Gender Policies Report 2018

da | Giu 26, 2019 | Donne e lavoro

Sintesi

 

Il rapporto è stato redatto in attuazione del PON SPAO, Obiettivo Tematico 8, Asse I, Priorità d'Investimento 8.i, Risultato Atteso RA 8.5, Azione 8.5.6, Ambito di attività 3

INAPP

Struttura Lavoro e professioni – Responsabile: Marco Centra

Il Gruppo di lavoro è coordinato da Valentina Cardinali e si compone di: Cristina Di Giambattista, Monya Ferritti, Rosario Murdica, Marcella Pulino, Lucia Zabatta

Premessa

L’INAPP Gender policies report rappresenta un appuntamento annuale e ricorrente della programmazione 2018-2020.

L’obiettivo del Rapporto è fornire un quadro descrittivo e analitico (non di carattere congiunturale, ma strutturale) della configurazione del mercato del lavoro femminile in Italia e dell’adozione di policies aventi effetto diretto o indiretto in chiave di genere. Ovviamente non rappresenta la declinazione per genere dei rapporti istituzionali esistenti sul mercato del lavoro, ma ha come obiettivo quello di focalizzare l’attenzione, rispetto alla fotografia esistente del mercato del lavoro di uomini e donne, su alcune tematiche qualificanti i gap di genere e le determinanti gli squilibri di genere nella partecipazione economica e sociale.

La prospettiva da cui muove il rapporto è che il tema dell’occupazione femminile non sia più etichettabile come una questione “di donne” o semplicemente di “pari opportunità”, ma rappresenti una questione che investe direttamente il processo di crescita del Paese. Dal momento che la ricchezza di un Paese si misura con il PIL (che dipende anche dal numero di ore lavorate e dalla loro produttività) non può non avere rilevanza il fatto che esista una quota di risorse umane non affatto allocata e una quota non efficientemente allocata rispetto alle proprie potenzialità e disponibilità nel mercato del lavoro.

La correzione di questa inefficienza, che ha carattere oramai strutturale, non risponde più – e non solo – ad obiettivi di equità e giustizia sociale – ma rappresenta una necessità, in un Paese con evidenti deficit di crescita e incapacità di riforme strutturali.

Gli effetti di un auspicabile incremento di occupazione femminile sono noti e ampiamente documentati1 e poggiano sulla attestazione di un effetto moltiplicatore connaturato all’occupazione femminile. Investire sull’ occupazione femminile significa innestare un circolo virtuoso di maggiori opportunità e crescita, perché l’aumento dell’occupazione delle donne comporta aumento della richiesta di servizi, aumento di alcuni consumi, miglioramento della performance delle imprese e del bacino di talenti dai quali selezionare il personale. Senza dimenticare che investire sull’ occupazione femminile significa anche migliorare la qualità di vita della collettività, perché le famiglie dual earner sono più forti e meno esposte ai rischi di povertà e che più sicurezza e più reddito hanno un indubbio effetto indiretto sulle scelte di fecondità – grande criticità strutturale del nostro Paese.

1
Solo per citarne alcuni: (EIGE): Investimenti specifici sull’aumento dell’occupazione femminile porterebbero ad un aumento del PIL europeo (GDP)
tra il 6,1 e il 9,6% , rispetto all’aumento che si otterrebbe da un equivalente investimento generalizzato, stimato al 2,2%; (Casarico, Profeta 2010) L’ingresso di centomila donne nel mercato del lavoro porterebbe all’ incremento di valore aggiunto pari allo 0,28% del PIL corrente; (Banca d’Italia): aumentare il tasso di occupazione femminile al 60% comporetebbe un aumento del 9,2% a produttività invariata e del 6,5% se si considera l’effetto depressivo sulla produttività (minore qualificazione forza lavoro, rendimenti decrescenti); (Goldman Sachs): la parità di genere porterebbe a un aumento del PIL del 13% nell’Eurozona e del 22% in Italia.

Tuttavia, l’incremento dell’occupazione femminile, (fino al raggiungimento della parità nella partecipazione tra uomini e donne o fino al raggiungimento per la componente femminile del mercato del lavoro dei target richiesti dall’Ue) è stata sinora per il Paese una sfida persa. Probabilmente perché questo tema, più di molti altri, richiede un policy making gender sensitive che, preso atto che non esiste una soluzione univoca e risolutiva, sia in grado di adottare strategie multilivello, attive simultaneamente sul versante economico, fiscale, giuslavoristico, sociale e culturale. Questo approccio richiede l’abbandono dell’ottica del presentismo e della congiuntura per l’adozione di una vision di lungo periodo che possa contare su strumenti normativi finanziari adeguati, sostenibili, al di fuori della logica della sperimentalità.

Affrontare il tema dell’occupazione femminile, infatti, significa confrontarsi con una problematica complessa, perché i fattori che limitano la partecipazione delle donne al mercato sono molteplici, di diversa natura e soprattutto tra loro fortemente correlati – attenendo alla dimensione di scelta soggettiva, ma anche di sistema, economica e culturale.

Stante queste premesse, il Rapporto guarda al mercato del lavoro di uomini e donne, con un’ottica di carattere strutturale.

Esistono alcuni elementi costanti che caratterizzano il mercato del lavoro italiano in ottica di genere e definiscono la debolezza “strutturale” della presenza delle donne nel mercato del lavoro. Nello specifico, si tratta di: gap di genere in tutti gli indicatori del mercato del lavoro (tassi di attività, tassi di occupazione, tassi di disoccupazione, inattività – a fronte comunque di tassi di attività e partecipazione femminile stabilmente in coda nelle graduatorie europee); di una “specificità femminile” nello scivolamento dall’occupazione all’inattività; di una prevalenza femminile nei lavori non standard, in un mercato del lavoro comunque segregato per genere, sia per settori e professioni che per posizioni gerarchiche; di un divario retributivo di genere costante. Inoltre, sulla partecipazione delle donne al mercato del lavoro, in maniera molto più incisiva che per gli uomini, incide la condizione familiare e la presenza di figli, nonché la disponibilità e accessibilità di servizi di supporto alla sempre più eterogenea funzione di cura. Elemento strutturale della forza lavoro femminile è inoltre la discontinuità occupazionale legata all’evento maternità, in un contesto in cui si registrano forti squilibri tra uomini e donne nella gestione dei tempi di lavoro e di cura, che incidono sul modello e sulle scelte di partecipazione al mercato del lavoro e in un contesto imprenditoriale ed organizzativo ancora fortemente dominato da pregiudizi e stereotipi di genere.

