di Caterina Flumanò e Adriana Martinelli, introduzione di Pietrangelo Buttafuoco – Croce Libreria
La spiritualità della donna, le sue competenze e la sua creatività hanno influito, traendone a loro volta impulso ed arricchimento, sullo svolgimento dei giubilei nel corso dei secoli.
Come si sono comportate le donne nei loro spazi: casa, convento, palazzo, bottega, locanda? Qual è stato il loro ruolo? Come hanno conciliato i loro doveri di madri, mogli, badesse, dame, locandiere con i molteplici impegni che l’anno santo imponeva? L’esperienza sia spirituale che operativa di alcune donne che hanno avuto un ruolo particolarmente significativo nel corso dei giubilei ci potrà dare una visione meno conosciuta e più completa di un evento così importante. La ricerca prende in considerazione le mistiche e le devote, quelle dedite all’organizzazione della cultura e dell’assistenza e le numerose, spesso anonime, artigiane che con il loro spirito d’iniziativa hanno contribuito alla buona riuscita dell’ospitalità romana.La vita di santa Brigida di Svezia, della bella Smeralda, di santa Francesca Romana, di Lucrezia Borgia, di Vannozza de Cataneis, di Artemisia Gentileschi, di Olimpia Pamphili, di Matilde Serao e tante altre, possono dare una visione più originale e più sorprendente della storia dei giubilei. Storia che segue le alterne vicende della Chiesa: dal volontario esilio dei papi in Avignone, che si protrasse per quasi tutto il 1300 e causò l’impoverimento e l’emarginazione di Roma, allo sviluppo culturale, artistico ed economico della città eterna nei secoli successivi, anche ad opera di pontefici lungimiranti e mecenati. Nacquero le confraternite, associazioni laicali con scopi religiosi e filantropici, i conservatorii per donne e bambini, gli oratorii, gli ospedali, seminari e collegi; vennero esaltati rituali devozionali come le solenni processioni, le liturgie-spettacolo, le predicazioni; si stabilirono inoltre nuovi cerimoniali legati in parte alla vita dei giubilei, come l’apertura e la chiusura della porta santa, il giro delle sette chiese, i pellegrinaggi, l’accoglienza dei romei organizzata secondo precisi schemi dell’Arciconfraternita della Santissima Trinità dei pellegrini. Si realizzarono grandi opere architettoniche ed urbanistiche che avrebbero reso Roma una delle città più belle del mondo.
Caterina Fiumanò, laureata in Scienze Politiche alla Sapienza di Roma, giornalista, regista Rai dal 1970 al 1995, Premio Saint Vincent per l’Economia nel 1981.
Adriana Martinelli, laureata in Lettere alla Sapienza di Roma, giornalista, regista Rai dal 1972 al 1995.
Insieme hanno pubblicato diversi lavori:
Vita quotidiana nel Quattrocento, saggio compreso nel volume, da loro curato Cristoforo Colombo nella Genova del suo tempo, ERI, 1985. Prefazione dello studioso dell’epopea di Cristoforo Colombo, Paolo Emilio Taviani.
Cristoforo Colombo e la cucina del suo tempo, ERI, 1985.
Garibaldi ti amerò, ERI, 1986; dedicato al mondo femminile ottocentesco correlato con l’eroe e con l’idea del Risorgimento. Prefazione di Susanna Agnelli.
La lingua lacerata di Malinalli, Nuova ERI, 1991; sulla storia delle donne dell’America Latina, dal periodo precolombiano ai giorni nostri. Prefazione della storica venezuelana Elizabeth Burgos Debray.
Le trasformazioni urbanistiche e le opere straordinarie realizzate a Roma. I giubilei della storia, Roma, 2000, Premio Presidenza del Consiglio dei Ministri 2001.
Maria Giovanna di Savoia Nemours – vita,ambizioni e intrighi di una reggente del Seicento , Simonelli ed., Milano 2003
Hanno collaborato a Nuova civiltà del Rinascimento e alla rivista storica Medioevo.
