1-10-2014
Kamikaze è un parola giapponese.
Significa “vento divino” che come un tifone cancella ogni cosa.
Non a caso fu usata per definire gli attacchi suicidi dei piloti giapponesi carichi di esplosivo, contro le navi alleate in rotta nel Pacifico durante la seconda guerra mondiale.
Da allora gli attacchi suicidi in altre parti del mondo e in altri momenti storici hanno assunto la stessa definizione e i suoi protagonisti sono diventati i moderni “kamikaze”, un fenomeno in crescita ovunque.
Di solito di natura terroristica e militare, hanno assunto anche valore di volontà individuali.
Il vento divino non bada ad identificare chi travolge né chi lo compie; uomini, donne e bambini (che vengono usati come si può usare una qualsiasi altra arma).
Diventare Kamikaze apre le porte del paradiso.
Per tutti coloro che l’incontrano aprono l’inferno.
Chissà cosa avrà pensato Arin Mirkin, la ragazza curda che si è fatta saltare in aria per colpire una postazione di miliziani dell’Isis, uccidendone diversi.
Era destinata all’oscurità di un’orrenda guerra, Arin, se non si fosse massacrata a Kobane, città siriana al confine con la Turchia.
“La prima donna kamikaze nella guerra contro l’Isis”, ha sottolineato la stampa.
Perché molte altre donne curde, combattenti contro questa organizzazione terroristica, ce ne sono, impegnate sul fronte dei combattimenti.
Quello delle donne kamikaze non è certo un fenomeno nuovo.
Esplose per la prima volta, nel 1985 in Medio Oriente, con l’attentato suicida di Sana Khyadali, una giovane libanese di 16 anni che si fece esplodere al volante di un'auto imbottita di tritolo, vicino ad un convoglio militare israeliano.
Dopo di lei fu la volta di altre cinque donne.
Un fenomeno per essere tale, deve espandersi e negli anni successivi prese piede in tutto il mondo (Sri Lanka, Israele, Cecenia, Turchia, India, Pakistan, Uzbekistan e Iraq). Nell'arco di un ventennio, tra il 1985 e il 2006, più di 220 donne kamikaze si sono fatte esplodere.
Forse perché accaduto in Occidente, fece scalpore l’attentato messo in atto da due donne contro la metropolitana di Mosca nel marzo, 2010, in cui rimasero uccise 27 persone.
Terribile nel 2004, il massacro della scuola di Beslan, nella repubblica russa dell'Ossezia (344 vittime tra cui 186 bambini), un atto compiuto da un gruppo di kamikaze tra cui anche due donne mentre diciannove, erano quelle del gruppo di terroristi che nel 2002 sequestrarono 700 persone al teatro Dubrovka di Mosca.
Poi abbiamo conosciuto, le sconosciute “vedove nere” di Allah, come venivano chiamate le combattenti cecene disposte a tutto pur di vendicare mariti, i fratelli e figli morti in guerra, per la loro determinazione alla morte.
In Iraq si cimentò l'ideatore delle martiri, al-Zarqawi e la provincia di Diyala, roccaforte della guerriglia sunnita, era considerata la fucina delle “fidanzate di Allah”.
Nello Sri Lanka, a combattere in un sanguinoso conflitto interetnico, tra il 190 e il 2000 si sono registrati ben 168 attentati suicidi, con almeno un terzo delle circa diecimila tigri costituito da donne, per la maggior parte minorenni.
Le/i kamikaze, si lanciano come armi di morte contro obiettivi militari o contro centri popolosi, usando questa forma di omicidio-suicidio anche per attirare l’attenzione e seminare il terrore.
Ma l’impegno attivo delle donne, nei conflitti armati, è da intendersi anche come partecipazione alla causa comune.
La storia è piena di nomi femminili e di martiri.
Nel nostro Paese, nell’ultima guerra, le donne hanno avuto un ruolo importante nello svolgere del conflitto, nella resistenza, pagando anche con la vita il loro impegno.
Perché se in alcuni paesi, dove religione e ignoranza conducono ad un fanatismo assoluto che può indurre a ricercare una forma di riscatto attraverso azioni considerate eroiche, i motivi che possono spingere una donna a farsi saltare in aria sono, riteniamo, gli stessi che muovono un uomo.
Per ciò che si sta verificando da tempo e oggi in quei paesi, possiamo forse interpretarlo anche come una forma plateale del desiderio di emancipazione che si è affacciato nella cultura islamica, che stenta però a compiersi dovendo fare i conti spesso con una realtà di vita assai discriminante.
Dunque la parità, almeno nel martirio può essere riconosciuta?
No; perché essa si perpetua anche oltre il martirio.
Possibile? Cosa c’è di più penoso che perdere la vita ed abbandonare i propri affetti?
Il “trattamento di fine rapporto”, potremmo chiamarlo.
Ovvero, il sussidio che da riconoscere alle famiglia di queste “donne-bomba”, ridotto alla metà di quello dato alle famiglie di martiri uomini.
Forse Arin, l'ultima kamikaze , viene considerata un caso diverso dagli altri perché non si è immolata per compiere un attentato suicida. Raccontano infatti che abbia compiuto questo ultimo gesto di lotta perché rimasta priva di munizioni, non volendo essere catturata e diventare schiava dei miliziani dell'Isis.
Se questa è la verità su Arin Mirkin, lo sapeva solo lei, e la sua morte, o il suo martirio, potranno essere usati come ad ognuno piacerà.
Una cavalla di razza.
Per le lettrici di Dols un ricordo di Mariella Gramaglia
Per le giovani lettrici di Dols e molte altre, questo nome forse non dice molto ma grazie ad Internet non sarà loro difficile sapere chi era, cosa ha fatto e perché ne parlo.