Tutti questi elementi concorrono stabilmente da circa 30 anni a configurare il modello di partecipazione femminile. Alcuni fattori sono stati aggravati dalla congiuntura della crisi economica ed occupazionale, ma per nessuno di essi la crisi può essere ritenuta meccanismo originante. La mancata risoluzione di queste criticità strutturali comporta non solo un effetto diretto sulla partecipazione o probabilità di partecipazione delle donne al mercato del lavoro, ma presenta effetti altrettanto diretti – e di lungo periodo – sul sistema pensionistico. Infatti, a seguito della riforma del sistema previdenziale operata con L. 214 del 22 dicembre 2011, è entrato a regime per la costruzione della pensione il sistema contributivo, in base al quale sono proprio le

modalità e l’intensità della partecipazione al mercato del lavoro a determinare il quantum previdenziale. Tale situazione non è gender neutral, in quanto, senza correttivi o ipotesi di riequilibrio, il sistema contributivo comporta la cristallizzazione delle criticità strutturali della presenza femminile nel mercato del lavoro e la loro conseguente trasposizione nella sfera reddituale futura.

In quest’ottica, il Rapporto, sottraendosi all’analisi congiunturale degli andamenti del mercato del lavoro in ottica di genere e in apparente controtendenza rispetto alla raffigurazione di un mercato del lavoro femminile non toccato, anzi “migliorato” a seguito della crisi, evidenzia come il 2017- 2018 non presenti alcuna novità di carattere strutturale per quanto riguarda l’occupazione femminile, quanto piuttosto la conferma della solidità dei fattori critici del mercato del lavoro femminile. Seppur a fronte di un incremento quantitativo di donne nel mercato del lavoro, assistiamo a valutazioni meno incoraggianti circa la qualità dell’occupazione registrata, il suo tasso di stabilità, la sua configurazione oraria e conseguentemente i livelli salariali. In sintesi, un modello che continua a perpetuare i fattori critici già citati e a lasciare aperti interrogativi sulla sostenibilità di lungo periodo e sull'impatto delle policy adottate.

Principali evidenze

L’esistenza di un mercato del lavoro duale tra uomini e donne è un dato strutturale del Paese, come evidenzia la serie storica di 30 anni di indicatori (fig.1). L’osservazione, apparentemente ovvia, consente tuttavia di collocare esattamente nell’orizzonte del contesto strutturale e non nella congiuntura economica i fattori critici connotanti l’occupazione femminile e conseguentemente suggerisce al policy maker di spostare lo sguardo dall’approccio spot o di breve periodo a quello di pianificazione – e valutazione – nel medio lungo periodo.

Il raffronto tra i due grafici sottostanti evidenzia alcuni elementi distintivi del mercato del lavoro duale: i valori più elevati nel mercato del lavoro maschile sono ascrivibili ai tassi di occupazione, mentre in quello femminile ai tassi di inattività. Nel caso del mercato del lavoro maschile, inoltre, sussiste mediamente una corrispondenza tra andamento dei tassi di occupazione e disoccupazione, nel senso che il passaggio dall’una all’altra condizione è piuttosto fluido, mentre nel caso del mercato del lavoro femminile si assiste al fenomeno della cd. “trappola dell’inattività”, per cui il passaggio tra le due condizioni non è automatico. L’inattività, la non disponibilità alla ricerca di un lavoro, rappresenta una condizione risultante dal mix tra opportunità offerte, vincoli esterni e costo opportunità della scelta lavorativa femminile, ed esercita la sua funzione di “trappola” nell’ostacolare un accesso al lavoro e nel sottrarre all’assetto produttivo risorse potenziali, che fuoriescono dal mercato in via provvisoria o definitiva.

Fig. 1 Indicatori descrittivi del mercato del lavoro di maschi e femmine in Italia (1998-2018)

Fonte: Istat

In questo quadro si innesta l’analisi della situazione del mercato del lavoro di uomini e donne nel 2018. Una situazione che presenta alcuni specifici elementi di contesto. Fin dalla fase di ripresa della crescita del prodotto si è registrata una dinamica del numero di occupati decisamente più alta rispetto a quella del monte ore lavorate; la crescita dell’occupazione si è accompagnata quindi ad un crescente sottoutilizzo del lavoro (aumento part time involontario e diminuzione del numero medio di ore lavorate pro-capite) ma anche ad un aumento del mismatch di competenze nel generale processo di terziarizzazione dell’economia conseguente alla crisi economica. Sempre nel biennio 2017-2018 si è registrato inoltre il massimo storico di incidenza di lavoro a termine. Il sottoutilizzo del fattore lavoro ha, in ultima analisi, determinato una bassa crescita dei salari. In chiave di genere questo processo ha evidenziato che: al di là dell'aumento delle donne occupate, registrato dagli indicatori statistici, si confermano tutte le criticità strutturali del lavoro femminile:
– incidenza elevata di lavoro non stabile
– aumento del part time (anche involontario) e diminuzione delle ore lavorate;
– prevalenza in settori e bassa remuneratività comparativa (segregazione orizzontale) e in posizioni non apicali (segregazione verticale)
– persistenza della discontinuità occupazionale dovuta a carichi di cura (maternità e
sandwich generation)

L’elevata incidenza di lavoro non stabile viene osservata sia rispetto alla misurazione comparativa dell'incidenza del tempo determinato (di seguito TD) sull’occupazione totale, sia con un focus specifico sul lavoro discontinuo – rappresentato in via esemplificativa da due istituti contrattuali: il contratto di prestazione occasionale e il libretto famiglia. Per entrambi si denota la assoluta sproporzione tra maschi e femmine sia come numero di lavoratori/trici, sia come monte ore lavorate.

Tab. 1 Occupati dipendenti a TD (in migliaia) e incidenza % sul totale per genere e classe di età

M F
Occupati TD Totale
Occupati % TD Occupate TD Totale
Occupate % TD
Classe di età
15-24 anni 321 534 60 228 352 65
25-34 anni 451 1.871 24 437 1.454 30
35-44 anni 312 2.694 12 304 2.196 14
45-54 anni 243 2.840 9 224 2.507 9
55-64 anni 113 1.616 7 77 1.437 5
65 anni e più 10 99 10 4 83 5
15 anni e più 1.449 9.653 15 1.274 8.028 16
Fonte: Istat

Tab. 2 Occupati dipendenti e occupati dipendenti a TD per genere e regioni (in migliaia) e incidenza % del TD sull’occupazione per genere e regioni