APPROFONDIMENTO del testo:
Indice
Prefazione
Antefatto “Incontro con l’Oriente”
Capitolo I “Correva la fine dell’anno 1299”
La Spiritualità
Capitolo II “Il furore della fede”
Caterina, imperatrice d’Oriente
Una donna arriva dal Nord a dorso di mulo
Un’anoressica di quei tempi
Ceccolella e le sue compagne di Tor de’ Specchi
L’uva miracolosa di Santa Rita
Smeralda la “bella”
Capitolo III “Donne di spirito e d’intelletto”
Tra castelli e conventi alla ricerca di se stesse
Casta beltà, valore e cortesia
Giulia nelle maglie dell’Inquisizione
Di verginal modestia…
Artemisia, pittora
L’Accoglienza
Capitolo IV “Le dame dell’aristocrazia papale”
La papessa di piazza Navona
Una regina svedese e una principessa romana
Una donna in fuga dalla Polonia verso Roma
Aurora poetessa dell’Arcadia
I vincisgrassi di donna Giulia
Tre principesse Savoia al Quirinale
Capitolo V “Istituzioni cattoliche e opere pie”
Una religiosa irregolare
Una nobile Borghese
Una energica ragazza di Verona
La Repubblica Romana mette in crisi i giubilei
Teresa la francescana controcorrente
Una suora in corsia
Il volontariato di Brigida
Imprenditoria e Progresso
Capitolo VI “Vita quotidiana durante il Giubileo”
Una celebre locandiera
Imperia Fiammetta e Tullia cortigiane romane
La locanda della Giacinta
Emancipazionismo femminile
Il giubileo di una giornalista
Capitolo VII “I Giubilei del dopoguerra”
1950 Il giubileo della “liberazione”
1975 Madre Teresa di Calcutta
2000 Carol Woityla e la comunicazione globale
Capitolo VIII “il Giubileo della misericordia”
Testimonianze
ANTEFATTO
Incontro con l’Oriente
Giubileo sta a indicare nella tradizione cristiana una grande remissione dei peccati. Del Giubileo già si parla negli antichi libri della Bibbia: jòbhel, da cui giubileo, era il suono del lungo corno di un capro con cui si annunziava presso il popolo d’Israele, ogni cinquant’anni, un anno di santificazione e remissione.
“ Così il Signore parlò a Mosè sul monte Sinai: …E santificherai l’anno cinquantesimo, e annunzierai la remissione a tutti gli abitanti del tuo paese poiché è il Giubileo. Ciascuno ritornerà nella sua possessione e ciascuno ritornerà alla sua famiglia poichè è il Giubileo e l’anno cinquantesimo. Non seminerete e non mieterete quello che sarà nato da se stesso nel campo, e non coglierete le primizie della vendemmia, a causa della santificazione del giubileo, ma voi mangerete quello che vi si presenterà davanti”.
Il primo giubileo cristiano della storia, indetto nel 1300 dal papa Bonifacio VIII, ufficializzava una vasta e spontanea processione di fedeli, un moto di forte e sentita spiritualità verso la tomba di Pietro per ottenere la remissione dei peccati.
Non si comprende lo spirito della religiosità medievale se non si tiene presente l’aspettazione che fu vivissima durante tutta quella età di una renovatio ossia di una fine dei tempi che realizzasse in terra il regno di Dio. Questi sentimenti assumevano forme assai diverse nelle classi privilegiate e nel popolo e davano luogo a molteplici manifestazioni: alcune di esse come i rituali legati alla quotidianeità della vita – preghiere per ogni occasione, benedizione di animali e semine, regole penitenziali, osservanza dei tempi del digiuno e delle feste – entrarono a far parte del vissuto della gente; altre come alcune forme eccessive di misticismo, di pratiche magiche, etc., uscirono dalla ortodossia e divennero eresie.
Prima del 1300 esistevano i pellegrinaggi di “devozione” sia verso la Terra Santa, culla dei primi cristiani, sia verso Roma, il luogo che custodiva i corpi di Pietro e Paolo e sia verso Santiago di Compostela, in Galizia, sede del sepolcro dell’apostolo Giacomo.
