Francesca Padula,scrittrice, vive a Pisa
Biologa, Specialista in piante officinali, con Tesi su sostanze stupefacenti, dal 2001 fa praticamente la mamma a tempo pieno. Nel 2003 si avventura nel mondo della parola scritta, cimentandosi in generi diversi.Ha scritto: il libro umoristico “Quanto pesa…” (2005); il romanzo “Alessandra, Capitano del RIS” (2008); la raccolta di gialli e noir “Tre casi per il Maresciallo Nardella” (2009); alcune storie di donne; suoi racconti sono risultati finalisti a Concorsi Letterari e sono contenuti nelle relative antologie.Suoi articoli, riguardanti tematiche femminili e di attualità, sono presenti in web (due sono compresi ne “Il Calderone di Manidistrega”: libro i cui contenuti sono tratti dal portale delle donne toscane).Ha una passione per i segnalibri, che crea con frasi poetiche ideate da lei e ricette della propria famiglia.Scrive su alcuni blog nella piattaforma di style.it.
Chi è Francesca Padula?
Una persona molto inquieta, fortemente ipercritica, decisa, ma profondamente insicura.
Come hai cominciato a scrivere?
Io scrivo da sempre: diari, appunti di viaggio, racconti. Tutto quello che ho scritto in gioventù, però, purtroppo è andato perso.
Se ci si riferisce a quando mi sono messa a scrivere con l’intento della pubblicazione, questo risale all’inizio del 2003: avevo diverse cose che mi frullavano in testa da tempo; una mia amica, che apprezzava il modo particolare che avevo di scrivere ciò che le raccontavo via e-mail, mi suggerì che potevo pensare di farlo “sul serio” e così è nato il mio libro umoristico.
Cosa hai scritto all’inizio?
Dopo il libro mi sono messa a scrivere articoli che ho inserito in web su alcuni siti liberi di scrittura e portali dedicati alle donne: le tematiche che affrontavo riguardavano argomenti di attualità, ma soprattutto il mondo femminile e quello dei bambini.
Che cosa significa per te scrivere?
Per me scrivere vuol dire liberare emozioni, belle o brutte, ma sempre forti emozioni.
È una necessità fisica. Mettere nero su bianco quello che ho nel cuore per me è essenziale, quasi una terapia. Se non lo facessi, il mio cervello, sempre in ebollizione, potrebbe anche scoppiare…
Perché hai scelto certi argomenti?
Il mondo delle donne e dei bambini, dato che sono mamma, mi tocca da vicino e per certe tematiche ho una tensione viscerale, mi stanno estremamente a cuore.
Parlando dei libri che ho scritto, le motivazioni sono diverse.
Il secondo è stato un romanzo con protagonista una biologa, che entra a far parte del Reparto Scientifico dei Carabinieri, in pratica la proiezione di quello che avrei voluto essere: il mio sogno di bambina e adolescente era di far parte delle forze dell’ordine, ma le tempistiche concorsuali non hanno collimato con quelle dei miei studi.
Il tempismo non è mai stato il mio forte…
Il terzo, una raccolta di cinque racconti, racchiude percorsi diversi: i tre “gialli” nascono come costola del romanzo, in quanto due ne sono l’antefatto (il terzo no, ma i protagonisti sono gli stessi), il noir lo scrissi per un concorso letterario e per fare sulla carta una sorta di giustizia riguardo a ciò che nella realtà non poteva avvenire (scrivere è decisamente liberatorio!); l’ultimo è legato idealmente ad altri due, che ho finito di scrivere di recente, sotto il titolo di “Donne di legge”: fanno parte di uno stesso filone emotivo, con protagoniste delle donne, tra di loro molto diverse, ma accomunate da una inquietudine di fondo.
Quanto c’è di te nei tuoi personaggi?
Nei miei personaggi, c’è molto di me: i miei stati d’animo, le mie incertezze, le mie paure, i miei desideri e anche i miei ideali, ma non soltanto nei protagonisti, un po’ in tutti.
Come concili la tua vita con il lavoro?
Se per lavoro si intende qualcosa di remunerativo, non la concilio, nel senso che non lavoro più da quando il mio primo figlio aveva un anno: chiesi il part-time, ma non me lo concessero e me ne andai.
Se invece si parla della scrittura, mi ci dedico nel tempo che riesco a ritagliarmi dalla mia attività principale che è quella di casalinga e mamma.
Al giorno d’oggi, in cui si parla di pari opportunità, di donne in carriera, sembra anacronistica una scelta come la mia, ma non è poi così immediato che il lavoro segua ad una Laurea e ad una Specializzazione, se c’è una famiglia da seguire e soprattutto se non c’è in tutti i campi una elasticità riguardo ai tempi lavorativi.
Nel mio caso ad esempio il rifiuto del part-time non era motivato da una reale esigenza produttiva, ma da una medievale concezione del lavoratore.
Che cosa ritieni ci sia ancora da fare per l’universo femminile?
Credo che il vuoto legislativo nel campo della tutela della maternità sia ancora ampio (e ampia è pure la non attuazione della normativa legiferata negli ultimi anni) e soprattutto che ci sia una forte disparità di condizioni a seconda dei diversi contratti di lavoro: certe cose dovrebbero avere uguale trattamento indipendentemente dalla qualifica della lavoratrice e della categoria contrattuale di appartenenza.
In Italia, poi manca proprio una rete di supporto alla maternità che possa consentire di vivere serenamente per chi sceglie di lavorare: la parola “nido aziendale” per molte regioni italiane è qualcosa che appartiene alla fantascienza.
Poi dovrebbe cambiare la mentalità generale, la parola pari opportunità dovrebbe entrare nella mente di tutti come cosa naturale e non come qualcosa di scritto ma utopicamente realizzabile.
Perché, finché con la nascita di un bambino nessuno si pone il problema che possa essere il padre a cambiare la propria condizione lavorativa (anche in termini di orario), mentre se una donna lascia il lavoro per dedicarsi alla famiglia, non è che poi sconvolga nessuno…, vuol dire che siamo ancora lontani anni luce da una reale emancipazione della donna.
Come vedi le donne in questo paese?
Le vedo perennemente in corsa e affannate, sia quelle che lavorano e basta, sia le mamme lavoratrici, che quelle che si dedicano “soltanto” a casa e famiglia.
A parte le prime, che in apparenza sembrano libere, ma che in realtà non lo sono neanche loro, per le altre credo che ci sia un gran bisogno di condivisione, cioè, se la distribuzione dei ruoli e dei compiti fosse più equamente condivisa nelle famiglie, si guadagnerebbe in serenità, certo gli uomini dovrebbero sacrificarsi un po’, ma dove è scritto che debbano farlo sempre e soltanto le donne?!?
È vero che ci sono dei casi di uomini “illuminati”, ma a parer mio sono sempre troppo pochi.
Inoltre, ne vedo soffrire troppe.
Non è ammissibile che nel 2010 si sentano ancora casi di mogli, anche giovani spose, maltrattate e vessate dai mariti, dai quali non riescono a sottrarsi e sopportano umiliazioni e sofferenze, e questo indipendentemente dal loro livello culturale e stato sociale.
Vuol dire che c’è ancora insito nella mentalità generale quel senso di sottomissione atavica che risale all’età della pietra e che non si è modificato con l’evoluzione della specie: questo mi dà un senso di profonda rabbia e amarezza.