M F
Occupati totali Occupati a TD %TD Occupate totali Occupate a TD %TD
Italia 9653 1449 15 8028 1274 16
Piemonte 712 91 13 685 87 13
Valle d'Aosta 21 4 17 20 3 17
Liguria 234 32 13 209 28 14
Lombardia 1867 204 11 1625 190 12
Trentino Alto Adige 196 30 15 189 39 21
Veneto 889 135 15 770 121 16
Friuli-Venezia Giulia 216 30 14 185 31 17
Emilia-Romagna 784 129 16 741 124 17
Toscana 588 88 15 579 90 16
Umbria 142 24 17 127 21 17
Marche 242 47 19 219 41 19
Lazio 1005 131 13 864 117 14
Abruzzo 213 34 16 151 28 18
Molise 41 6 14 32 4 13
Campania 768 127 17 472 90 19
Puglia 559 103 18 353 86 24
Basilicata 83 13 16 53 9 17
Calabria 234 48 21 160 38 24
Sicilia 633 132 21 404 90 22
Sardegna 227 41 18 190 36 19
Fonte: Elab. Inapp su Istat 2017

L’attenzione alla componente non stabile del lavoro e alla sua componente di occasionalità, in chiave di genere, ha una rilevanza notevole per il policy maker in quanto fornisce la misura di un impatto potenziale di tale forza lavoro – definibile come occupata solo entro certi limiti temporali
– sul sistema di assistenza e di politiche passive a sostegno della condizione di non lavoro.

A fronte di un incidenza media nazionale del TD sul totale degli occupati dipendenti per sesso del 15 – 16% si evince che la classe di età in cui tale formula contrattuale è prevalentemente applicata è quella giovanile (15-24 anni) sia per maschi (60%) che per femmine (65%). Nel caso dell’occupazione dipendente femminile, seppur più ridotta in valore assoluto rispetto alla componente maschile, in termini di incidenza percentuale del TD la quota è comparativamente più elevata di quella maschile, in tutte le fasce di età inferiori ai 54 anni, ma in particolar modo nelle fasce di età 15-24 e 25-34. Da un punto di vista territoriale, le regioni in cui viene nettamente superato il dato di incidenza media del TD sul complesso dell’occupazione sono per gli uomini Calabria e Sicilia, per le donne invece sono Calabria, Sicilia, Puglia e Trento.

Un aspetto rilevante da evidenziare, per descrivere la condizione di debolezza delle donne nel mercato del lavoro non è solo la limitatezza temporale del contratto e il regime orario ridotto, ma la caratteristica della discontinuità della prestazione, intesa come pattern di entrata e uscita dal mercato del lavoro sulla base di prestazioni di tipo occasionale. Esaminando, ad esempio, due tipologie di prestazioni occasionali quali il Contratto di prestazione occasionale2 e il Libretto famiglia3 emerge il loro netto incremento nel biennio 2017-2018 soprattutto in relazione alla componente femminile – sia rispetto al numero di lavoratori coinvolti che nel numero di ore lavorate. Un incremento netto che consente di registrare tali persone come “occupate” ma che cela una specifica tipologia di occupazione che rafforza le criticità della partecipazione.

Per quanto riguarda il contratto di prestazione occasionale, al 2018 sono stati coinvolti 146.000 femmine e 80.425 maschi, per un monte ore di 2.710.211 per le prime e 1.565.683 per i secondi. Rispetto al libretto famiglia al 2018 sono state coinvolte 67.491 femmine contro i 12.655 maschi per un monte ore di 1.825.046 per le donne e 304.443 per gli uomini. Come si evince dalla tab.3, sia in termini di numero di lavoratori coinvolti che come numero di ore, il libretto famiglia ha rappresentato uno strumento di crescita imponente della componente femminile nel lavoro

2 Il contratto di prestazione occasionale è rivolto a diverse categorie di utilizzatori, ognuno con propri limiti e caratteristiche peculiari: professionisti, lavoratori autonomi, imprenditori, associazioni, fondazioni e altri enti di natura privata, pubbliche amministrazioni, enti locali, aziende alberghiere e strutture ricettive del settore turismo, onlus e associazioni che possono acquisire prestazioni di lavoro attraverso contratti di prestazione occasionale, per attività lavorative sporadiche e saltuarie, nel rispetto dei limiti economici previsti dalla norma. La disciplina delle prestazioni di lavoro occasionale è stata introdotta dall’articolo 54 bis, legge 21 giugno 2017, n. 96 di conversione del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50. In particolare, l’articolo 1, comma 368, legge 27 dicembre 2017, n. 205 (legge di bilancio 2018) ha disposto alcune integrazioni al citato articolo, rendendo utilizzabile il sistema delle prestazioni occasionali per le prestazioni lavorative rese dagli steward negli stadi di calcio. Rientrano nell’ambito di applicazione delle modifiche normative apportate dall’articolo 1, comma 368, l. 205/2017 le società sportive di cui alla legge 23 marzo 1981, n. 91. Infine, l’articolo 2-bis, decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87, cosiddetto “Decreto dignità”, introdotto in sede di conversione dalla legge 9 agosto 2018, n. 96, ha apportato significative modifiche alla disciplina delle prestazioni di lavoro occasionale nell’ambito delle attività agricole, del turismo e degli enti locali. L’Inps ha fornito chiarimenti a tale proposito con la circolare INPS 17 ottobre 2018, n. 103.
3 La disciplina delle prestazioni di lavoro occasionale tramite libretto famiglia è stata introdotta dall’art. 54 bis, legge 21 giugno 2017, n. 96 di
conversione del decreto-legge 24 aprile 2017, n. 50. Il libretto famiglia è rivolto alle persone fisiche che non esercitano attività professionale o d’impresa e che possono essere utilizzati dai soggetti che vogliano intraprendere attività lavorative in modo sporadico e saltuario. Gli utilizzatori possono acquisire prestazioni di lavoro attraverso il libretto famiglia, un libretto nominativo prefinanziato, composto da titoli di pagamento, il cui valore nominale è fissato in 10 euro, importo finalizzato a compensare attività lavorative di durata non superiore a un’ora. Cfr. circolare INPS 5 luglio 2017, n. 107.

discontinuo. Un dato che deve prestare attenzione è la forte concentrazione di tale tipologia lavorativa nella classe di età delle donne 30-50 anni.

Fig. 2 Contratto di prestazione occasionale e libretto famiglia. Andamento indicatori di applicazione per genere – 2017-2018 (v.a)

Fonte: Inps 2018

Tab.3 Contratto di prestazione occasionale e libretto famiglia. Indicatori di applicazione per genere e classe di età (anno 2018).

