Disabilità? Autismo? Mutacismo?

da | Mar 19, 2023 | Salute e benessere

Storia di Marcella, ovvero della “chiusura” mentale di un’ adolescente e di come adesso vive nella dignità.
Parlarvi di Marcella è un po’ come aprirsi al mondo della clinica sperimentale, ma anche nello studio della disabilità svolto da Angelo Villa e, prima ancora, da Bruno Bettelheim. Entrambi
questi due autori definiscono il campo sia della disabilità grave, come può essere una persona che non gestisce l’;uso del linguaggio simbolico e fa fatica a comunicare, il secondo, autore classico ma
intramontabile a mio parere, pensa che l’autismo sia una dimensione psicopatologica legata al sistema dell’Altro di riferimento, molteplice. Insomma, per Bettelheim era fondamentale il creare
una struttura relazionale, un sistema di legami e conoscenze, che interagissero con il soggetto autistico in modo terapeutico, che faceva sì che la persona sofferente e che viveva in una “torre d’avorio relazionale”, bloccato e apparentemente privo di capacità emotive, potesse imparare nuovamente a scambiare parole in modo spontaneo e libero, con un vis-a-vis interlocutorio con gli altri.
Angelo Villa pensa, alla stregua di un Freud che è si interessato di soggettività dei diversamente abili, che il soggetto, chiunque esso sia, abbia funzioni relazionali, una struttura edipica molto simile, ovvero è un soggetto sensibile di intrattenere con gli altri una comunicazione pregna di amore e di costruire legami in famiglia, come nell’ambiente in generale, con il segno dell’Edipo, ovvero come i “normali”.
Quest’ultimo mi ha insegnato, in supervisione, che le mamme che divorano simbioticamente i loro figli di tanti baci e carezze, molteplici attenzioni e seduzioni, sono madri non buone, non tenere o dolci, ma incapaci di mantenere la giusta distanza tra sé e il figlio, di non avere nella propria dimensione relazione la triade edipica, ovvero con l’Altro, includente la funzione paterna simbolica normativa del proprio godimento pulsionale.
Marcella è stata mia paziente, a Monza, circa 12 anni fa. Adesso ha 28 anni, all’epoca aveva appena compiuto 16 anni. Frequentava il terzo anno di una scuola professionale di taglio e cucito
presente nell’hinterland milanese. Si presentava come un’adolescente esile, sembrava ad occhio smagrita in fretta da come vestiva, dall’espressione triste, se non tragica.
Mi chiederete come l’ho conosciuta?
La madre di Marcella, molto in allarme per come vivesse la figlia, chiese di me ad un medico mio collaboratore per intervenire sulla sua salute mentale ed equilibrio psicofisico, secondo tutti in famiglia precari e a rischio.
Ma cosa aveva di evidente la vita psichica di Marcella? Non usciva più di casa, ovvero era terrorizzata dell’ambiente esterno, evitava di andare perfino a scuola. Così per un periodo non frequentò le lezioni. Inoltre piangeva in modo improvviso, quasi senza motivo e ininterrottamente.
Non riusciva più a comunicare i propri bisogni, quasi era mutacica, senza la possibilità di espressione, priva di parola.
Ma come sarà successo che io ci parlassi, o almeno la incontrassi, allora, viste le sue condizioni? Feci per un periodo di un mese di sedute di psicoterapia in forma domiciliare, nella sala con salotto di casa sua. I suoi genitori erano fiduciosi nella riuscita della mia cura, attendevano con riservatezza la fine di quelle sedute, cercando dopo di chiedermi come dovevano stimolare la loro figlia e soprattutto descrivendomi i suoi sintomi e chiedendomi spiegazioni rispetto ad essi. La loro riservatezza fu uno strumento di separazione simbolica dai legami familiari, che permise a Marcella, secondo me, di acquisire un certo rispetto di sé e una sua percezione sempre più adeguata.
La madre venne in seduta da me in studio durante quel periodo e, successivamente ho fatto anche sedute con entrambi i genitori. Questi incontri erano volti a permettere l’autonomia del soggetto da loro. Anche loro erano in parte a disagio psicologico, derivante in parte da come i legami erano dipendenti e impauriti da questa regressione psicologica, emotiva. Infatti, alla base, le paure erano a volte fin troppo giustificate dai genitori, che svolgevano una vita attiva anche lavorativa, ma coinvolti emotivamente, tanto da non distinguere il senso della paura o dell’ansia del figlio da un motivo di razionale. Ovvero, giustificavano, all’inizio e pensavano, dopo aver scoperto che la scuola era il suo principale motivo o causa di disagio psicologico, che i professori avessero avuto una “colpa” nel ridurlo così con la loro eccessiva severità, per esempio.