I pellegrinaggi verso Gerusalemme, esaltati anche dalle vicende delle Crociate, erano numerosi e richiamavano fedeli da tutta Europa: uomini e donne, nobili e plebei, ecclesiastici e laici scendevano da Gallia, Inghilterra, Spagna, Italia, Ungheria, Germania, paesi slavi. Il vocabolo “romeo” dal greco romaios che originariamente indicava, in lingua greca, i forestieri che giungevano in Terra Santa pellegrinando, finì con il significare in seguito il viaggiatore verso Roma, e “romerie” furono le spedizioni dirette verso la nuova Gerusalemme.
I viaggi, a quei tempi, erano lunghi e pieni di difficoltà e pericoli.
L’Appia congiungeva Roma con Napoli, da qui si divideva in due bracci: uno, sotto il nome di Aquilia, attraversava la Lucania e la Calabria, passando per Nola, Nocera, Marcelliana, oggi Sala, Cosenza, Nicotera, Reggio Calabria mentre l’altro collegava Napoli con Benevento, Troia, Barletta, Bari, Otranto e Brindisi da cui ci si imbarcava verso l’Oriente. L’insieme dei due bracci veniva chiamato Appia Traiana, dal nome dell’imperatore che l’aveva fatta costruire.
La via Popilia, staccandosi a Calazia, presso Capua, dall’Appia Traiana, passava per Nocera e Salerno, attraverso la valle del Crati e del Metauro arrivava a Catona, vicino Reggio Calabria dove, nei pressi di Cannitello, esisteva una stazione d’imbarco per la Sicilia. Vi era una litoranea tirrenica che lungo la costa giungeva al fiume Angitola, si innestava nella via Popilia e scendeva a Reggio.
Il termine pellegrino etimologicamente deriva dalla parola latina peregrinus ed ha come radice per ager, cioè attraverso i campi o per eger che indica invece un passaggio di frontiere, di confini, quindi per il mondo latino indica uno straniero o un viandante. In seguito il termine acquisisce un’accezione ed una connotazione religiosa indicando chi compie un percorso per incontrarsi con il sacro, attraverso un complesso sistema di codici, riti e pratiche. Il pellegrinaggio è presente nella storia umana ma pur nella diversità e nella complessità del mondo esso significa: partire, fare un percorso e stabilire un contatto con il sacro.
I pellegrini al momento di mettersi in viaggio avevano bisogno di un documento attestante il loro stato di “romei”, sia per evitare di pagare dazi, dogane e vari pedaggi sia per avere agevolazioni nelle locande, negli ospizi ecc. e sia a Roma per lucrare il Giubileo. Al documento si accompagnava un contrassegno, che per il giubileo romano sarà la veronica, cioè il volto di Cristo dipinto e tessuto su una pezza, che veniva applicato sulla pellegrina o mantella. In mancanza di veri e propri atti anagrafici si cercava di provvedere all’identificazione dei viaggiatori con altri documenti o fogli di marcia sufficienti all’esigenza del tempo. Eccone un esempio: “Il sindaco della città di San Germano, posta nel regno di Napoli, faceva ampia e indubitata fede che di là partivano duecento uomini e centottanta donne per l’acquisto del giubileo nell’alma città di Roma arruolati sotto la compagnia del Santissimo Sacramento; poiché la moltitudine è grandiosa per questo non si è potuto nominarli uno per uno nome per cognome ma si testimonia che sessantacinque avevano la mozzetta rossa della compagnia, gli altri tanto di uomini quanto di donne presentano un bollettino con il segno del Santissimo Sacramento: e con il loro nome e cognome con la sottoscrizione del signor canonico e parroco della cattedrale; seguono i nomi ed il sigillo delle autorità comunali”.