Contratto prestazione occasionale Libretto famiglia

Numero lavoratori
Importo lordo totale
Numero ore
Numero lavoratori
Importo lordo totale
Numero ore

M Fino a 29 22.950 5.538.891 423.582 2.002 454.360 39.597
30 – 50 26.685 6.730.764 491.744 4.584 945.590 76.572
51 ed oltre 30.790 8.992.753 650.357 6.069 2.188.040 188.274
TOTALE 80.425 21.262.407 1.565.683 12.655 3.587.990 304.443

F Fino a 29 41.415 9.614.528 738.845 7.321 2.254.210 195.715
30 – 50 63.541 15.878.061 1.191.615 29.771 6.688.130 605.999
51 ed oltre 41.113 10.575.279 779.751 30.399 11.929.530 1.023.332
TOTALE 146.069 36.067.867 2.710.211 67.491 20.871.870 1.825.046
Fonte: Inps

I fenomeni di segregazione occupazionale continuano a permanere sia per profili professionali (tab.4), sia per settori economici (fig.3) sia in modo congiunto tra entrambi (fig.4). Nel primo caso si evidenzia la cd. segregazione verticale (differente distribuzione di uomini e donne nella gerarchia professionale e nei ruoli apicali) e nel secondo caso la cd. segregazione orizzontale del mercato del lavoro a motivo del genere – (diversa allocazione tra uomini e donne nei settori economici).

Come evidenzia la tab.4 la concentrazione maschile nei profili professionali medio alti continua a rimanere un dato evidente (le donne sono solo il 30% dei dirigenti, il 45% dei quadri, il 19% degli imprenditori e il 35% dei liberi professionisti). La piramide organizzativa a cui corrispondono più elevati livelli retribuitivi continua ad essere male oriented, nonostante le donne presentino titoli di accesso parimenti validi o addirittura superiori.

Fig.3 Composizione di genere dei settori economici

0% 10% 20% 30% 40% 50% 60% 70% 80% 90% 100%

TOTALE

agricoltura, silvicoltura e pesca

TOTALE INDUSTRIA (b-f)
TOTALE INDUSTRIA ESCLUSE COSTRUZIONI (b-e) M
F
costruzioni

TOTALE SERVIZI (g-u)

commercio, alberghi e ristoranti (g,i) altre attività dei servizi (j-u)

Fonte: Istat 2017

Tab. 4 Occupati per genere e profilo professionale (v.a in migliaia e % donne)

M F TOT % donne per
profilo % profilo sul
totale
occupate
donne
Profilo professionale
dirigente 276 122 398 30,7 1,3
quadro 671 549 1.220 45,0 5,7
impiegato 3.273 4.401 7.674 57,4 45,5
operaio 5.348 2.896 8.244 35,1 29,9
apprendista 82 55 138 40,1 0,6
lavoratore a domicilio 3 4 7 59,5 0,0
dipendenti 9.653 8.028 17.681 45,4 83,0
imprenditore 219 54 273 19,8 0,6
libero professionista 909 490 1.399 35,0 5,1
libero professionista senza dipendenti 758 437 1.196 36,6 4,5
libero professionista con dipendenti 151 53 203 26,0 0,5
lavoratore in proprio 2.306 782 3.088 25,3 8,1
lavoratore in proprio senza dipendenti 1.617 530 2.148 24,7 5,5
lavoratore in proprio con dipendenti 689 252 941 26,8 2,6
coadiuvante familiare 134 160 294 54,4 1,7
socio di cooperativa 17 9 27 35,0 0,1
collaboratore 111 150 261 57,4 1,6
indipendenti 3.696 1.646 5.342 30,8 17,0
TOTALE 13.349 9.674 23.023 42,0

Elab. Inapp su Istat, 2017

La presenza femminile si conferma prevalentemente allocata nel settore dei servizi, (in misura tuttavia quasi corrispondente a quella maschile), mentre gli occupati uomini sono prevalentemente concentrati nell’industria e costruzioni e solo in seconda battuta nei servizi. Un dato strutturale anche questo, che trova conferma anche nell’annualità in esame. Permane e si consolida anche l’intersezione delle due forme di segregazione occupazionale di genere. Infatti, anche all’interno dei settori economici a prevalenza femminile, la gerarchia professionale e le posizioni apicali continuano ad essere prevalentemente maschili. La fig. 4, in particolare, evidenzia, come nel caso del lavoro dipendente, indipendentemente dalla quota di donne impiegate nel settore, il modello di presenza femminile sia sempre lo stesso: prevalenza del ruolo impiegatizio, seguito dal profilo di quadro e in ultimo dal livello dirigenziale. Nel settore dei servizi, dove la presenza femminile è comunque equivalente a quella degli uomini, le posizioni dirigenziali delle donne sono ricoperte solo da un terzo. Anche nel caso dell’agricoltura, ove l'incidenza femminile è solo del 26 %, si registra una quota prevalente delle donne nel profilo impiegatizio e solo l’8% nelle posizioni dirigenziali. Nell’industria, ove le donne sono il 20% degli occupate, si ripete lo stesso modello gerarchico professionale: prevalenza nei ruoli impiegatizi e solo il 9% ai livelli dirigenziali. La segregazione verticale pertanto è un modello persistente che si riproduce anche all’interno dei singoli settori economici, incidendo sul gender gap: le posizioni professionali apicali e meglio retribuite restano dominio maschile, sia nei settori male intensive – più remunerativi, ma anche

all’interno dei settori female intensive, comparativamente meno remunerativi. Ne risulta, quindi, una doppia penalizzazione delle donne in termini di redditività della propria presenza lavorativa. La segregazione di genere nel mercato del lavoro, pertanto, è un fenomeno di interesse del policy making non solo in ottica di equità dei rappresentanza, ma soprattutto perché è una delle principali determinanti dei differenziali salariali tra uomini e donne.

Fig. 4 Occupate donne per settori economici e posizione nella gerarchia professionale, lavoro dipendente (incidenza %)

80,0

70,0

60,0

50,0

40,0

30,0

20,0

10,0

26,2 20,7

50,8

43,8

53,7

dirigente quadro impiegato
% donne occupate

0,0

agricoltura industria servizi servizi di cui
commercio alberghi e ristorazione

altri servizi

Fonte: Elab Inapp su Istat 2017

A queste due forme di segregazione si aggiunge anche la segregazione oraria perché all’interno di questo modello, comunque, le donne sono impiegate per monte ore inferiori.

Esaminando infatti l’occupazione sotto il profilo delle ore lavorate (tab.5), si evince una forte differenza di genere. Le donne (il 42% degli occupati totali) prevalgono numericamente sugli uomini nelle classi di ore lavorate 11-25 e 1-10, in tutte le classi di età, mentre gli uomini sono comparativamente prevalenti nelle classi orarie lunghe (40 ore e oltre) in tutta Italia, con punte più elevate laddove l’occupazione è più consistente. Questo dato conferma il modello di partecipazione lavorativa femminile che conta su un monte orario mediamente più ristretto, sia esso determinato da volontarietà che da involontarietà (v.oltre).

