. Piuttosto la si accoglie, la si ama, non la si rifugge o la si nega. Questi sono i cardini della mia pratica psicoterapeutica, in cui il soggetto non si sente giudicato e i farmaci possono essere utili integratori alimentari, niente di più.
Con l’apertura dei manicomi e la creazione di strutture territoriali di accoglienza di utenti psichiatrici, come le comunità stesse, nell’applicazione della Legge Basaglia, emanata grazia al grande psichiatra italiano Franco Basaglia, si è permesso un enorme passo avanti nell’includere la diversità e la sofferenza psicologica.
Oggi , ancora, si deve proporre un ulteriore avanzamento per una cultura civile e rispettosa dell’”errore” umano, nell’accettazione di esso, offrendo la possibilità sempre più, di riabilitarsi e giocarsi la propria vita, andando avanti, imparando a stare in piedi, a testa alta, però!