Basta il test del dna a inchiodare il padre naturale: niente obbligo di comunicazione per le indagini successive
Prove ematologiche molto attendibili. Sufficiente l’indicazione dell’inizio delle operazioni peritali, spetta alla parte informarsi sul prosieguo
Il test del dna è da solo idoneo a dimostrare il rapporto di paternità per l’elevato livello di probabilità di fondatezza del responso dell’esame. Per le indagini successive non sussiste l’obbligo di comunicazione: incombe alle parti l’onere di informarsi sul prosieguo al fine di parteciparvi. Lo ha sancito la Corte di cassazione che, con la sentenza 9659 del 22 aprile 2013, ha respinto il ricorso di un 85enne contro la decisione della Corte d’appello di Salerno che lo ha riconosciuto padre naturale del figlio nato dalla donna con la quale ebbe una relazione di dieci anni mentre era sposato con un’altra signora.
Per la prima sezione civile, in linea con la Corte di merito, ha ritenuto legittimo tale riconoscimento in base ai risultati espletati dal ctu che, dagli esami del dna, è emersa la forte probabilità della paternità. Insomma: le prove ematologiche, per gli elevati livelli di probabilità raggiunti, sono da sole idonee a fornire la dimostrazione del rapporto di paternità. Dunque, le operazioni fatte successivamente, quali l’estrazione del dna e la quantificazione mediante spettrofonometria, sono indagini di laboratorio che da sole sono sufficienti ad attestare tale stato. Poi, ad avvalorare la tesi, ci sono stati i testi che avevano fornito ulteriori elementi probatori, ponendo in luce la relazione sentimentale tra i due. E ancora, si legge in sentenza che «in tema di consulenza tecnica d’ufficio, ai sensi degli articolo 194 Cpc e 90 Cpc, alle parti va data comunicazione del giorno, ora e luogo di inizio delle operazioni peritali, mentre l’obbligo di comunicazione non riguarda le indagini successive, incombendo alle parti l’onere di informarsi sul prosieguo di questa al fine di parteciparvi». Nel caso in esame, il ricorrente non si è presentato alle operazioni di prelievo dunque «non può, pertanto, dalla circostanza invocata dall’attuale ricorrente inferirsi l’inapplicabilità, nella specie, del consolidato principio di diritto secondo il quale la nullità della consulenza tecnica derivante dalla mancata comunicazione alle parti della data d’inizio delle operazioni peritali, ha carattere relativo, e pertanto deve essere eccepita, a pena di decadenza, nella prima udienza, istanza o difesa successiva al deposito della relazione, del quale, ai sensi del secondo comma dell’articolo 157 Cpc, sia data comunicazione nelle forme di legge al difensore della parte interessata». Pertanto, al ricorrente non resta che pagare 3.200 euro di spese.