Tab. 5 Occupati per genere, ore lavorate e classe di età (v.a in migliaia)

15-24 anni
25-34 anni
35-44 anni
45-54 anni
55-64 anni Totale (15 e più)

1-10 ore M 20 33 40 40 37 193
F 27 69 102 117 69 398

11-25 ore M 90 214 246 264 190 1.071
F 116 414 692 771 416 2.447

26-39 ore M 102 392 691 846 634 2.739
F 72 392 714 904 600 2.719

40 ore M 284 1.095 1.546 1.536 774 5.335
F 124 509 643 621 289 2.215

41 ore e più M 81 469 840 1.002 567 3.074
F 33 166 255 313 185 981

Fonte: Istat 2017

Anche il part time continua ad essere un istituto tipicamente femminile. Se da un lato le donne rappresentano il 42% del totale degli occupati, dall'altro, considerando i soli occupati part-time, l'incidenza delle donne raggiunge il 76%. Questa configurazione avviene all’interno della già citata asimmetrica allocazione delle donne nel mercato del lavoro rispetto agli uomini. Per cui si registrano punte di part timers donne al 75% nei servizi, ove rappresentano il 50,8 % dell’occupazione, ma anche picchi del 60% nell’industria, ove non superano il 20% dell’occupazione complessiva. Analizzando invece l’incidenza del part time sul totale dell’occupazione (tab.6), la componente femminile incide per il 18,7% a fronte dell’8,7% degli uomini. La diffusione maggiore di questo istituto si realizza nei servizi, in particolare nel commercio, alberghi e ristorazione (25%), poi nell’agricoltura ed infine nell’industria. Tuttavia anche l’incidenza del part time maschile (seppur numericamente molto inferiore, l’8,7% degli occupati) segue questo modello (11,5% nei servizi, 9,4% agricoltura e 4% industria). Il che ricorda come la strutturazione stessa dei settori produttivi possa favorire la diffusione di forme di flessibilità oraria e contrattuale e quindi determinare conseguentemente scelte organizzative e contrattuali.

All’interno di questo tema ha rilevanza la specifica del part time involontario, ossia un regime orario non scelto come condizione reversibile prevista dalla norma, ma una condizione organizzativa e contrattuale imposta dal datore di lavoro. Nel generale processo di crescita degli occupati maschi e femmine in part time involontario (fig.5), legata soprattutto dal 2008 alle strategie di labour hoarding delle aziende, tuttavia nell’ultimo biennio la crescita della componente femminile è stata nettamente più rilevante (fig.6 )

M F
TP TOT
OCCUPATI % M TP TOT
OCCUPATE % F
TOTALE 1.164 13.349 8,7 4.310 23.023 18,7
agricoltura, silvicoltura e pesca 60 643 9,4 119 871 13,6
TOTALE INDUSTRIA 189 4.746 4,0 472 5.986 7,9
TOTALE INDUSTRIA ESCLUSE
COSTRUZIONI 121 3.422 3,5 365 4.571 8,0
costruzioni 67 1.324 5,1 107 1.416 7,6
TOTALE SERVIZI 915 7.959 11,5 3.720 16.165 23,0
commercio, alberghi e ristoranti 337 2.663 12,6 1.183 4.738 25,0
altre attività dei servizi 578 5.296 10,9 2.537 11.427 22,2

Fonte: Istat 2017

Tab 7 Occupati Part time INVOLONTARIO per genere e settore economico

M F TOT % donne
TOTALE
840 1.778 2.618 67,9
agricoltura, silvicoltura e pesca 45 38 83 45,6
TOTALE INDUSTRIA 126 123 249 49,6
TOTALE INDUSTRIA ESCLUSE COSTRUZIONI 78 107 185 57,7
costruzioni 47 17 64 26,1
TOTALE SERVIZI 669 1.617 2.286 70,7
commercio, alberghi e ristoranti 253 527 780 67,5
altre attività dei servizi 416 1.090 1.506 72,4

Fonte: Istat 2017

Fig. 5 Incidenza del numero di occupati in part time involontario sul totale degli occupati part- time per genere (2004-2018)

80,0

70,0

60,0

50,0

40,0 M
30,0 F

20,0

10,0

0,0

2004 2005 2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015 2016 2017 2018

Fonte: Istat 2018

Fig. 6 Variazione % occupati in part time involontario per sesso e area geografica (2018 su 2017)

6,0

5,0

4,0

5,2

3,9

4,2

3,9

3,0

2,0

1,0

0,0

1,2

0,1

2,4

0,6

2,8

M F

1,3

Nord Ovest Nord Est Centro Mezzogiorno Italia

Fonte: Elab. Inapp su Istat 2018

Con specifica attenzione agli incentivi al lavoro dell’ultimo biennio (tab.8), seppur in presenza di un 40% di assunzioni di donne, nel complesso essi non hanno rappresentato uno strumento di azione positiva, nel senso di occasione per invertire quei trend prima esposti che originano i gap di genere nel mercato del lavoro. Il ricorso agli incentivi si è semplicemente innestato nell’ordinario scenario di criticità strutturali, riproducendone gli elementi distintivi: in chiave di instabilità contrattuale, la percentuale di donne assunte con contratto a tempo determinato sul totale dei beneficiari è molto più elevata di quella degli uomini (sono il 74% del totale, l’89% delle persone sino ai 29 anni, l’84% di quelle tra i 30 e i 49); le donne sono l’85% delle assunzioni stagionali e il 93% di quelle in somministrazione. In termini di segregazione oraria, inoltre, si conferma il ruolo dominante del part time. Di tutti gli uomini assunti, sono part time il 38%, mentre di tutte le donne assunte il part time copre il 64% (tab. 9 ).

Tab. 8 Numero assunzioni per sesso, tipologia contrattuale e tipologia di incentivo 2018

41,1

Fonte: Inps 2018

Tab. 9 Numero assunzioni per genere, tipologia contrattuale e tipologia di incentivo 2018 – incidenza part time (%)

M
di cui PT
% M PT
F
di cui PT
% F PT
Occupazione sud 20.228 8.821 43,6 12.079 8.514 70,5
Esonero giovani 19.575 5.698 29,1 13.927 7.263 52,2
Altro 15.940 6.647 41,7 50.173 33.107 66,0
TOTALE 55.743 21.166 38,0 76.179 48.884 64,2

Fonte: Inps 2018

Pur in presenza di una ridotta natalità, continua ad incidere la condizione familiare sulla partecipazione e sull’occupazione sia tra maschi e femmine che tra donne con figli e senza figli (tab.10). Nello specifico, i tassi di attività delle donne in coppia (sia con, sia senza figli) scendono di circa 20 punti percentuali rispetto ai corrispondenti tassi delle donne single; analoga dinamica si registra per i tassi di occupazione (il tasso di occupazione delle donne in coppia supera di poco il 50%, in entrambe i casi, a fronte di un 70% di donne single occupate, tra i 25 e i 64 anni).

