Sì al ricorso del pm contro la riqualificazione giuridica del fatto in violenza privata: non è credibile che la donna abbia incassato 3 mila euro per soli due week end di lavoro alle dipendenze dell’uomo – Sentenza, 21 Novembre 2016
Estorsione e non violenza privata per la minaccia dell’amante di rivelare la tresca alla moglie dell’uomo se non è credibile che la somma di denaro che l’agente sottrae alla parte offesa sia collegata a una prestazione di lavoro. Lo ha stabilito la Cassazione con la sentenza n. 49315/16, pubblicata oggi dalla seconda sezione penale. Con la pronuncia, la Cassazione accoglie il ricorso del pubblico ministero contro la decisione della Corte di appello.
Il caso
Il giudice di seconde cure riqualificava il reato contestato a una donna da estorsione a violenza privata, condannandola a un anno e sei mesi di carcere per aver minacciato l’amante/datore di rivelare alla moglie la loro tresca, scucendogli così ben 3mila euro. Contro tale sentenza, ricorreva il Pm, deducendo che l’imputata aveva lavorato per conto dell’uomo solo per due fine settimana e che, pertanto, la somma di 3 mila euro non poteva riferirsi a tale prestazione lavorativa. Dello stesso avviso è la seconda sezione penale che accoglie l’istanza. In termini più generale, va detto che si configura il reato di estorsione e non quello di violenza privata, «nel caso in cui l’agente, al fine di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, faccia uso della violenza o della minaccia per costringere il soggetto passivo a fare od omettere qualcosa che gli procuri un danno economico».
Nel caso di specie, sebbene la Corte di appello abbia ribadito «l’efficacia coercitiva dell’azione minatoria» posta in essere dall’imputata, la stessa riteneva non provato l’elemento dell’«ingiustizia del danno in ragione del fatto che l’imputata aveva lavorato per l’offeso, sicché era in dubbio la riconducibilità della pretesa ad un credito da lavoro». E infatti, come correttamente rilevato dal pubblico ministero, il giudice di appello non ha tenuto conto che la donna aveva lavorato per la vittima per un periodo di tempo incompatibile con la somma di denaro richiesta e, aspetto da non trascurare, che l’imputata aveva confessato di aver minacciato l’uomo senza fare alcun riferimento a pregressi crediti di lavoro. La sentenza impugnata va, pertanto, annullato con rinvio per un nuovo giudizio.