Dopo la morte di Pietruzzu Anastasi, indimenticato campione di calcio
che ha costruito una parte importante dal punto di visto sportivo e sociale d’Italia, ho cercato in tutti i modi di incontrare Anna, sua moglie e compagna di vita. Ricordo di avere fatto di tutto e pure qualcosa di più per incontrarla, telefonarle, parlarle, proporle un’intervista, un ricordo di Pietro. Ma niente, ogni tentativo è stato vano. Poi, dopo tanti anni, quando pensavo di avere perso ogni speranza, ecco che un’opportunità si presenta a me grazie all’amico collega varesino Claudio Ferretti, il quale mi ha fatto da gancio per arrivare ad Anna.
Così, infinitamente grato di avermi aiutato anche attraverso le tante foto che ricordano ancora il mio rapporto di amicizia con Pietro e Anna – che si era rinsaldato nel tempo – ecco che con molta emozione telefono. “Pronto? Anna? Si? Sono Salvino Cavallaro, ricordi? Certo che sì, come state tu e Rosa? Noi bene, ma io voglio sapere come stai tu, cara Anna…….” E da qui parte tutta una narrazione lunga più di un’ora di telefonata, piacevole, emozionante, struggente, come quando si rievoca la figura, i momenti, il vissuto di una vita insieme alla persona che oggi non c’è più.
E dopo averle chiesto quella vecchia intervista mai realizzata per i motivi che ho detto pocanzi, ecco che Anna mi dice che è disponibile a parlare di Pietro e della loro lunga vita trascorsa insieme, fino l’ultimo giorno in cui Pietro ci ha lasciato. “Chiamami, magari tra quindici giorni, così facciamo l’intervista”. “Grazie Anna, ti telefonerò!”. E così oggi cominciamo insieme quella narrazione di calcio che si interseca alla vita, la loro vita insieme.
Anna, come vi siete conosciuti con Pietro?
“E’ stata una mia amica a presentarmelo. Mi ha detto che era un calciatore, ma io non ci tenevo tanto, anche perché ero molto presa con il mio lavoro. Mi disse che Pietro mi aveva notata in qualche occasione e così accettai di conoscerlo in un giorno in cui andammo insieme a incontrarlo in un bar di Varese. Ci siamo visti e ci siamo subito piaciuti. Da qui nacque la nostra lunga, meravigliosa storia d’amore insieme”.
E’ vero che quando l’hai presentato per la prima volta ai tuoi genitori, tua mamma non era contenta di lui?
“Presentato per modo di dire, perché mia mamma non voleva e si è dichiarata subito contraria. Pensa che quando uscivo di casa per vedere Pietro e tornavo a casa un po’ in ritardo nascevano i problemi. Così come successe quella volta in cui, nel giorno del compleanno di Pietro, ci trovammo con Burlando, un suo collega calciatore e la sua fidanzata, per festeggiare. Ricordo che Pietro mi chiese se i miei genitori mi avevano dato il permesso di uscire per vederlo. Io gli dissi di no, ma nonostante tutto sono uscita lo stesso. Poi, in altre occasioni, Pietro telefonò a casa mia per chiedere il permesso ai miei genitori e papà gli rispose che andava bene, perché aveva piacere di conoscere chi erano le persone che uscivano con sua figlia. E’ stato bello quel periodo e, soprattutto, devo dire grazie alla mamma di Pietro che telefonò ai miei genitori per rassicurarli di tutto e li invitò come ospiti in Sicilia. Alla fine, mia mamma, nonostante il suo carattere un po’ difficile, ha voluto tanto bene a Pietro, mentre mio padre era di carattere più aperto. Loro hanno capito quanto ero innamorata di Pietro. E così a giugno del 1970 ci siamo sposati”.
Anna, ma chi era veramente Pietro Anastasi nel profondo della sua anima?
“Tutto. Credimi, davvero, Pietro era proprio tutto. Gli dicevo sempre “Sei la mia vita”, perché per me era tutto. E ancora adesso Pietro è sempre tutto. Tutto quello che faccio, che penso, che ricordo, che vivo. E’ tutto!”
Un amore lungo, durato una vita insieme. Due figli maschi e un percorso di vita felice.
“Sì, con Pietro sono sempre stata felice. Pensa che quando usciva per andare agli allenamenti non vedevo l’ora che ritornasse per rivedere il sole. Sì, il mio sole che scaldava e mi dava luce”.
Cosa ricordi degli anni vissuti a Torino, quando Pietro giocava nella Juventus?
“In quegli anni avevamo i bambini piccoli e facevamo una vita tranquilla. Pietro andava a fare gli allenamenti, tornava a casa e qualche volta andavamo a cena fuori in un ristorante di Torino in cui andavano a mangiare tutti i giocatori della Juventus. Era un periodo tranquillo, non mondano. Solo ogni tanto quando c’erano le cene organizzate dalla Juventus per festeggiare gli scudetti, ci ritrovavamo con tutti i giocatori, lo staff, i giornalisti, il presidente Boniperti, Gianni e Umberto Agnelli. Insomma, è stato bello vivere quegli anni”.
Perché in quel tempo ormai lontano, Pietro ha rappresentato il simbolo della rivincita di tanti meridionali che dal Sud si sono riversati in massa nelle città del Nord per lavorare in fabbrica?