Tab. 10 – Tassi di attività, occupazione e disoccupazione delle persone di 25-64 anni per genere, ruolo in famiglia e ripartizione geografica – Media 2017 (%)

RUOLO IN FAMIGLIA
Single
Monogenitore Coniuge/convivente senza figli Coniuge/convivente con figli
Totale
Uomini Donne Uomini Donne Uomini Donne Uomini Donne Uomini Donne
Tassi di attività

Nord 87,0 81,2 84,2 81,7 80,1 62,8 91,8 68,8 88,1 70,3
Centro 86,9 80,8 84,4 78,9 82,6 62,3 91,1 65,3 88,1 68,4
Sud 75,7 63,3 74,8 55,2 72,7 40,4 83,7 41,2 80,3 44,4
ITALIA 84,0 76,7 81,5 72,5 78,8 56,6 88,7 57,9 85,6 61,3
Tassi di occupazione

Nord 82,2 76,2 79,6 74,8 76,8 58,6 88,7 64,5 84,5 65,6
Centro 80,8 74,5 81,0 69,0 77,2 57,0 86,1 59,8 82,8 62,2
Sud 62,6 53,1 64,6 41,9 64,8 34,4 74,4 35,1 70,3 37,2
ITALIA 76,8 70,1 75,5 62,8 73,8 51,7 83,0 52,7 79,6 55,5
Tassi di disoccupazione

Nord 5,5 6,1 5,4 8,5 4,2 6,7 3,3 6,3 4,1 6,7
Centro 7,1 7,8 4,0 12,5 6,5 8,5 5,4 8,5 6,0 8,9
Sud 17,3 16,2 13,6 24,0 10,8 15,0 11,1 14,8 12,4 16,2
ITALIA 8,6 8,6 7,3 13,4 6,3 8,7 6,4 9,0 7,0 9,5
Fonte: Istat

Mentre il tasso di attività maschile oscilla, in media, tra l’88%, circa, delle regioni settentrionali e poco più dell’80% di quelle meridionali, i corrispettivi femminili passano dal 70%, circa, del Nord al 44% circa del Sud. Il divario si allarga ancora in termini di occupazione: i tassi di occupazione femminile si mantengono, in media, nettamente al di sopra del 65% al Nord, ma superano di poco il 37% al Sud (fermandosi ai 34 punti percentuali nel caso delle donne coniugate o conviventi, senza o con figli).

Non muta nemmeno il modello culturale/organizzativo familiare (tab.11). Tra le coppie senza figli prevale il modello dual earner con entrambi i coniugi/conviventi occupati a tempo pieno (787 mila donne vivono in coppie di questo tipo; 273 mila sono le donne occupate part-time con un compagno occupato a tempo pieno), sebbene, in generale, la maggioranza delle donne in coppia, anche senza figli, non appartenga alle forze di lavoro (quasi il 30% nel caso delle donne sposate o conviventi con uomini occupati a tempo pieno). In presenza di figli in famiglia, continua a prevalere un solo percettore di reddito (l’uomo) secondo il modello “lui occupato a tempo pieno, lei inattiva, mentre nel caso dei dual earner la modalità prevalente assegna all’uomo il full time e alla donna il part time. Più di 2 milioni e quattrocentomila donne con il compagno occupato a tempo pieno sono fuori dalle forze di lavoro.

Tab. 11 – Donne di 25-64 anni in coppia (coniugi o conviventi), con e senza figli, per condizione e condizione dell'uomo – Media 2017 (v.a in migliaia)

CONDIZIONE DELLA DONNA

CONDIZIONE DELL'UOMO

Occupata a tempo pieno

Occupata a tempo parziale

In cerca di occupazione

Non forze di lavoro, di cui

Senza figli

senza pensione da lavoro

con pensione da lavoro

Totale

Occupato a tempo pieno

787

273

94

460

421

39

1614
Occupato a tempo parziale 57 31 10 43 37 6 142
In cerca di occupazione 36 21 21 35 35 1 113
Non forze di lavoro, di cui: 215 82 18 721 531 190 1035
senza pensione da lavoro 64 30 11 133 121 12 238
con pensione da lavoro 151 52 7 588 409 178 797
TOTALE 1096 408 143 1259 1023 236 2905
Con figli
Occupato a tempo pieno 2332 1335 306 2418 2376 42 6392
Occupato a tempo parziale 100 92 27 154 150 4 374
In cerca di occupazione 100 73 80 204 203 1 457
Non forze di lavoro, di cui: 309 137 30 800 709 91 1276
senza pensione da lavoro 144 77 22 357 350 7 600
con pensione da lavoro 165 60 8 443 359 84 676
TOTALE 2841 1637 444 3577 3439 138 8498
Fonte: Istat

La maternità continua ad essere per la donna la prima causa di abbandono del lavoro, senza rilevante incidenza dell’ambito territoriale. Entro i primi tre anni di vita del bambino il mercato perde il 12% delle donne che lavoravano prima della maternità. Ma sono in crescita anche le dimissioni volontarie di lavoratrici madri nel periodo in cui vige divieto di licenziamento, come previsto dall’ art. art. 55 del dlgs 26 marzo 2001, n. 151, che svelano due aspetti: l’impossibilità gestionale ed economica di usufruire di servizi di supporto all’infanzia e la zona grigia di convenienza dei datori di lavoro di favorire un’uscita di risorse femminili in un periodo per l’azienda ancora percepito come problematico. Dal Rapporto dell’Ispettorato nazionale del Lavoro emerge che sono 35.003 le dimissioni e risoluzioni consensuali (circa il 12% in più rispetto all’anno precedente). Di queste 27.443 sono di lavoratrici madri; il 56% tra i 26 e i 35 anni; il 60% riguarda un solo figlio; il 47% circa delle convalide riguarda individui con un’anzianità di servizio fino a 3 anni (12.449 lavoratrici madri e 3.884 lavoratori padri). La prevalenza delle cessazioni avviene ovviamente nei settori di attività economica a maggiore occupazione femminile ( 12.377 convalide (pari al 35% del totale) hanno riguardato il settore dei Servizi, 11.431 (corrispondenti al 33%) il Commercio e 5.824 (17%) l’Industria). La concentrazione si registra nelle imprese di minori dimensioni. Il 54% (pari a 18.848) in imprese fino a 15 dipendenti e il 17% (pari a 5.985) ha interessato le imprese tra i 16 e i 50 dipendenti. Le motivazioni adottate per la scelta di dimettersi

