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Andando in questi giorni al cimitero per deporre sulla tomba dei miei cari genitori un fiore e recitare una preghiera, sono stato assalito più d’una volta da pensieri che si rivolgono al senso della vita, al suo significato e su ciò che è il mio rapporto con gli altri. Sono momenti in cui ti fai mille domande che spesso passano come acqua sotto i ponti perché, purtroppo, restano sempre irrisolte.
E allora mi viene in mente la conduzione del nostro quotidiano in una società che invoglia alla superbia, al classismo, ad un continuo sgomitare per arrivare prima degli altri anche con mezzi non proprio leciti, all’invidia dell’uno verso l’altro ed a tanti altri aberranti atteggiamenti che ci distolgono dal fatto che nessuno di noi è eterno e che non vale la pena di tirare fuori da noi stessi il peggio che c’è. Tu perché sei più colto, tu perché hai fatto una grande carriera e hai raggiunto l’apice della tua professione, tu che hai un tenore di vita superiore alla media e ti dissoci da chi non è stato abbastanza bravo per diverse situazioni di vita a raggiungere il tuo stesso livello, crei inevitabilmente un separatismo di classe.
L’ha scritto il Conte De Curtis in arte Totò, in quella sua ‘A Livella, che tante volte abbiamo letto e poi anche sentito recitare. Un classico della letteratura italiana che è senza tempo, che non passerà mai di moda per il suo significato profondo che mette in luce l’essenza egoistica della persona, sempre pronta a fare un netto distinguo tra classi sociali, tra ricco e povero, tra aristocratici e ceti medio bassi. Ma quando diciamo solo a parole che siamo per un livellamento di rapporti umani e sociali, ecco che mentiamo a noi stessi mettendo in atto la finzione, l’ipocrisia a cui ricorriamo spesso quando non possiamo essere sinceri e dire ciò che pensiamo veramente. E’ l’eterna lotta di questa frenetica vita che non ci sorta mai a pensare che tutto finisce, e che lì, in quel luogo chiamato cimitero in cui tutti noi andiamo da vivi per onorare il ricordo dei nostri cari defunti, un giorno ci saremo anche noi.
E’ un po’ quello che ha scritto Totò, che camminando tra le tombe del cimitero s’imbatte in due ombre; il Marchese signore di Rovigo e di Belluno che apre la surreale discussione lamentandosi con fare polemico che la salma del netturbino – tale Gennaro Esposito – sia stata deposta accanto alla sua.
E mentre il netturbino all’inizio assume quasi un atteggiamento accondiscendente, quasi mortificato dinnanzi all’ombra del marchese, tira poi fuori la sua saggezza e ammonisce il borioso nobile del fatto che, indipendentemente a ciò che si era in vita, col sopraggiungere della morte si è tutti uguali.
“Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive: nuje simmo serie…..appartenimmo à morte!”.
Salvino Cavallaro

