Effetto Covid-19, perché la parola sostenibilità non sia la pagina vuota di una copertina troppo colorata

da | Ott 3, 2020 | L'opinione

di Isa Maggi , coordinatrice nazionale degli Stati generali delle Donne

 

 

La crisi da Covid 19 ha messo a nudo le fragilità di un modello di vita e di pensiero già provato dagli shock economici del 2008.

Adesso serve un salto di qualità e occorre tentare una via diversa.

Solo le donne saranno in grado di trascendere (andare oltre) i mondi sociali che il patriarcato finora ha costruito.

Ora è il momento di agire, nessun compito è più necessario e urgente, bisogna attivarsi con buone pratiche che ci mettano in condizioni di far a meno dell'uso dei combustibili fossili, del carbone, del petrolio e del gas, i principali responsabili del riscaldamento globale. Nulla vale di più che impegnarsi per salvare il Pianeta e impegnarsi per la giustizia ambientale e per il clima.

Non è la prima volta che gli Stati Generali delle donne sono impegnati nella promozione della giustizia climatica, nello studio del tema dell'impatto delle attività umane sul Pianeta, sia in termini di equità che in termini di sostenibilità. Il 18 Marzo del 2019,nell'ufficio del Parlamento europeo a Milano hanno dato vita, infatti, ad una nuova tappa nel lungo viaggio delle donne presentendo il “Patto delle donne per l'ambiente e il clima” per sottolineare ancora una volta il ruolo fondamentale delle donne per affrontare le grandi sfide che il Pianeta impone.

Genere e clima sono fattori fortemente connessi

Se in passato era quasi esclusivamente riservata agli addetti ai lavori, negli ultimi anni la questione sta sempre più interessando il dibattito pubblico, anche grazie a interventi come quello di Katharine Wilkinson alla TEDWomen del 2018.

In pieno stile TED, l'intervento di Wilkinson è di sicuro fonte di ispirazione per una riflessione importante su quanto e come la piena inclusione delle donne nelle nostre economie e società cambierebbe lo scenario rispetto alle grandi sfide globali che stiamo affrontando. A partire dalla tutela dell'ambiente e dalla lotta al cambiamento climatico.

Wilkinson è una delle autrici di Project Drawdown, un libro che investiga a fondo le possibili soluzioni per combattere il riscaldamento globale e che mette tra le principali, l'emancipazione delle donne e delle ragazze.

Nel suo intervento a TEDWomen Wilkinson spiega che il legame tra parità di genere e lotta contro il cambiamento climatico si evidenzia in tre aree in particolare, “tre aree in cui possiamo garantire i diritti delle donne e delle ragazze, rafforzare la capacità di resilienza ed evitare le emissioni allo stesso tempo”.

La prima è l'accesso alle risorse – dal credito alla formazione, dagli strumenti di lavoro ai diritti sulla terra. Le donne, argomenta Wilkinson, coltivano un minor quantitativo di prodotti rispetto agli uomini, a parità di grandezza del terreno, perché dispongono di risorse sensibilmente inferiori. Eppure, tra il 60 e l’80 per cento del cibo nei paesi a basso reddito è prodotto dalle donne: questo significa che, se si colmasse la disuguaglianza di genere nell'accesso alle risorse, lo stesso terreno produrrebbe tra il 20 e il 30 per cento in più. Un aumento della produzione nei terreni già adibiti alla coltivazione renderebbe possibile evitare la deforestazione di altre aree. Secondo le stime di Project Drawdown, affrontare la disuguaglianza nell’agricoltura potrebbe prevenire due miliardi di tonnellate di emissioni da qui al 2050.

La seconda e la terza area sono, in realtà, due facce della stessa medaglia, almeno nella prospettiva illustrata da Wilkinson: la scrittrice, infatti, sostiene che una diminuzione della crescita della popolazione mondiale sarebbe un grande aiuto per l'ambiente (pensando all'impatto che avrebbe sulla domanda di cibo, trasporti, elettricità, costruzione di nuovi edifici, produzione di ogni genere di beni). Agire sull’istruzione delle giovani ragazze, da una parte, e sulla disponibilità di strumenti di controllo delle nascite, dall'altra, avrebbe quindi il doppio effetto positivo di rafforzare la capacità decisionale delle donne su loro stesse, sul loro corpo e sul proprio futuro e di ridurre le emissioni a livello globale.

Quest'ultimo percorso concettuale sembra, forse, più avventuroso e spregiudicato del precedente. Vero è, che ci aiuta a riflettere su come ogni azione, qualsiasi sia il livello decisionale al quale viene presa, porta con sé una serie di effetti non intenzionali che potrebbero aiutare ma anche completamente annullare l’effetto dell’azione stessa, oppure creare squilibri, problemi o inefficienze in altri settori.