Considero le notizie ricavate dal web un prezioso ed ormai imprescindibile strumento di conoscenza a disposizione delle interessate/i e quindi non mi voglio dilungare a ripetere il lungo elenco delle belle cose da lei fatte. Credo invece di renderle un meritato ricordo nel rammentare la sua persona, per come l’ho conosciuta io.
Ci siamo incontrate negli anni ’70. Eravamo entrambe impegnate, su sponde leggermente diverse, nella politica e nel sociale. La incontrai ad un dibattito, alla sala dei convegni della rivista socialista “Mondo operaio”, molto attiva per gli incontri culturali e politici.
Ne avevo sentito parlare. Dicevano tutti che era molto brava, impegnata.
Al primo approccio non ebbi molta simpatia per lei; mi sembrò fredda, poco comunicativa con quella voce metallica che è stata una caratteristica che avvalorava invece i suoi pensieri saggi e profondi.
Ho continuato a non amarla e forse a considerarla una rivale. Vattela a pesca, come siamo fatte noi donne! Navigavamo per lo stesso mare del femminismo, della politica, della cultura riformista eppure non riuscivo a rompere il ghiaccio. Poi è accaduto quello che era giusto accadesse.
Perché la stima e l’intelligenza reciproca non poteva che sciogliere quel gelo.
L’ho rincontrata in un’ altro convegno, entrambe incinte. Unite in uno dei più importanti accadimenti del femminile, nel portare in grembo un pezzo di futuro su cui scherzammo “Speriamo che sia femmina”, al quale avremmo potuto insegnare le nostre idee e trasmettere le nostre faticose battaglie per un futuro migliore.
E’ necessario non ignorare, nel passaggio degli anni, persone come lei, insieme a tantissime altre, che hanno lottato per cambiare l’immagine e la vita delle donne.
Per chi l’ha conosciuta rimangono di lei i ricordi, i suoi splendidi articoli, i suoi scritti e le sue parole; come a me che non molto tempo fa ebbi il piacere di presentare un libro insieme.
Alla nostalgiche, alle ricercatrici, alla sensibilità individuale, rimarranno sul web tracce di storia del movimento femminile e delle sue protagoniste, fra cui sicuramente Mariella. Ad alcune di quelle che della storia possono fare a meno perché troppo egoiste ed impegnate ad afferrare il presente, non rimarrà niente.
Facimm ammuina
di Marta Ajò
Che orrore signora D’Urso quel selfie con Renzi. Con quello che vuol far passare come antico di merende.
Per noi, invece e ci piaccia o no, è il nostro Presidente del Consiglio e questo dovrebbe fare la differenza.
Matteo, dai, permettiamoci anche noi una confidenza, ci ha abituato ad uno stile diverso da quello eccessivamente imbalsamato dei suoi predecessori e siamo abituati ai suoi modi, un po’ copiati e un po’ personalizzati, misti di americanismo all’Obama e alla Fonzie, di giovanilismo in jeans, di modernità informatica, di tweet, selfie e strette di mano. Consenso. E’ questo quello che Matteo insegue e sta raccogliendo. Questo Paese ha tanto bisogno di una spolverata!
Dunque ognuno ha il Presidente del Consiglio che si merita. Se ci siamo meritati Monti ora è il momento del cambiamento.
Matteo siamo con te, sembra gridare un popolo affranto.
A noi, poveri osservatori di ciò che accade, perché la storia ci avvolge e si svolge per nostra responsabilità ma anche per nostra inazione, non resta che riconoscere la forza e la potenza della comunicazione di massa attraverso i suoi strumenti tradizionali o meno. Fra questi certamente l’immagine e il potere della televisione.
Ci sono studi approfonditi sulla forza della comunicazione, lungi da noi entrare nel merito.
Ne riconosciamo la forza, ci spaventa la forza.
Dunque il nostro Presidente del Consiglio è fatto così, come lo era Berlusconi, come ognuno nella propria caratterialità.
Nell’ultima apparizione televisiva presso il programma della conduttrice di C anale Cinque, Barbara D’Urso, meglio nota per portare, usare, intervistare, manipolare i casi più pietosi per attirare l’attenzione, Matteo è stato, come al solito, un protagonista ed insieme a lui è esplosa la capacità della conduttrice di ricavarne tutto il meglio o il peggio che ci si poteva aspettare.
Facimm ammuina!
Buttiamoci tutto dentro. Pubblico, privato, cose serie, cose facete, programmi politici, speranze da soddisfare, difficoltà da attenuare, muscoli da gonfiare, intese, occhiatine, sospiri, bacetti, promesse.
Come è bello, come è bravo, quanto lo vorrei, peccato sia sposato. Ecco il maschio italiano, il capo, l’uomo per tutte/i. Inquietante. Affiorano cupi ricordi.
Verrebbe da dire alla signora d’Urso che non è necessario vendersi l’anima.
Si può fare buona televisione, senza per questo essere cupi presentatori; su può parlare, scherzare ma mai dimenticare che mandiamo messaggi a chi ci guarda.
Se Matteo ha ancora una volta dato l’immagine di un giovane leader a cui piace esporsi ma che ha anche cose da dire, della conduttrice ne è uscita l’immagine di una sciantosa di altri tempi.
Sorrisi increspati da codice a barre, voluttuosi e ridicoli; uno zerbino ad immagine femminile su cui ci si può pulire qualsiasi cosa calpestata.
Che brutta immagine signora D’Urso.
Pareva aver dato il meglio/peggio di sé già con la drammatica vicenda del bambino di Cainano, invece ci ha sorpreso ancora una volta.