“E’ stato un periodo storico in cui il boom dell’industrializzazione ha cambiato il modus vivendi e operandi degli italiani. Pietro ha rappresentato l’orgoglio e la rivincita di tanti meridionali, perché in lui si rivedeva quella figura di meridionale venuto da un Sud povero che poi ha avuto successo nella vita. Lui era amico di tutti. Non faceva differenza. La sua generosità l’ha portato a essere amato da tutti”.
Anna, tu varesina doc e Pietro un vero siciliano di Catania. All’inizio, come hai vissuto il rapporto con una terra dalla cultura completamente diversa dalla tua?
“Tieni conto che la prima volta che sono andata in Sicilia è stato nel 1968. Tuttavia, contrariamente a quanto si diceva, io tutta questa differenza non l’ho trovata. Anzi, ti dirò che a volte mi sembrava di essere a Varese. L’ambiente della famiglia di Pietro era composto da persone semplici, umili, ma con mentalità moderna, per quel periodo. Io capivo il siciliano e mi divertivo ad ascoltarlo. Certo, magari notavo che le donne uscivano accompagnate, ma non tutte in verità, in quanto qualcuna cominciava a lavorare e aveva una sua autonomia”.
E intanto i giorni e gli anni passano felici e senza intoppi di sorta. Poi, un giorno, la malattia di Pietro. Cosa è successo, lo ricordi?
“Lo ricordo perfettamente. Mi ero accorta da qualche tempo che qualcosa non andava, era stanco e sentivo che c’era qualcosa di nuovo, di diverso dal solito. Una volta, invitati dalla Juventus Legend, siamo stati invitati a una cena allo stadio. E li ho visto che Pietro non riusciva a tenere bene le posate in mano per mangiare. L’ho detto a Pietro e lui mi rispose che non capiva perché la mano non rispondesse al giusto movimento. Ecco, lì sono cominciate le prime avvisaglie della malattia. Il medico gli ha ordinato di fare tutta una serie di esami e poi siamo andati da alcuni specialisti di Torino e Milano, mentre siamo andati avanti a vivere insieme il percorso della sua malattia”.
“Mi devi promettere che mi fai morire”. Una frase che Pietro ti disse per sfinimento. E’ così, Anna?
“Sì, lo ricordo molto bene. Anche se io non glielo avevo mai detto chiaramente, Pietro aveva capito che la sua malattia era simile a quella dell’ex calciatore Borgonovo. Si trattava della SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) quella grave malattia che attacca i muscoli e ti porta a non essere in grado di parlare, se non per mezzo di un sintetizzatore vocale. Così Pietro mi disse di giurare di portarlo in Svizzera per accompagnarlo alla morte. “Però me lo devi giurare, Anna” – “Sì, Pietro, te lo giuro!”. Non sapevo ancora come si potesse fare in Italia. I medici che venivano a visitarlo mi consigliavano di ricoverarlo in ospedale, ma io gli dicevo di no. Finché mi sono convinta per stanchezza di ricoverarci insieme in ospedale a Varese. Pietro voleva che io stessi sempre accanto a lui e io non l’ho mai lasciato solo. Tranne una volta che nel corso di una visita medica sono rimasta fuori dalla sala. A un certo punto una infermiera mi si è avvicinata per dirmi che Pietro aveva deciso di addormentarsi. Guardavo Pietro e lui mi guardava. In quegli sguardi ho visto la sua implorazione. E in quell’attimo, in quel “mi devi aiutare a morire”…..”.
Anna, cosa resta oggi di Pietro che non c’è più?
“Di Pietro resta tutto. Tutto ciò che è stato ieri, è oggi, e sarà per sempre. Vivo a casa con i miei ricordi, non ho più voglia di andare da nessuna parte. Non sono più andata in Sicilia, tranne una volta per una inaugurazione. Quando andavo via da Varese ero sempre con lui, eravamo insieme e ogni cosa non aveva senso farla da soli. Purtroppo quella malattia è stata pazzesca, perché se Pietro fosse stato affetto da un’altra patologia gli avrei dato qualcosa di me, che so, ad esempio i miei organi. E invece tutto è stato inutile. Sono passati cinque anni e mezzo dalla sua morte, ma lo sento ancora qui con me, nella nostra casa, tra i ricordi, le fotografie che ripercorrono la nostra vita insieme”.
Se potessi tornare indietro nel tempo, cosa faresti e cosa non faresti più con il senno di poi?
“Non cambierei niente. Assolutamente niente. Rifarei la stessa vita con Pietro. E’ stato tutto molto bello. Anche se nulla è per sempre!”.
Anna, c’è ancora qualcosa che ti piacerebbe raccontare di Pietro? Un aneddoto ad esempio che potrebbe essere legato al suo essere molto geloso di te?
“Pietro non dimostrava gelosia. Era sicuro di me, sapeva quanto lo amassi. Gli sono stata accanto fino alla fine. Lui era molto generoso.”
E’ vero che a Varese si sta lavorando per intitolare un centro sportivo o qualcosa di simile con il nome di Pietro Anastasi?
“Mia nipote si sta interessando per questo. Il sindaco di Varese sembra abbia promesso qualcosa del genere. In Sicilia già qualcosa s’è fatto.”
Per finire, Anna. Oggi che Pietro non c’è più, che rapporto hai con il tempo che fugge via inesorabile?
“Ogni giorno che passa mi chiedo come faccio a vivere senza Pietro. E mentre il tempo passa, vola via inesorabilmente col passare dei giorni, delle settimane, dei mesi e degli anni, mi faccio sempre la stessa domanda: “Come faccio a vivere senza il mio Pietro?”.
Salvino Cavallaro