Prima di partire il pellegrino faceva testamento, concordava il tempo della vedovanza, saldava i debiti e prendeva la benedizione. Di solito compiva il viaggio a piedi, talvolta a dorso d’asino o di mulo e solo alcuni andavano a cavallo. I nobili, spesso, in carrozza. Si viaggiava in gruppi, per motivi di sicurezza, per la situazione delle strade e per evitare incontro di briganti e anche per mutuo soccorso, in caso di malattie, di vecchiaia ecc. Era suggestivo assistere al passaggio di questi pellegrini, come scrive una cronaca d’epoca, che cantavano e pregavano tutt’insieme.
Il pellegrino indossava il saio e i sandali; e sulla pellegrina avrebbe cucito le memorie dei luoghi visitati; aveva con sé il lungo bastone, detto bordone, che terminava con un gancio ricurvo per appendervi una zucca piena d’acqua; in testa, per ripararsi dal sole e dalle intemperie, portava un cappello a falde larghe, il petaso. Lungo le strade ci si fermava per mangiare e per riposare, o all’addiaccio, sui prati, sotto gli alberi, soprattutto nella bella stagione, o, se possibile, in conventi, ospizi e locande.
Un normale pellegrino doveva disporre di denaro per necessità e servizi: cibo e bevande; alloggio per sé ed eventualmente per i servi e i cavalli; vestiti (soprattutto le scarpe); elemosine e offerte; mance; “rispetti” che aprivano le strade e le porte; soldo della confessione e altre tasse ecclesiastiche; pedaggi su ponti e strade, traghettamenti di fiumi e passaggi in mare; documento d’identità e certificato di sana costituzione; scorta. I pellegrini apprezzavano l’ospitalità dei molti monasteri che si trovavano in posizioni particolarmente adatte ai loro passaggi. In genere erano posti a distanza di una giornata di cammino o anche meno, nei punti nevralgici dei percorsi dei viaggiatori ed erano dotati di buone strutture di accoglienza.
Varie e diverse erano le motivazioni che spingevano ad affrontare i lunghi viaggi: spirituali nel popolo o nel clero; o artistiche e culturali nei letterati, pittori, scultori, etc che trovavano in questa esperienza ispirazioni per il proprio talento; o politiche e diplomatiche nei regnanti, negli ambasciatori per intrecciare alleanze utili ai propri disegni.
Il fervore religioso sia popolare che colto e il pellegrinaggio penitenziale verso Roma o Gerusalemme dal Meridione subiranno delle trasformazioni attraverso i secoli.
Le terre fertili della Sicilia, della Puglia, della Calabria, della Lucania e della Campania avevano avuto, fin dai tempi più remoti, rapporti spirituali e scambi culturali ed economici, nonché conflitti religiosi e dinastici con il mondo orientale: sia attraverso i continui pellegrinaggi verso la Terra Santa e le crociate in difesa del Santo Sepolcro, e anche per i flussi migratori che dall’Oriente provenivano, come ad esempio i monaci basiliani che importarono e diffusero in Calabria la cultura bizantina. Non va dimenticato l’apporto del pensiero e dell’azione di Federico II, tesi a mediare tra il mondo islamico e quello occidentale.
Nel medioevo i paesi di queste regioni erano fiorenti per l’abbondanza di fiumi e boschi e ricchi di castelli e monasteri ed erano centro di spiritualità, di cultura, di arte e di potere, ambìti dalle corone più importanti d’Europa.
In Calabria, intorno alla prima metà del secolo VIII, si verificava un avvenimento di grande importanza: l’arrivo dei monaci seguaci di san Basilio di Cesarea, dottore della Chiesa, detto il Grande.
Provenivano questi religiosi dal lontano Oriente ove avevano abbandonato i loro cenobi alla ricerca di tranquillità e pace; le trovarono nella terra calabrese e in essa fissarono la loro dimora. La regione si popolò di eremitaggi (laure), di monasteri, di badie e di grandi complessi monastici, come il famoso Mercurion, nella valle del fiume Lao, o quello di San Nilo, fondato da Nicola da Rossano che chiuse la sua vita, nel 1004, a Grottaferrata, ove, tuttora, è la sede principale del basilianesimo cattolico. La Calabria, quindi nell’arco di tempo che va dal secolo VIII al secolo XIII pullulò di cenobi. Essi, in un determinato periodo, diventarono così numerosi che vere e proprie colonie monastiche si dovettero trasferire nelle limitrofe terre di Lucania e di Puglia.