Ma è anche come si vive la severità e l’autorità che determina il vissuto di angoscia che probabilmente Marcella stava soffrendo. Così andai a parlare con il coordinatore della scuola di Marcella. Nonostante tutto esiste proprio la soggettiva maniera di percepire le cose, che se è vissuta come traumatizzata in senso stretto e personale, non permette di vivere in modo sereno e fa filtrare la realtà in modo drammatico. Al coordinatore, che mi ascoltò con attenzione e cura, dissi principalmente di avere una cautela particolare ad interagire con Marcella, descrivendo la sua delicatezza e sensibilità. Come mi avevano insegnato Bettelheim e Villa.
Con la madre e il padre, soprattutto con la madre, il mio lavoro fu di distaccarli dal loro legame fusionale con Marcella, e di creare soprattutto nella madre l’idea che Marcella potesse avere un suo posto in autonomia, nella vita, cioè in società, per creare e facilitare nella figlia un’identità, favorirle una rappresentazione possibile di “identità riuscita”, aiutarla nel permetterle un adattamento psicosociale dignitoso, come anche Charles Melman mi ha insegnato nei suoi libri e a lezione.
Il padre aveva il compito di riconoscere Marcella nella sua evoluzione e miglioramento e di darle un supporto condizionante propositivo e positivo, di stimolarla a dialogare con lui in modo da confrontarsi il più possibile con lui, riferimento razionale e lucido, sulla sua fobia scolastica, che finalmente poteva essere superata.
Dopo alcuni interventi in domiciliare, suggerii per la giovane Marcella, anche un apporto leggero, ma efficace di terapia farmacologica, che aiutò il miglioramento della paziente. Dopo questo periodo, la terapia fu gradatamente diminuita, fino a farla cessare dopo circa un anno.
Marcella incominciò a uscire per venire in studio inizialmente accompagnata dalla madre o dal padre o dal fratello maggiore e, successivamente, si presentava in studio, puntuale all’appuntamento, dopo aver percorso il tragitto in autonomia. L’intero percorso di psicoterapia con lei, durò circa 2 anni e mezzo, a cadenza settimanale in principio, poi da metà circa della cura, Marcella frequentò con cadenza bisettimanale.
Marcella legò transferalmente con me, tanto da proporle un percorso di comunità diurna con esperienza occupazionale, grazie alla quale poté diventare una cartamodellista, un lavoro nel campo della sartoria, che adesso, in modo autonomo, svolge.
Nonostante non avessi la necessità di formulare una psicodiagnosi precisa psichiatrica, ma di ottenere una direzione psicoanalitica della cura, ho testato Marcella con un test di Rorschach… Cosa aveva in comune ad altri test dei “normali”…? Proprio la tavola V, la cosiddetta “della realtà”, ovvero Marcella condivideva e si poteva trattare con lei della quotidianità e mostrava che era inserita nella dimensione reale.
A scuola, nel suo materiale di indagine psicodiagnostica creato dallo Uonpia di Milano, mi avevano mostrato un suo test di intelligenza, la Wisc, con punteggio circa di 80, punteggio che con un retest, dopo aver superato la sua crisi, diciamo così, aveva totalizzato circa 8 punti in più, totalizzando 88 punti Cosa significa questo? Che il lavoro di miglioramento psicologico che può far ottenere la psicoterapia, aumenta le prestazioni cognitive, quindi anche quelle dell’intelligenza o del pensiero in generale, producendo una ricchezza personale di risorse mentali varie e buone.
Sono molto contenta di aver aiutato una giovane ragazza, così dapprima in difficoltà, priva inizialmente di possibilità di relazione, ad emergere dai suoi sintomi, dalla sua angoscia. Credo che avere un punto di vista nell’ascolto e nella strutturazione soggetti delicati e fragili, ma umanizzati da una clinica di dignità e inclusione, possa davvero essere utile.
L’istituzione scolastica, quella sanitaria e non da ultima quella della famiglia, in questo caso si sono compenetrate e compensate in modo armonioso e per una volta in profonda sinergia.