La connessione tra la tutela dell'ambiente e la lotta al riscaldamento globale, da una parte, e la valorizzazione delle donne nella società e del lavoro femminile, dall'altra, comunque, è un nesso tutt'altro che nuovo all'interno delle istituzioni internazionali. La Convenzione quadro sul cambiamento climatico delle Nazioni Unite, riaffermata in questi giorni, il più importante soggetto mondiale in materia, originariamente non menzionava la questione della disuguaglianza di genere. Grazie, però, al lavoro di molti gruppi di pressione e lobby di donne che hanno lavorato costantemente su questo negli ultimi 15 anni, la situazione è cambiata: nel 2012, il legame tra genere e clima è diventato un punto fermo all'ordine del giorno della Conferenza annuale delle parti (Cop), l'organo di governo del processo dei negoziati internazionali sul clima. È stato formato un gruppo di lavoro dedicato a questo tema all'interno del segretariato dell'Unfccc e ai governi è stato chiesto di nominare dei gender focal point, chiamati a rappresentare il punto di riferimento all'interno delle loro organizzazioni e a riferire sui progressi nella parità di genere e nel grado di considerazione dell’impatto di genere nella politica climatica del proprio paese.

Anche le istituzioni europee con il New Green Deal si sono interrogate sul legame tra cambiamento climatico e parità di genere ed così UN Women e la Banca Mondiale, che aveva pubblicato al riguardo un report divulgativo già nel 2011. Anche qui venivano già delineati con chiarezza i tre principali elementi che sarebbero poi stati ripresi e in certi casi ampliati da diversi soggetti internazionali: in primo luogo, che le donne sono vulnerabili in maniera sproporzionata rispetto agli effetti dei disastri naturali e del cambiamento climatico nei contesti in cui i loro diritti e il loro status socio-economico non sono uguali a quelli degli uomini; in secondo luogo, che rimediare a questa disuguaglianza e, dunque, investire sull’emancipazione delle donne è un contributo per l’intera collettività.

Ma voglio insistere sul fatto che i tre shock globali (settembre 2001, 2008 e Covid-19) hanno mandato in pezzi la narrazione che è andata sotto il titolo di globalizzazione e ha messo in crisi il sistema patriarcale fin qui adottato.

Ora questa narrazione, già in crisi, è crollata.

Senza una visione integrata e di disegno di vie nuove diventerà difficile rigenerare un’economia che non potrà che essere diversa da quella che abbiamo conosciuto.

Nella nuova economia, al femminile, la parola solidarietà dovrà essere declinata nella sua concretezza, siamo legati gli/le uni/e agli/alle altri/e.

Per ricostituire il nuovo mondo in condizione di elevata incertezza, abbiamo bisogno di nuove autorità che aiutino i/le cittadini/e, le imprese, le associazioni, i gruppi sociali a mettere in gioco le loro capacità, sentendosi parte di uno sforzo collettivo.

Senza Istituzioni autorevoli, coese e ben funzionanti, in grado di dispensare quel senso di appartenenza e protezione di cui tutti sentiamo bisogno, nessuno si potrà af–fidare a/di nessuno.

La grande sfida di questa fase è riuscire a promuovere un nuovo equilibrio metastabile tra affidamento e iniziativa, imparando a convivere con quel margine di indeterminazione a cui ci costringe la nostra condizione di moderni. Attraversare il tempo del post-Covid comporta, cioè, l’imparare a convivere con l’angoscia, senza però lasciare che il mondo si derealizzi e si distrugga completamente.

(“Nella fine è l’inizio. In che mondo vivremo”, di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti, Società editrice Il Mulino, 2020)

La necessità di convivere con il coronavirus induce ogni giorno di più a distinguere, nella vita individuale e collettiva, ciò che è essenziale da ciò che non lo è.

A livello diffuso c’è il desiderio di cambiare e una consapevolezza più alta su quanto sia urgente e vitale ripensare il paradigma economico dove la sostenibilità può essere la frontiera del nuovo mondo che verrà.

Secondo un recente rapporto della Bill & Melinda Gates Foundation, la pandemia Covid-19 ha causato un incremento del 7% della povertà estrema, con altri 37 milioni di persone che vivono al di sotto di 1,90 dollari al giorno. La quarta edizione di questa ricerca presentata a latere dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, si basa su un set di dati aggiornato che mostra come la pandemia stia influenzando i progressi verso il raggiungimento degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.

Mentre nei primi tre rapporti Goalkeepers, la Fondazione Gates aveva registrato progressi costanti sugli SDGs, dalla riduzione della malnutrizione al miglioramento dell’alfabetizzazione, il rapporto 2020 illustra come Covid-19 abbia bloccato e invertito questa tendenza positiva. Ad esempio, l’Institute for Health Metrics and Evaluation, partner nella raccolta e analisi dei dati della Fondazione Gates, ha scoperto che la pandemia farà scendere la copertura vaccinale a livelli che erano stati osservati l’ultima volta negli anni ’90. Secondo i primi trend registrati, nell’Africa sub-sahariana lo shock economico causato dal Covid-19 è destinato a incidere sul numero di persone che soffrono di insicurezza alimentare che dovrebbe aumentare da 83 a 132 milioni.

