di Jenny
La discriminazione delle donne nel mondo del lavoro possiede tante forme, quella su cui vorrei soffermarmi in questo particolare frangente è quella della donna in quando madre (o comunque portatrice di utero). Entriamo nel mondo del lavoro più o meno dopo gli studi, quando spesso l’idea di fare una famiglia, se c’è, è ancora molto lontana, eppure, se sei una donna in età fertile, già dai primi colloqui facilmente incontrerai sguardi che accidentalmente cadranno sull’anulare sinistro e a domande più o meno velate sulla condizione sentimentale e l’idea di avere o meno dei figli. Arriva poi il momento in cui diventi mamma e qualunque sia la tua situazione lavorativa in quel momento (tranne la donna che vuole e può permettersi di non lavorare) ci si ritrova a fare i conti con una realtà lavorativa sempre più sconfortante e man mano che ti confronti con altre mamme, cosa facile se si frequentano ad esempio corsi di acquaticità per neonati, massaggio sul bambino eccetera, ti rendi conto che la maggior parte ha problemi analoghi ai tuoi: nella migliore delle ipotesi si ha la mamma assunta a tempo indeterminato che si trova ad una battuta di arresto: di colpo i suoi meriti, i suoi studi ed i suoi percorsi lavorativi subiranno un arresto più o meno duraturo, specialmente se decide di usufruire di diritti come il congedo parentale, malattie del bambino e se decide che è giunto il momento di non fare troppi straordinari. Oltre al rallentamento nella carriera vi sono spesso episodi di mobbing più o meno velato e vari tentativi di mettere in difficoltà la gestione familiare. Poi ci sono le mamme libere professioniste: se da un lato possono avere un po’ più di elasticità lavorano spesso molte più ore e in orari non “da asilo” per cui si trovano a dover gestire professione e maternità con la stessa destrezza di un giocoliere alle prese con birilli infuocati. Vi sono poi innumerevoli donne che hanno perso il lavoro grazie a contratti non rinnovati, alla crisi che ha fatto chiudere le aziende dove lavoravano e che non riescono a trovare un nuovo lavoro perché quando dicono di avere un figlio piccolo vengono innalzati muri.
A queste ed altre situazioni si va ad aggiungere il costo esorbitante degli asili (specialmente asili nido) per cui chi non ha nonni disponibili deve spendere spesso buona parte dello stipendio solo per mantenere il posto di lavoro inducendo per altro molte donne a non fare un secondo figlio, anche se ne avrebbero desiderio, perché affrontare le rette di due asili diventa improponibile. Come se non bastasse a dare il colpo di grazia è proprio il sentire comune di molte persone che si sentono “scocciate” perché le colleghe/socie ecc. hanno bisogno di più ore di permesso, piuttosto che di cambi di turno o giornate di malattie perché questo comporta a loro un surplus di lavoro. Ma a nessuno viene in mente di lamentarsi con una situazione lavorativa che evidentemente non funziona bene, ma ce la si prende con la madre che si trova presa tra due fuochi: il senso di colpa di non accudire a sufficienza il proprio figlio ed il senso di colpa di non essere abbastanza sul lavoro… già, perché tutte le nostre competenze, le nostre esperienze, i nostri studi finiscono in secondo piano rispetto al non potersi sempre fermare un’ora in più per finire il tal lavoro. Invece è stato ampiamente dimostrato che se una mamma viene messa nella condizione di poter gestire la sua famiglia riesce a rendere quanto, se non più, di prima.
In altri paesi europei l’avere figli non ostacola la carriera lavorativa, non è una discriminante quando si tratta di cercare un nuovo lavoro e fa parte della mentalità comune tener presente della funzione sociale dell’avere figli, indipendentemente dalla scelta di vita che si decide di fare. Per esempio in Svezia si viene assunte anche con il pancione e le donne/mamme lavoratrici vengono incentivate a seguire la propria famiglia e a valorizzare le differenze: un esempio è la Volvo che, quando ha scelto che tipo di seggiolino da auto usare con il proprio marchio, ha dato il compito alle mamme ingegnere di fare tutte le prove di sicurezza e di praticità, proprio perché una mamma che si trova a far spostamenti in auto con uno o più figli tutti i giorni può dare un contributo maggiore. L’Italia invece si trova all’ultimo posto in Europa per quanto riguarda il gender gap ed il motivo principale è proprio il lavoro: tantissime donne non lavorano, molte altre smettono di lavorare quando fanno figli, altre non riescono proprio a trovar lavoro in quanto donne e comunque le donne fatica molto di più a far carriera ed occupare posti dirigenziali. Lasciando perdere le statistiche (che sono facilmente consultabili su internet) la situazione è chiara anche parlando con amici e conoscenti: in molti, troppi, pensano che la maternità sia un ostacolo. Tante donne rinunciano alla carriera per crescere i propri figli e tante donne rinunciano ai figli per la carriera. Ma purtroppo tante donne si trovano a non rinunciare solo alla carriera, ma proprio al lavoro, quindi alla possibilità di avere un’indipendenza economica oltre che alla soddisfazione personale; se si trattasse di scelte personali e famigliari indipendenti dalla difficoltà che queste donne incontrano nel mondo del lavoro non ci sarebbe nulla da obiettare (esistono anche donne che son ben felici di rinunciare al lavoro per dedicarsi esclusivamente alla famiglia ed alla casa e non c’è niente di male), ma per troppe si tratta di una scelta obbligata, figlia di una mentalità in cui la vita di mamma non è conciliabile con quella del lavoro e credo che su questo, ancora, ci sia molto da lavorare.