richiamano la centralità del tema dell’equilibrio tra lavoro e famiglia e sono: difficoltà di conciliare il lavoro con le esigenze di cura dei figli = 13.854 casi (oltre il 44% in più dal 2015) e quasi tutte relative a lavoratrici madri (13.521, a fronte di 333 lavoratori padri); l’assenza di parenti di supporto = 6533 lavoratrici madri e 166 lavoratori padri; il mancato accoglimento al nido = 5.655 lavoratrici madri e 138 lavoratori padri; elevata incidenza dei costi di assistenza del neonato (es. asilo nido o baby sitter)=1.333 lavoratrici madri e 29 lavoratori padri; la mancata concessione del part time/orario flessibile/modifica turni di lavoro, = 1.302 lavoratrici madri e 288 lavoratori padri; l’organizzazione e le condizioni di lavoro particolarmente gravose o difficilmente conciliabili con esigenze di cura della prole, = 2.610 lavoratrici madri e 62 lavoratori padri; il cambio di residenza/distanza tra luogo di residenza e sede di lavoro/ricongiungimento al coniuge, = 1.044 lavoratrici madri, 195 padri.

Il tema della cd. conciliazione vita /lavoro, (che sarebbe preferibile ridefinire in termini di riequilibrio della sfera di lavoro per il mercato e del lavoro non per il mercato, nonché di condivisione tra uomini e donne dei carichi di cura) continua ad essere il grande tema che incide sulla partecipazione femminile con un crescente “effetto compressione”. Tre aspetti di questa crescente complessità sono: a) la stabilità della quota di donne che dopo la prima maternità abbandonano o perdono il lavoro e non vi rientrano; b) il fenomeno della cd. sandwich generation, con cui si definisce il target di donne intorno ai 40 anni compresse simultaneamente da esigenze di cura di figli e genitori anziani, che operano una conciliazione individuale ed equilibristica, in assenza di equa condivisione con il partner o di servizi di supporto accessibili e di qualità. Questa fascia di età, che per gli uomini rappresenta il momento di snodo per i percorsi di carriera e di incremento salariale, per le donne inizia a diventare invece un momento di forte compressione e un potenziale determinante di scelte di discontinuità occupazionale; c) la debolezza dei contesti sociali e familiari che gran ruolo hanno avuto in passato nel liberare il tempo delle donne per favorirne l’ingresso al lavoro. L’invecchiamento progressivo della popolazione e le politiche previdenziali che, allungando il tempo di permanenza al lavoro, riducono la disponibilità oraria di “nonni”, sono le due determinanti più evidenti. Un elemento ulteriore che incide sulle scelte di partecipazione delle donne al mercato del lavoro riguarda la disponibilità e l'accessibilità a servizi di supporto alle famiglie. La scarsa disponibilità di servizi in grado di sostenere il lavoro domestico e di cura, congiuntamente ai più bassi livelli retributivi offerti sul mercato alle donne, genera inevitabilmente la mancata partecipazione delle donne con salari attesi più bassi, dal momento che il reddito da lavoro non sarebbe in grado di coprire i costi di sostituzione di tale lavoro non
retribuito4.

Le policies esistenti che si inseriscono in tale contesto scontano diverse complessità: il congedo parentale, rivolto equamente a padri e madri (retribuito al 30% dello stipendio) continua ad essere adottato prevalentemente dalle donne e il congedo di paternità (troppo breve se obbligatorio e lasciato alle disponibilità finanziarie appostate nella legge annuale di stabilità se facoltativo) non riesce a incidere sul riequilibrio di genere della funzione di cura. Misure diverse quali i Contributo

4 Come conferma l’Osservatorio statistico dei consulenti del lavoro 2016 in Famiglia, lavoro, gender gap: come le madri-lavoratrici conciliano i tempi “I 6-700 euro di uno stipendio part-time coprono appena le spese di un nido e in assenza di una rete familiare di sostegno, conviene restare a casa”. Circa il 35,6% delle mamme con figli minori, infatti, non sono attive in Italia.

baby sitting o asili nido, seppur rispondono a reali fabbisogni familiari, tuttavia presentano alcuni punti di attenzione nel merito e nel metodo che potrebbero produrre effetti non voluti contrari alla cd. conciliazione e condivisione. Inoltre, nello scenario attuale di invecchiamento della popolazione e di bassa natalità le funzioni di cura si spostano progressivamente su un’utenza diversa, quella anziana, aggravando la già non equa distribuzione dei carichi di cura all’interno della coppia e mettendo in luce come la regolamentazione delle assenze dal lavoro per funzioni di cura non sia ancora stata adeguata a questa complessità crescente legata all’invecchiamento della popolazione e non fornisca alternative tra lo status di figlio o la condizione di invalidità/disabilità dell’anziano.

Rispetto alla attuazione degli istituti sinora citati, i dati Inps dell’ultima annualità disponibile (2016) indicano che sono state effettuate 92.858 richieste di congedo di paternità obbligatorio – quota nettamente inferiore alla stima della platea degli aventi diritto5. Le richieste di congedo obbligatorio e facoltativo sono state entrambe in aumento nei tre anni della sperimentazione (2013-2016) (fig.7)

Fig. 7 Beneficiari congedo di paternità anni 2013/2016 (v.a)

92.858

67.672 72.754

50.474

5.432

8.130 9.587 9.186

2013 2014 2015 2016

beneficiari congedo facoltativo beneficiari congedo obbligatorio

Fonte: Fonte: Inps

Il congedo parentale invece è stato fruito da 308.682 persone, in prevalenza donne (83%), tra i 35- 44 anni (45,8%) e i 25-34 anni (31,9%). La quota di padri che fanno richiesta di congedo parentale non supera il 17%, in età compresa tra i 35 e i 44 anni (fig.8)

5 Istat, stima su RFCL

Fig. 8 Numero di beneficiari congedo parentale negli anni 2013/2016 per sesso (v.a)