I basiliani mantennero sempre rapporti con l’oriente perché, a differenza degli altri ordini religiosi, avevano la libertà di spostarsi, di girovagare, da un monastero all’altro ed erano perciò anche detti “itineranti”. Essi trasformarono il volto della Calabria; determinarono un mutamento profondo non solo di carattere religioso ma anche e soprattutto economico e culturale. Rifiorì l’economia: i colli si riempirono di vigneti e di ulivi, le pianure biondeggiavano di messi, i prati si popolavano di greggi, sorsero fattorie i cui prodotti venivano anche esportati. Basilio di Cesarea vissuto nel IV secolo, aveva prescritto ai suoi seguaci la preghiera, la penitenza, l’amore per il prossimo, ma soprattutto il lavoro, sia quello manuale che intellettuale. Si diffuse anche, grazie ai basiliani, la cultura bizantina. La Calabria diventò un centro di civiltà; fiorirono le arti, le lettere, gli studi filosofici, la patristica, il diritto, la geografia e la poesia religiosa bizantina. Nei conventi furono create vere e proprie biblioteche. Verso il XIII secolo cominciò la decadenza dei cenobi basiliani, dovuta soprattutto alle incursioni saracene, alla latinizzazione della chiesa basiliana voluta dalla curia romana, all’ostilità dei normanni che favorirono il monachesimo occidentale, quello cioè dei benedettini e dei cirstercensi e al diffondersi del feudalesimo.
Molti basiliani, come Barlaam e Leonzio Pilato, si trasferirono al Nord. Barlaam, nato a Seminara, nel 1290 dopo gli studi in un monastero calabrese si trasferì a Costantinopoli dove insegnò teologia nell’Università imperiale. Ritornato a Roma fu inviato ad Avignone presso Benedetto XII per programmare la pacificazione tra le chiese di oriente e Occidente. Insegnò la lingua greca al Petrarca e divenne amico di Leonzio Pilato anche lui basiliano calabrese rinomato per avere tradotto in latino l’Odissea di Omero e per essere stato maestro di greco del Boccaccio.
La morte colse Barlaam nel 1350, l’anno del secondo giubileo, prima che potesse giungere a Roma.
Importante è anche l’opera del mistico Gioacchino da Fiore che fondò, in San Giovanni in Fiore, la congregazione dei florensi che auspicava una maggiore spiritualità, il monachesimo, la pace e la libertà.
Il santo era nato a Celico, nei pressi di Cosenza, nel 1130, da padre notaio, probabilmente di ascendenza ebraica. Si recò, ancora giovane, a Costantinopoli e a Gerusalemme da dove, convertitosi per essere scampato ad una pestilenza, tornò in Calabria. Qui dopo un breve soggiorno al monastero della Sambucina, nei pressi di Luzzi, passò al monastero di Santa Maria di Corazzo, alle pendici della Sila piccola, dove fu eletto abate nel 1167. Frequentatore ed amico di vari papi, da Lucio II da cui nel 1184 ottenne l’autorizzazione a scrivere di materie religiose. Celestino II approvò la regola del suo ordine monastico con la prima sede a San Giovanni in Fiore.
I basiliani, i benedettini, i cistercensi, i domenicani, i francescani riconobbero in queste terre suggestive i luoghi ideali per i loro conventi e per la loro opera.
Così sorsero le badie di San Giovanni Thereste presso Stilo, Santa Maria di Tridetti a Brancaleone, la Certosa di Serra San Bruno, il Santuario di San Francesco di Paola, il santuario della Madonna della Bruna a Matera, l’oratorio di San Domenico a Palermo e molti altri.
