Il no al test del Dna fa scattare la dichiarazione di paternità nonostante i problemi sessuali dell’uomo
L’impianto di una protesi non equivale a incapacità di generare, liberamente valutabili il rifiuto della prova e le dichiarazioni della madre
Per fondare un giudizio di paternità basta il rifiuto dell’ex al test del Dna. Ma non solo. Il giudice può liberamente valutare le prove, anche se sono basate sulle sole dichiarazioni della madre del piccolo. Lo ha sancito la Cassazione con la sentenza 20235 del 19 novembre 2012.
La prima sezione civile, in linea con la decisione della Corte d’appello di Trento ha interpretato il rifiuto dell’uomo di sottoporsi all’esame del Dna come elemento a sostegno della fondatezza delle ragioni della donna, che ha dichiarato la pregressa intimità con l’uomo, il quale, invece, aveva negato perfino di conoscerla, venendo smentito dalla documentazione versata in atti dalla donna (tabulati telefonici e sms). Insomma, la motivazione addotta del rifiuto dell’uomo di sottoporsi al predetto esame, fondata esclusivamente sul suo diritto a non essere costretto a esami clinici, era in contraddizione con la scelta di rendere pubbliche le proprie difficoltà nel rapporto sessuale, che lo avevano determinato all’età di venti anni a sottoporsi all’impianto di una protesi, circostanza peraltro irrilevante ai fini dell’accertamento di cui si tratta, non valendo essa a escluderne la capacità di generare. Piazza Cavour ha ricordato che «l’articolo 269 Cc stabilisce espressamente che la prova può essere data con ogni mezzo, con l’unico limite costituito dal fatto che il quadro probatorio non può consistere nelle sole dichiarazioni della madre e nella sola esistenza di rapporti tra la madre e il preteso padre all’epoca del concepimento. All’interno di questo perimetro, il giudice può liberamente valutare le prove, non sussistendo al riguardo limiti legali (articolo 116 Cpc), e può trarre argomenti di prova dal contegno processuale delle parti. Deve, pertanto, escludersi che il rifiuto ingiustificato di sottoporsi alla prova ematologica possa essere valutato solo se sia stata provata aliunde l’esistenza di rapporti sessuali tra il presunto padre e la madre naturale». Ma non solo. La Suprema corte ha ribadito che «in tema di dichiarazione giudiziale di paternità naturale, il principio della libertà di prova, sancito, in materia, dall’articolo 269 Cc, non tollera surrettizie limitazioni, né mediante la fissazione di una sorta di gerarchia assiologica tra i mezzi di prova idonei a dimostrare la paternità o la maternità naturale, ne, conseguentemente, mediante l’imposizione al giudice di merito di una sorta di “ordine cronologico” nella loro ammissione e assunzione, a seconda del “tipo”di prova dedotta, avendo, per converso, tutti i mezzi di prova in materia pari valore per espressa disposizione di legge». Insomma, il rifiuto ingiustificato di sottoporsi agli esami ematologici costituisce, dunque, un comportamento valutabile da parte del giudice ai sensi dell’articolo 116 Cpc, anche in assenza di prove dei rapporti sessuali tra le parti, in quanto è proprio la mancanza di riscontri oggettivi assolutamente certi e difficilmente acquisibili circa la natura dei rapporti intercorsi e circa l’effettivo concepimento a determinare l’esigenza di desumere argomenti di prova dal comportamento processuale dei soggetti coinvolti, potendosi trarre la dimostrazione della fondatezza della domanda anche soltanto dal rifiuto ingiustificato a sottoporsi all’esame ematologico del presunto padre, posto in opportuna correlazione con le dichiarazioni della madre.