Dati che spingono il magnate americano a denunciare un potenziale arretramento di 25 anni in poco più di 25 settimane; questo il messaggio dirompente che è stato presentato a New York alcuni giorni fa durante la presentazione di questo lavoro di ricerca.

Le proiezioni presentate da Gates si innestano su altri dati allarmanti recentemente presentati sempre in ambito Nazioni Unite. Lo studio di Philip Alston, già relatore speciale delle Nazioni Unite sulla povertà estrema e i diritti umani (incarico che ha ricoperto tra il 2014 e il 2020), presentato a luglio scorso, ha messo in discussione i progressi proclamati da alcuni leader mondiali. Il rapporto sostiene che il valore minimo dell’indicatore, al di sotto del quale scatta la categoria di povertà estrema, e che al momento corrisponde all’equivalente di 1,90 dollari al giorno in valuta locale, sia esageratamente basso, ben lontano dal soddisfare le esigenze fondamentali delle persone, come quella di seguire una dieta giornaliera di 2100 calorie e di vivere in uno spazio dignitoso. Secondo il Rapporto, la cifra minima sarebbe di 2,63 dollari nei Paesi in via di sviluppo e 3,96 dollari in quelli ad altro reddito. Elementi che mettono fortemente in discussione la misurazione della povertà da parte dei grandi attori internazionali e che potrebbero moltiplicare i numeri reali dei poveri a livello globale.

La questione è stata affrontata anche dalla Oxford Poverty and Human Development Initiative presso l’Università di Oxford e dal Development Programme delle Nazioni Unite nell’Indice Globale della Povertà Multidimensionale (MPI), un indicatore che sintetizza 10 indicatori relativi a tre dimensioni ugualmente ponderate: salute, istruzione e standard di vita. Lo studio ha esaminato la situazione in 107 Paesi in via di sviluppo, cercando di identificare sia i soggetti poveri che le tendenze nella povertà e mostrando “la natura e l’entità delle privazioni sovrapposte per ogni persona” in un’ottica che tenga conto degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile.

Tra tutti i Paesi presi in esame, circa il 22% della popolazione (pari a 1,3 miliardi di persone) appartiene alla categoria dei poveri multidimensionali. Un problema che incide negativamente anche su molti altri indicatori: 803 milioni di persone multidimensionalmente povere vivono in una famiglia in cui qualcuno è denutrito, circa 476 milioni hanno un bambino che non riceve un’istruzione adeguata, mentre ancora 1,2 miliardi di persone non hanno accesso a un combustibile pulito per cucinare, 687 milioni mancano di elettricità e 1,03 miliardi vivono in abitazioni fatiscenti. Lo studio esamina anche come la povertà multidimensionale abbia inciso anche sul raggiungimento degli SDGs fissati dall’Agenda 2030.

Anche la Banca Mondiale percorre la strada della preoccupazione, affermando in un rapporto che la pandemia porterà alla prima recessione economica registrata in 25 anni nell’Africa subsahariana, con una crescita in calo dal -2,1 al -5,1% nel 2020, contro il 2,4% in 20 anni, secondo il presidente David Malpass, il numero di persone che vivono in condizioni di estrema povertà è già aumentato di oltre 100 milioni.

L’impatto immediato della recessione si potrebbe sentire soprattutto nelle aree urbane e nel settore dell’economia informale, che occupa circa l’80% della popolazione nei paesi a basso reddito. Le perdite di produzione associate alla pandemia di Covid-19 vengono stimate dalla Banca Mondiale trai 37 e i 79 miliardi di dollari nel 2020, a causa di una combinazione di fattori quali l’interruzione degli scambi commerciali e delle catene del valore, che penalizza gli esportatori di materie prime e i paesi altamente integrati nelle catene del valore globale; la riduzione dei flussi finanziari esteri (rimesse dei migranti, entrate del turismo, investimenti diretti esteri, aiuti esteri); la fuga di capitali; l’impatto diretto della pandemia sui sistemi sanitari e le interruzioni dovute alle misure di contenimento e alla risposta della popolazione.

Come spiega bene Ina Praetorius, nell’idea di economia c’è un’ambiguità da cui è tempo di uscire. Con il lockdown, infatti, è salita alla ribalta quell’economia incentrata sul vivere che non si è mai fermata. Popolata soprattutto da donne e da “invisibili” ha mostrato quanto sia indispensabile alla società. Tuttavia, nella ripartenza insiste a prevalere l’altra, quella basata su una presunta razionalità del mercato a cui si attribuisce centralità ed efficacia, ma che mostra invece tutta la sua inadeguatezza a rispondere ai bisogni creati o evidenziati dalla pandemia.

Questa è l’occasione per affrontare e superare alternative spesso ricattatorie, per esempio quella tra lavoro e salute. Per fare scelte che vanno nella giusta direzione ci vuole un orientamento di fondo: il vivere viene prima e determina uno sguardo su tutto.