Nello stesso tempo si sviluppavano, per un influsso religioso che veniva dal centronord dell’Italia, le regole benedettina, cistercense e francescana che davano vita ad una fioritura di conventi, santuari e abbazie in queste terre soleggiate.
Le comunità ebraiche che avevano condotto in Calabria una vita separata, almeno fino a tutto il 1100, si svilupparono nei secoli successivi e soprattutto nel periodo aragonese conoscendo una grande diffusione.
Nei primi secoli del secondo millennio si stabilirono nel meridione e in principal modo in Calabria numerose colonie di valdesi e catari, provenienti dalle valli del Piemonte e della Lombardia. Questi movimenti che si ispiravano ad una più pura pratica evangelica erano state messe in fuga dalle persecuzioni religiose ed avevano trovato buona accoglienza nelle terre del Sud e nella popolazione locale con un identico bisogno di rinnovamento morale e religioso.
Il Meridione, strutturato nei regni di Sicilia e di Napoli e con la titolarità, attraverso legami parentali e dinastici, dell’Impero di Costantinopoli, del Regno di Ungheria, del Regno della Polonia, nei primi secoli del secondo millennio si trovava ad essere il centro di interessi politici ed economici della Francia, della Spagna e del Papato che miravano al potere del Mediterraneo.
Nei giubilei dei primi due secoli, dal 1300 al 1500, la devozione meridionale, il flusso dei pellegrini, sia popolari che nobili, verso la “città santa” e l’incontro con i fedeli di altre terre furono influenzati anche dalle tradizioni culturali e spirituali che venivano dall’Oriente.
Nel Gargano si possono ammirare ancora le testimonianze di questi passaggi di pellegrini: il monastero di San Giovanni in Lamis, lungo la “via sacra longobardorum” proseguimento della via Francigena. Il monastero, fondato dai benedettini tra il VII e l’VIII secolo in un punto di transito obbligato per i fedeli, dava ad essi ospitalità ed assistenza.
La Puglia, porta d’Oriente, rappresentava una vera e propria saldatura degli itinerari marittimi con il percorso via terra che conduceva a Roma. Da sempre fu la rotta di collegamento con Gerusalemme e lo testimonia il suo ricchissimo patrimonio storico e artistico: 364 chiese rupestri, ancora oggi esistenti, disseminate tra Bari e Lecce, tra Brindisi e Otranto; la chiesa di santa Croce, vicino Andria scavata nella roccia dagli eremiti, arrivati intorno al 1200 dal mare per dedicarsi alla preghiera e alla meditazione.
Le terre meridionali erano quindi importanti perché mettevano in comunicazione l’Europa con il Mediterraneo: grazie a traffici commerciali, scambi culturali, luoghi di ospitalità, di culto, di pellegrinaggio, divennero dunque un vero e proprio incrocio di civiltà.
Ferme restando, tuttavia, le pesanti condizioni economiche e sociali del popolo, vessato dai feudatari, in continua lotta tra di loro, saccheggi, miseria, cataclismi naturali e pestilenze. Queste terribili condizioni crearono penuria di manodopera per l’agricoltura e determinarono, durante la dominazione aragonese, agli inizi del 1400, l’accoglienza da parte dei feudatari della emigrazione albanese.
Il principe di Bisignano, della famiglia dei Sanseverino, gran feudatario, sposò, nel 1539, Irene Castriota, nipote di Scanderberg, valoroso condottiero albanese. Acri e Bisignano, feudi dei Sanseverino, divennero i centri della cultura albanese nella Sila greca.
La conquista delle terre meridionali da parte della corona d’Aragona, nel XV secolo, significò la piena occidentalizzazione di queste terre.
Dal 1500 in poi, con l’ascesa della Spagna, della Francia e dell’Inghilterra si attuava lo spostamento del potere verso il centro dell’Europa.