300.000

250.000

200.000

150.000

100.000

254.835 249.732 247.194 253.998 256.115

Maschi Femmine

50.000

0

31.549 34.118 36.540 45.003 52.567

2012 2013 2014 2015 2016

Fonte: Elab. Inapp su dati Inps

Circa il “Contributo baby sitting o asili nido”, previsto dall’ art. 4 comma 24, lettera b) 2013 -2016, 20176, si evidenzia come a fronte di una risposta a fabbisogni esistenti (tab.12), che hanno privilegiato più l’utilizzo flessibile presso baby sitter piuttosto che presso strutture accreditate, esistono alcuni punti di riflessione per il policy maker nell’ottica di prevenzione di effetti di ritorno contrari agli obiettivi previsti. Ad esempio, il requisito di rinuncia al congedo parentale (la cui ratio è la condivisione e il primario interesse del minore) a fronte di un rapido rientro al lavoro della madre; l’azione concessa alla sola madre in sostituzione di istituto rivolto alla condivisione di madri e padri; l’equiparazione da parte di policy pubblica tra baby sitter e strutture accreditate e non ultima la sottovalutazione degli effetti perversi sulla cultura aziendale che spinge per rientro al lavoro delle madri.
Il bonus infanzia, non rifinanziato per il 2019, rappresenta l’esempio di una misura spot di sostegno a spese di childcare con effetti di breve periodo che necessariamente andrebbe associata ad interventi strutturali di politica familiare, nell’ottica di strategia multilivello che preveda un sistema di integrazione di strumenti e di eterogeneità nell’utilizzo e non la concorrenzialità tra le misure.

6 L'articolo 4, comma 24, lettera b), legge 28 giugno 2012, n. 92, ha introdotto in via sperimentale per il triennio 2013- 2015, poi prorogato sino al 2018, la possibilità per la madre lavoratrice di richiedere, al termine del congedo di maternità ed entro gli 11 mesi successivi, in alternativa al congedo parentale, voucher per l'acquisto di servizi di baby sitting oppure un contributo per fare fronte agli oneri della rete pubblica dei servizi per l'infanzia o dei servizi privati accreditati, per un massimo di sei mesi.

Anno Bonus per Asilo Nido Bonus per Voucher Baby sitter Totale
2016 1269 6991 8260
2017 2121 13628 15749
2018 452 4302 4754

Fonte: Inps giugno 2018

Lo sguardo lungo e la vision necessaria alle policies per affrontare questi temi, citata in precedenza, potrebbe trovare spazio nella cd. policy madre ossia il gender budgeting. Il Rapporto riporta gli esiti della sperimentazione 2016 – 2017 della Ragioneria Generale dello Stato sul Rendiconto 2016-2017 per evidenziare le potenzialità dell’applicazione dell’approccio di genere all’interno della disciplina di Bilancio, con luci ed ombre. La policy ha previsto una riclassificazione contabile delle spese del bilancio dello Stato (in “neutrali”, ossia le misure non connesse al genere; “sensibili”, ossia le misure che hanno un diverso impatto su uomini e donne; “dirette a ridurre le diseguaglianze di genere”, ossia le misure direttamente riconducili o mirate a ridurre le diseguaglianze di genere o a favorire le pari opportunità). In secondo luogo ha previsto l’individuazione di indicatori statistici di monitoraggio per incidere sulle disuguaglianze di genere e la loro associazione alle strutture del bilancio contabile. Questa politica rappresenta la migliore garanzia per esercitare quanto richiesto dalla COM (96) 67 def. del 21 febbraio 1996 su:
«Incorporare la parità di opportunità tra le donne e gli uomini nel complesso delle politiche e azioni comunitarie», ossia la Valutazione di impatto rispetto al sesso (ex ante ed ex post). Decisioni politiche che appaiono neutre rispetto al sesso, infatti, possono avere un impatto differenziale sulle donne e sugli uomini anche se tale effetto non era né voluto né previsto. La valutazione d'impatto rispetto al sesso viene effettuata per evitare indesiderate conseguenze negative e migliorare la qualità e l'efficacia delle politiche.

Il Rapporto offre poi l’analisi di due temi innovativi:

a) Policy a sostegno della famiglia e dell’occupazione: La formale equiparazione dell’ adozione alla filiazione lascia aperte molte questioni e potenziali discriminazioni tra famiglie
b) La categoria «oltre il genere». L’esistenza della popolazione LGBTQ+ richiama fabbisogni e richieste di policy, rappresenta una direttrice di investimento e finanziamento di iniziative, ma presenta difficoltà di computo statistico e di indagine

Alcuni spunti di riflessione

Spunti di riflessione che possono derivare dalla illustrazione del mercato del lavoro duale e dalle policies che vi agiscono. L’obiettivo è innalzare l’occupazione femminile ma migliorandone la qualità e le prospettive di stabilità (ritorno economico, effetto moltiplicatore con benefici su reddito e consumi).

In quest’ottica quindi punti di attenzione possono essere:

• Misure generaliste o misure specifiche: è ancora un dibattito utile?
• Esperienze internazionali dimostrano che risulta efficace un approccio indiretto, un investimento primario su misure di contesto (politiche degli orari, politiche familiari, qualità della vita e del lavoro) che tuttavia si scontra con due aspetti: la disponibilità effettiva di risorse impiegabili su questi ambiti; una disciplina di bilancio e una cultura economica che tuttavia valuta questi interventi come “spesa sociale improduttiva”;
• Necessario comprendere da parte del policy making l’importanza di “investimento sociale”
di questi interventi proprio per le ricadute ad ampio spettro di queste tematiche. E in quanto investimento, come tale non solo andrebbe valutato in termini di contabilizzazione ma anche approcciato con la consapevolezza che non restituendo risultati immediati, necessita di una vision di lungo periodo.
• Necessario superamento delle rigidità della cultura organizzativa /discriminazioni, antitetico alla prospettiva 4.0 (es: come possono convivere le dimissioni per maternità e la promozione dello smart working?)
• Ruolo chiave della contrattazione di secondo livello nel cambiamento della valutazione
della remunerazione/tempo in presenza
• In presenza di risorse scarse è necessario non disperdere sforzi in politiche di cui non sia prevedibile l’impatto in fase ex ante. Pertanto appare assolutamente necessario intanto il Ritorno alla COM (96) 67 def. del 21 febbraio 1996 su: «Incorporare la parità di opportunità tra le donne e gli uomini nel complesso delle politiche e azioni comunitarie», con l’istituzionalizzazione della Valutazione di impatto rispetto al sesso (ex ante ed ex post). Decisioni politiche che appaiono neutre rispetto al sesso possono avere un impatto differenziale sulle donne e sugli uomini anche se tale effetto non era né voluto né previsto. La valutazione d'impatto rispetto al sesso viene effettuata per evitare indesiderate conseguenze negative e migliorare la qualità e l'efficacia delle politiche.