Raccontare i casi di violenza sulle donne sui media è molto, molto importante. E così i numeri che la misurano. Vuol dire non assuefarsi al fatto che ogni giorno muoiano o subiscano violenza donne in quanto donne. Perché la strage di donne continua, nelle forme di sempre, trasversale, quotidiana, efferata. Con lui che si uccide come avviene in un terzo dei casi. Lui che confessa, come nella maggioranza dei casi in cui è stato individuato l’autore. Lui che è soprattutto partner o ex ma non solo.
Raccontare i casi di violenza contro le donne è importante soprattutto se si assume l’ottica giusta di non descrivere solo la punta dell’iceberg, le donne uccise, ma anche quelle che ce l’hanno fatta a costruire il proprio percorso di libertà e sono uscite dall’inferno della violenza.
Soprattutto se i casi vengono affrontati con la dovuta competenza e riservatezza. E non come casi di cronaca nera. È importante, perché ciò permette di creare un clima di condanna sociale nei confronti della violenza sulle donne. E aiuta quelle che la subiscono a rompere l’isolamento in cui si trovano. A cercare aiuto in altre donne, amiche, parenti, centri antiviolenza, centri pubblici specializzati o nelle forze dell’ordine. La diffusione di testimonianze positive aiuta a vedere vie d’uscita possibili e praticabili. Aiuta a riconoscersi nell’esperienza delle altre. Può dare una spinta a reagire e ad autodeterminarsi. Bisogna mettere in campo una grande azione di sensibilizzazione. Far conoscere molto di più il numero 1522, al quale si può richiedere aiuto.
Far sapere che ci sono tantissime donne pronte ad intervenire e a supportare in tutti i modi chi subisce violenza. Che esistono le case rifugio. Che è giusto farsi accompagnare in questo difficilissimo percorso di libertà da intraprendere. Che sono tante le donne che sono riuscite a salvarsi, a ricostruire la loro serenità. Sono milioni le donne vittime di violenza che non ne parlano con nessuno. Più del 60% delle vittime di femminicidio, secondo l’indagine della Commissione femminicidio. La maggioranza, anche tra quelle che subiscono violenza ma non sono state uccise, secondo l’Istat. Hanno spesso paura, a volte anche vergogna, sperano fino all’ultimo, in tanti casi, che il partner amato cambi atteggiamento. Spesso temono di non essere credute dalle forze dell’ordine, che in questi anni hanno lavorato molto su questa questione – inserendo donne nei ruoli più delicati di assistenza – ma molta strada devono ancora fare.
Pensano a volte che per i figli sia meglio non separarsi dal partner violento. Non sanno, in tante, che per i bambini assistere alla violenza del padre sulla madre aumenta la probabilità di diventarne, da adulti autori (se maschi) o vittime (se femmine). L’Istat lo ha misurato: la probabilità di diventare autori di violenza cresce più di quattro volte tra chi ha assistito alla violenza del padre sulla madre. Così arriva l’escalation. La violenza col tempo non diminuisce, si accentua e diventa sempre più difficile uscirne. C’è bisogno che le donne ne siano consapevoli. Anche per questo l’azione dei media può essere fondamentale. L’importante è raccontare non solo le storie di chi non ce l’ha fatta e ha perso la vita. Ma anche di quelle che ce l’hanno fatta. Raccontare il grande lavoro che i centri antiviolenza e tante strutture anche sanitarie svolgono, la loro elevata professionalità. Parlarne, parlarne, parlarne. Informare. Questo è un grande servizio che i media possono rendere alle donne di questo paese. Combattendo le visioni stereotipate che sono sempre presenti al loro interno, investendo sulle competenze. Impegnandosi attivamente in questa battaglia per un diritto umano fondamentale, essere libere dalla violenza maschile, dalla volontà di possesso e za maschile, dalla volontà di possesso e dominio dell’uomo sulla donna, un dovere della collettività civile, prima che un diritto delle donne.
Linda Laura Sabadini
La Stampa, 02 agosto 2023
nell’immagine dell’articolo un passato flash mob contro la violenza sulle donne