CAPITOLO I
Correva la fine dell’anno 1299
Gli ultimi mesi dell’anno 1299 erano stati, per il popolo romano, gravidi di fenomeni naturali devastanti e di quelli che apparivano come oscuri prodigi che incutevano sconcerto e timore negli animi semplici della gente. Non soltanto piogge torrenziali, turbini che facevano volare le foglie accartocciate di platani e dei lecci, semine disastrate, ma carestie e malattie si erano abbattute sulle città e le campagne circostanti. Il popolo subiva, sgomento e inerme, mentre circolavano storie straordinarie: animali che partorivano mostri, alberi che si incenerivano senza ragione, lamenti e gemiti che sembravano provenire dalle viscere della terra, neonati che sparivano dalle culle, crimini efferati. Si diceva anche che i diavoli appollaiati sopra un albero di noce cresciuto sulla tomba di Nerone, alle porte di Roma, bastonassero a morte i viaggiatori che si avventuravano da quelle parti e violentassero le lavandaie che si recavano al fiume. A Campo dei Fiori una quarantina di persone perse la vita in seguito al panico che si impadronì della folla quando un nubifragio di eccezionale entità oscurò il cielo, fino ad allora sereno, e spense di colpo le torce di una processione.
La fantasia della gente galoppava vedendo negli eventi il presagio di una imminente catastrofe. Le credenze popolari erano esaltate anche dall’approssimarsi della fine del secolo.
Certamente il popolo romano era provato da anni di guerre. Saccheggi, odii tra opposte fazioni – i principi Colonna imprecavano e maledicevano l’elezione di papa Bonifacio VIII, appoggiata invece dalla potente famiglia Orsini – tensioni e conflitti nella curia romana, culminati nella forzata abdicazione di papa Celestino V. Tutto ciò spingeva la gente, al di là della facile superstizione, ad auspicare un rinnovamento spirituale che sperava di ottenere con atti di penitenza e con la remissione di peccati.
La notte della fine dell’anno 1299 una folla immensa accorse alla basilica di San Pietro. “I fedeli si accalcarono intorno all’altare – così asserisce un testimone oculare ed autorevole come il cardinale Iacopo Gaetano Stefaneschi nel suo Liber de centesimo anno sive de Iubileo – ammonticchiandosi l’uno sull’altro come se pensassero che con il termine della giornata spirasse il tempo del maggior perdono.
Vi era chi asseriva che in quel giorno si poteva ottenere la cancellazione di tutte le colpe, mentre nei successivi si sarebbe acquistata un’indulgenza di cento anni, ma fu impossibile sostenere a chi risalisse la responsabilità di quella notizia”.
Vi fu quindi all’inizio di quel giubileo e della storia di tutti i giubilei una forte spinta che veniva dal basso.
In quella lontana livida alba del 1300 la folla dei penitenti, uomini e donne, che si riversava su San Pietro dai vari rioni, Parione, Regolo, Ripa, Campitelli, Sant’Angelo, Ponte, Monti, continuava a crescere e lo slancio popolare non dava segni di cedimento.
Andavano a piedi nudi, in segno di umiltà, portando con sé bambini e bagagli, ammalati e ossessi; dormivano per terra. Sullo spiazzo intorno alla chiesa si moltiplicavano le lunghe file di fedeli che pregando o cantando inni religiosi attendevano un segnale invisibile. Piangendo si confessavano a voce alta offrendo al Signore preghiere e lacrime, implorando che la divina giustizia si placasse.
Avvolti nelle loro tonache bianche, grigie o nere, monaci e monache, terziarie e devote, con candele di sego o con le più economiche torce, sgranavano litanie.
Numerose furono, nel gran via vai di stranieri che calavano dal centro dell’Europa, le beghine che, avvolte, nelle loro bigie mantelle, si prostravano sui freddi pavimenti della basilica gemendo e implorando Dio.
La basilica di San Pietro, sorta nel luogo dove erano stati martirizzati i primi cristiani, all’epoca era un insieme di cappelle con affreschi e mosaici bizantini, di abbellimenti e decorazioni romaniche, di campanili e guglie gotiche. Si stendeva da Castel Sant’Angelo sino alle possenti mura aureliane, lungo il Tevere, fatte costruire da papa Leone IV a metà del secolo IX per evitare le aggressioni dei saraceni.
La gente, per arrivarci, si accalcava sullo stretto ponte di Castello, l’unico che metteva in comunicazione la città con la basilica. Il passaggio al ponte era impedito da un arco e da una chiesetta che ingombravano assai il traffico. Passato finalmente il ponte e superato Castel Sant’Angelo ci si avviava sotto un porticato che fu poi demolito da papa Alessandro VI alla fine del 1400 per aprire una nuova strada.
Davanti alla basilica si ergeva l’obelisco, privo di geroglifici, fatto trasportare dall’imperatore Caligola da Eliopoli, in Egitto, e chiamato “la spina di San Pietro”. Si accedeva al vaticano solo attraverso alcune porte che si aprivano nelle mura intorno a San Pietro. Nel vasto cortile si trovava una colossale pigna di bronzo sormontata da un’edicola e dalle cui punte zampillava l’acqua benedetta per le abluzioni. Sul muro della facciata della basilica era affrescata la “Bocciata”, una madonna bizantina che sembra avesse sanguinato sotto il colpo di una boccia lanciata da un soldato spagnolo ubriaco. Superato l’atrio con le cinque porte i fedeli entravano finalmente dentro la basilica, dove restavano sbigottiti di fronte al tripudio di mosaici, di possenti colonne di marmo cipollino, di altari, di statue di legno, d’avorio, d’oro, d’argento, di bronzo, di antichi affreschi. Si ergeva al centro il baldacchino d’argento sorretto da sei colonne che proteggeva la tomba dell’apostolo Pietro, illuminata dalle numerose candele del grande lampadario donato da Carlo Magno. L’aria era offuscata dal fumo oleoso delle torce e delle candele che spandevano un acre odore.
La folla, dentro e fuori la basilica, era prostrata nella preghiera e nella penitenza. Vegliava, in alto, il gallo di bronzo dorato, issato da tempo immemorabile sulla guglia del campanile, a memoria secolare del primo tradimento nei confronti di Cristo, e rifletteva i primi bagliori dell’alba.
Ai romani di quel primo moto di fervore cristiano si aggiungevano i forestieri che arrivavano sempre più numerosi, attratti verso Roma da una forza misteriosa, e fu allora che papa Bonifacio VIII, della potente famiglia Caetani, decise di prendere in serio esame l’avvenimento. Fatto convocare il collegio dei cardinali, si discusse per circa due mesi la questione e fu presa una decisione importante: il 22 febbraio uscì la bolla pontificia con la quale il papa dava il sigillo della sua approvazione alla manifestazione sorta spontaneamente, questa data fu scelta perché vi ricorreva la festività della cattedra di Pietro.
Ebbe inizio così il primo anno giubilare che realizzava il comandamento dato dal Signore a Mosè, di cui parlano gli antichi libri della Bibbia, e fu chiamato “giubileo” dall’ebraico jòbhel, il lungo suono del corno di capro con cui gli ebrei annunciavano l’anno di riposo e di preghiere.
“Così il Signore parlò a Mosè sul monte Sinai:… E santificherai l’anno cinquantesimo, e annunzierai la remissione a tutti gli abitanti del tuo paese poiché è il giubileo…”
Il giubileo cristiano decretava la concessione di una indulgenza plenaria per quanti nell’anno in corso e in ogni primo anno dei secoli futuri – quindi ogni cento anni – da Natale a Natale, si fossero debitamente confessati e avessero visitato, a Roma, le tombe degli apostoli, per trenta volte se romani e quindici se forestieri, con una permanenza di almeno quindici giorni.
Il condono plenario di tutte le pene, se da una parte veniva ad appagare l’intensa aspettativa religiosa che aveva acceso tutto il secolo XIII, dall’altra riaffermava solennemente la potenza spirituale della Chiesa romana e rafforzava le tradizioni di Roma e del papato come centro ideale e guida insostituibili di tutto il mondo cristiano.